TITOLO ORIGINALE: Pacifiction – Tourment sur les îles
USCITA ITALIA: 11 maggio 2023
REGIA: Albert Serra
SCENEGGIATURA: Albert Serra
GENERE: drammatico, thriller, grottesco
DURATA: 163 min
Presentato in concorso al festival di Cannes 2022
Il regista catalano torna a parlare della Storia o, meglio, della sua fine in Pacifiction, un film che corrompe e tradisce a proprio uso e consumo i meccanismi del cinema di genere e le regole che informano la percezione spettatoriale. Uno che utilizza la chiarezza espositiva (data anche dalla dilatazione temporale e dalla limitatezza spaziale) per creare confusione, paranoia, tensione, a fare di una cospirazione quasi rivettiana una spirale impenetrabile, su cui è impossibile fare luce. Quel che più colpisce della pellicola di Serra è però l'operazione di trasfigurazione e derealizzazione di Tahiti, che diventa man mano un non-luogo lynchano, una discoteca oscura ed inquietante, un palcoscenico di inerme divagazione ed apocalittica bellezza.
Qualcosa si muove nelle acque profonde al largo dell’isola di Tahiti, nella Polinesia francese. È da molto tempo che onde così alte non lambivano le coste. Circola anche la voce che alcune ragazze del posto, di notte, si imbarchino su una piccola barchetta e scompaiano al largo per qualche ora, facendo poi ritorno - doloranti e sconvolte - soltanto alle prime luci dell’alba. Che sia un mostro primordiale o, addirittura, ancestrale, proveniente da un’altra epoca, dal passato, oppure un sottomarino mandato al largo di quell’isola per compiere qualche test segreto, non ha davvero importanza. Quel che è certo è che c’è qualcosa che sta strisciando sotto la superficie (delle cose, della realtà) e che niente e nessuno potrà fermarla.
Non può far nulla l’alto commissario della Repubblica francese di stanza, l’eccentrico e singolare De Roller, che, preoccupato dall’intensificarsi di queste voci, da come queste ultime potrebbero compromettere la propria posizione e la propria salvaguardia, nonché da quella che potrebbe essere la risposta della popolazione nativa (segnata indelebilmente da ciò che accadde nell’atollo di Mururoa, nel trentennio fra il 1966 e il 1996), laddove queste voci dovessero essere confermate; inizia a passare in rassegna le proprie conoscenze, al fine di accendere la luce (dirà proprio così, ad un certo punto) sulla natura di questo vero e proprio mondo sommerso.
È d’altronde proprio questo il sottotitolo scelto per l’edizione italiana di Pacifiction, il nuovo film del catalano Albert Serra, che, come brillantemente sintetizza questo titolo tanto curioso, quanto geniale, vuole raccontare la finzione che costituisce, informa e sorregge un ecosistema, un posto, un mondo all’apparenza quieto, mite, pacifico. Egli riaffronta pertanto il motivo, il tema che torna periodicamente in tutta la sua opera. Ossia la Storia o, più specificatamente, la Storia quale “tensione fra uno spazio limitato e il tempo necessario a viverlo”, come scrive acutamente il critico Giona A. Nazzaro.
Questa volta, però, si disfa dell’ambientazione storica di pellicole come Honor de cavalleria, La Mort de Louis XIV o il più recente Liberté, riportando la lancetta ad un simil-presente per mostrare e raccontare quello che succede dopo, forse alla fine di tutto. E lo fa attraverso i meccanismi del cinema di genere: dal thriller di intrigo politico, alla spy e detective story a sfondo esotico; senza però mai accontentarsi di soluzioni e risvolti semplici, ma tradendo e corrompendo in più di un’occasione i parametri che regolano la percezione dello spettatore, rielaborandoli in maniera del tutto personale e sempre secondo gli intenti della propria visione.
Allora, nell’economia di Pacifiction, il rapporto con lo spettatore è fondamentale, tanto quanto quello con la Storia. Serra sparge e dissemina indizi e sintomi a iosa, lungo il corso dei (fin troppo generosi) 160 minuti, tali da permettere a chi guarda di lavorare e riflettere insieme, o anche meglio, in una posizione più elevata del protagonista, che spesso risulta quasi un inetto. Il suo mosaico sensoriale, più che meramente narrativo, prevede numerosi vicoli ciechi e momenti di distrazione, ma rende, al contempo, la verità estremamente limpida e trasparente, accessibile fin da subito ai meglio disposti al suo tipo di sensibilità cinematografica.
Ed è proprio questo lavoro di costruzione e concerto con l’istanza narrante e gli interpreti che rende Pacifiction coinvolgente, appassionante, intrigante, anche quando su schermo potremmo dire non stia accadendo alcunché. Lo spettatore viene edotto ed informato della possibile entità e portata del mondo e del racconto sommersi, di tutto quello che non viene detto, ma di cui viene fatta intuire la presenza, attraverso piccoli elementi e minimi dettagli, in un rapporto davvero magistrale col fuoricampo - quest’ultimo, riassunto nel segmento dell’avvistamento col binocolo, uno fra i più tesi e memorabili di tutta la pellicola -, ma anche e soprattutto riuscendo a bilanciare quella che è, a tutti gli effetti, una sublime contraddizione.
Infatti: la dilatazione temporale che contraddistingue la scansione narrativa di copione, messa in scena ed infine montaggio, garantisce invero chiarezza e verità massima agli eventi e alle situazioni rappresentate. Tuttavia, è proprio questa stessa chiarezza espositiva e, per certi versi, anti-sintetica, a creare confusione, paranoia, tensione, a fare di questa cospirazione quasi rivettiana una spirale impenetrabile, su cui è impossibile fare luce.
Ciò detto, tutto questo apparente giocare a carte scoperte, mostrando fin da subito l’artificiosità del mondo diegetico in cui Serra immerge il commissario De Roller - interpretato da un imprescindibile, misurato e poliedrico Benoît Magimel - e il suo pubblico, non è che finalizzato al rovesciamento definitivo di attese e previsioni, quello che introduce al terzo ed ultimo atto.
Appunto, come egregiamente espresso dalla fotografia di Artur Tort - il quale compone una sorta di cartolina da sogno immaginaria, teorica, mentale e, nonostante i tramonti, i panorami mozzafiato, le vedute paesaggistiche, la vegetazione, soffocante ed “interna” (come fu poi per la vita e la pittura del grande Paul Gauguin) -, più ci si avvicina ai titoli di coda, più l’isola di Tahiti perde qualsiasi riferimento geografico, trasformandosi piuttosto in un tunnel infinito, in un vortice senza uscita né salvezza, in una soglia sull’abisso che sembra riecheggiare l’esoterismo e la mitologia lovecraftiana, in un non-luogo vertiginoso di chiara ispirazione lynchiana.
Un territorio (anche narrativo e discorsivo) di confine tra la realtà e la finzione, l’illusorio, l’irreale, il lisergico, l’onirico, dove l’intuizione diventa molto più utile della logica, il (lavoro maniacale sul) sonoro più importante di ogni cosa, l’astrazione massima e l’universalità di ciò che viene mostrato e rivelato quanto più sconfinata. Uno dove i personaggi iniziano a comportarsi ed esprimersi come tali, artificiosamente, in qualità dei fantocci che sono e sono sempre stati.
In tal senso, nel suo ultimo, ridicolo ballo, nella coreografia della distruzione e dell’armageddon definitivo, la politica si trasfigura in una discoteca oscura, mesmerizzante, inquietante, rischiarata ogni tanto (neanche a dirlo) da luci artificiali e stroboscopiche, dove la parola perde ogni suo valore (e la svalutazione, soprattutto pragmatica e concreta, della parola politica è un fenomeno che è possibile osservare sin dai primi minuti di film, in ogni meeting, dialogo, discorso, dibattito) e le persone memoria, equilibrio, buon senso, cognizione e consapevolezza.
Quelle stesse persone ormai inabili di controllare qualcosa, qualsiasi cosa, di contare davvero, di vivere al di fuori della proprie donchisciottesche illusioni, di essere registi, e non mere pedine, del lancinante ed inerte fluire della Storia. La quale, dal canto suo, ha esaurito il proprio tempo ed estinto il proprio spazio, è finita e può solo (ri)vivere e (ri)morire su un palcoscenico di inerme divagazione ed apocalittica bellezza.
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