TITOLO ORIGINALE: Lynch/Oz
USCITA ITALIA: 15 maggio 2023
USCITA USA: 2 dicembre 2022
REGIA: Alexandre O. Philippe
SCENEGGIATURA: Alexandre O. Philippe
GENERE: documentario
DURATA: 108 min
Presentato in anteprima al Tribeca Festival 2022 e al BFI London Film Festival 2022
Il regista appassionato di cinema essay Alexandre O. Philippe organizza e sostiene sei amici e colleghi in un documentario che osserva, indaga, ripensa tutto il lavoro del maestro del surrealismo, attraverso il riflesso e lo specchio de Il Mago di Oz di Victor Fleming, e dell’impatto che proprio questo film ebbe sull’immaginario, sul patrimonio culturale e sul futuro cinema di un giovanissimo David Lynch. Il risultato è una pellicola libera e travolgente che alterna elucubrazioni, acrobazie ermeneutiche ed esercizi critici (o para-critici) più o meno brillanti, scavando le moltitudini della filmografia lynchiana, dei suoi elementi ricorrenti, aspetti, simboli, motivi, riferimenti, connessioni biografiche, per scoprire quello che si cela da qualche parte oltre la tenda.
“Ogni film tenta di essere un remake de Il Mago di Oz” disse una volta il regista Joel Coen. Ovviamente, scherzando. Eppure, forse in quella sua affermazione c’era e c’è un fondo di verità; l’osservazione audace e provocatoria di uno sguardo geniale ed unico del cinema contemporaneo.
A gettarsi nella proverbiale tana del bianconiglio e a percorrere le possibili realtà di quell’affermazione, è Alexandre O. Philippe - ancor prima che regista, esperto di cinema essay, appassionato di critofilm, contenuti extra, dietro le quinte, supercut, video saggi, interviste, riletture e ricontestualizzazioni di testi assodati e storicizzati dalla cinematografia mondiale - in Lynch/Oz. Ovvero un documentario che, come da titolo, osserva, indaga, ripensa (non solo) tutto il lavoro del maestro del surrealismo e di una delle voci irripetibili del cinema della post-modernità (compresi i primi lavori, i cortometraggi, le interviste, le masterclass, le ospitate in TV, persino i mitici Weather Reports), attraverso il riflesso e lo specchio dell’iconico adattamento che Victor Fleming trasse del celebre romanzo per ragazzi di L. Frank Baum a fine anni ‘30, e dell’impatto che proprio questo film - un flop d'incassi, divenuto un appuntamento liturgico e natalizio con la riproposizione in televisione - ebbe sull’immaginario e sul patrimonio culturale americano nei decenni a seguire, fino ad incrociare lo sguardo ed abbagliare per sempre un giovanissimo David Lynch.
Un’ossessione più o meno inconscia è allora ciò che tenta di raccontare ed esaminare il film di Philippe, non direttamente, con la propria voce e in prima persona, ma organizzando e supportando le elucubrazioni, le acrobazie ermeneutiche e gli esercizi critici (o para-critici) di sei colleghi e amici.
E quindi, a seguito di un’introduzione che è una specie di omaggio e compendio dei capisaldi, dell’atmosfera, dell’inquietudine, per non dire del brand lynchiano, il documentario si sviluppa e scompone in sei capitoli quasi del tutto autonomi fra loro, ognuno attento e volto a ragionare su un diverso elemento ricorrente, aspetto, simbolo, motivo, riferimento del macro-universo di David Lynch e del cinema anglo-americano in generale, in correlazione, giustapposizione o, addirittura, sovrapposizione con tutte le varie sfaccettature de Il Mago di Oz, una sorta di proto-ipertesto. Di iperfilm che contiene tutti gli altri, tutti quelli che sono venuti dopo, anche se, così dicendo, non terremmo conto della perfetta ed integerrima adesione del lavoro di Fleming al modello paradigmatico - quello del viaggio dell’eroe - che ha influenzato tutti i testi narrativi classici dalla notte dei tempi.
Il linguaggio è fondamentalmente quello del video essay, con assoluta predominanza dei materiali audiovisivi, degli split screen, del voice over dei sei “esperti” a loro commento, tant’è che la fruizione cinematografica convenzionale potrebbe non essere la più indicata, se non per godere sul grande schermo di alcune delle sequenze più celebri dei lavori di Lynch e altri. Questo perché lo spettatore viene letteralmente travolto da un tornado (tanto per rimanere in tema) di spunti ed osservazioni - alcuni validi, altri meno -, e si potrebbe quindi aver bisogno di mettere in pausa più volte per riflettere e ricollegare i puntini. Al contempo e dal canto suo, il film non fa altro che assecondare questa idea di libero flusso di coscienza che sembra contraddistinguere alcuni degli interventi.
È d’altronde proprio a partire dalla libertà (ermeneutica, di analogia, per alcuni biografica) che si informa la particolarità dell’esperimento di Philippe. Essa però è anche la prerogativa del suo più grande difetto: la ridondanza e l’incapacità di sintesi, che potrebbero lasciare il proverbiale amaro in bocca a più di una persona. D’altro lato, potremmo dire ciononostante che forse è proprio questo labirinto di tende, corridoi, stanze della mente, di pensieri, epifanie, alchimie, suggestioni e possibili percorsi, a fare di Lynch/Oz un vero critofilm lynchiano, con tutte le moltitudini, le cripticità e le oscurità del caso. Un'opera che nasce dal presupposto di riporre totalmente nel pubblico la fiducia e la libertà nell’abbandonarsi a ciò che gli riesce ad ispirare, e trovare una spiegazione, un significato, un filo conduttore. Il proprio filo conduttore.
Sempre la libertà, non a caso, è il valore sul quale si fonda quel sogno americano che, come viene proposto nel quinto capitolo (a cura della coppia di regista Justin Benson e Aaron Moorhead), il migliore, più interessante, giudizioso e concreto dei sei; sembra quasi essere il centro e la vera ossessione di tutta la sua carriera da “surrealista popolare”, alimentata dalla scomposizione, ridefinizione e rimessa in scena più o meno in profondità della sua altra ossessione. Appunto, Il Mago di Oz, che prende il posto di quello che Cristo ha rappresentato per altri maestri surrealisti, come Jodorowsky e Buñuel.
Secondo Benson e Moorhead, il cineasta avrebbe quindi usato il patrimonio culturale che Oz rappresenta nella coscienza comune degli americani per ragionare sulla dialettica tra sogno e mito americano. Per ragionare dunque sul decennio in cui questo confronto si è fatto più evidente: gli anni ‘50. Un periodo felice ed entusiasmante per gli Stati Uniti (ed il loro cinema), i cui emblemi, miti ed immagini tornano, con prepotenza ed insistenza, nel suo cinema. Un’epoca profondamente conservatrice e perbenista, dallo “splendore artificiale” (come volutamente artificiosi, nel senso etimologico del termine, sono gli effetti di montaggio usati da Lynch), nella quale il benessere di molti è stato pagato duramente dalla sofferenza di pochi [l’idea secondo cui il male assume significato grazie al bene torna più e più volte nella caratterizzazione complessa, eppure distinta di eroi e villain dei suoi film]. Un decennio durante il quale vi è stato quasi uno sdoppiamento dell’America e la nascita di un suo doppelganger socialmente squalificato, la cui sofferenza, orrore e oscurità si ripresentano e riemergono regolarmente, e che Lynch, nel suo corpus cinematografico, riesce a visualizzare, vedere, sublimare.
Parimenti importante, nell’ostinata manifestazione e nel continuo ragionamento sul rapporto, sulle molteplicità, sui sottili strati di realtà che distinguono il sogno dal mito americano, è la figura di Judy Garland (l’attrice che interpreta Dorothy nel film di Fleming), una personalità ed un personaggio che pare quasi il parto perfetto della mente, di un sogno o di un incubo di David Lynch, per via del suo essere doppio di sé stessa (un po' come accade al personaggio-personaggi di Betty Elms e Diane Selwyn in Mulholland Drive).
“Chi è Judy?”. "Dov’è Judy?”. In queste due domande - che i personaggi di Twin Peaks si pongono in continuazione - si cela, per chi scrive, lo spunto magari non del tutto inedito, ma comunque più prezioso di Lynch/Oz.
Secondo Philippe, sarebbe dunque lei - od una sua idealizzazione - l’inafferrabile spettro (un tema fondamentale dell’ultimo capitolo, tenuto da David Lowery) che si cela al di sotto della superficie della realtà data. Quello che lo attende da qualche parte oltre l’arcobaleno. Ciò verso cui sta scavando sin dai tempi dei primissimi cortometraggi. Quello che si trova, tra vento, membrane, mondi, infinità, dietro la tenda. Infantile interiorizzazione lynchiana de(ll'esperienza da spettatore de) Il Mago di Oz. Via d’accesso alla magia più pura, ma anche alle sue oscure e più recondite bugie.
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