TITOLO ORIGINALE: Il sol dell'avvenire
USCITA ITALIA: 20 aprile 2023
REGIA: Nanni Moretti
SCENEGGIATURA: Francesca Marciano, Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 95 min
Presentato in concorso alla 76ª edizione del festival di Cannes
Il fallimento di Tre piani è strettamente collegato con Il sol dell'avvenire, l'ultima fatica di Nanni Moretti, in quanto motivo scatenante di una riflessione amara su un'intera filmografia e, va da sé, un'intera vita, che lo ha portato, in primis, a rompere una promessa fatta già venticinque anni fa, e poi alla consapevolezza che solo nei film le cose e le persone cambiano. Greatest hits, fan service, bignamino, un duchampiano ready-made, quintessenza, apoteosi, un ripetersi parodico, sincera e dolente celebrazione della fine di tutto: con Il sol dell'avvenire, Nanni Moretti arriva a realizzare un film bifronte che trae forza dalle debolezze, e debolezza dalle forze. Il dilemma è quindi (solo!) nostro, di noi spettatori. Aut aut: seguirlo nella fuga di un utopico e rassicurante (micro-)mondo o trovare il coraggio di abbandonarlo.
Una delle scene più sentite, oltre che belle, di Aprile di Nanni Moretti è quella che vede protagonisti lo stesso regista (come spesso accade nei suoi film) nei panni di sé stesso e l’amico e collega Renato De Maria. È il 44° compleanno del primo e il secondo tira fuori un metro. Gli chiede quanti anni ha intenzione di vivere ancora. Il festeggiato dice di getto “80” - se ne pentirà poco dopo (“volevo dire 95”). Allora, l’amico porta il metro ad 80 centimetri e, subito dopo, toglie i 44 centimetri di vita che egli ha già vissuto e "spento" proprio quel giorno, e mostra al primo i 36 centimetri, ergo i 36 anni che gli restano da vivere, secondo la stima e la prospettiva che questi aveva fatto, senza pensare, qualche istante prima.
Nell’osservare quello che gli rimane, il cineasta giunge ad una conclusione che parrebbe definitiva, ad una nuova consapevolezza, ad un punto di svolta. Come confiderà, in voce over, nel segmento successivo, aperto, luminoso, spensierato, nel quale lo vediamo scorrazzare, come da rito, per le strade deserte ed afose di Roma, in sella alla sua mitica ed inseparabile Vespa; egli ha preso la decisione - dovuta anche alla felicità momentanea e fugace, ma importante, dell’essere diventato padre - di voler smettere di fare ciò che deve, di arrabbiarsi per tutto, talora pure inutilmente, e di voler, al contrario, iniziare a raccontare quello che gli interessa realmente, che lo rende allegro e sereno. Smettere, in poche parole, di vivere all’ombra di Michele Apicella, quella maschera mostruosa e, come direbbero gli anglosassoni, larger than life che, già all’inizio degli anni ‘80, in Sogni d’oro, veniva portata alle estreme conseguenze.
Ebbene, da questo finale ripartiamo e a questo finale ritorniamo oggi, nel 2023, per parlare de Il sol dell’avvenire, ultimo (e quattordicesimo) inserto della filmografia del fu autarchico, che il pubblico italiano ha l’opportunità di vedere un mese prima della sua presentazione ufficiale ed internazionale al 76° Festival di Cannes.
Perché quella promessa, così avida di futuro, dichiarazione d’intenti di un’ideale seconda fase - più vicina ad un autorialismo e ad un dramma italiano misurato e facilmente definibile, sulla falsariga dei vari Comencini, Luchetti, Ozpetek, e, in certi suoi percorsi, di fatto proto-sorrentiniano -, è stata disattesa e rotta. A malincuore, certo, con un’amarezza, una malinconia di fondo ed un malessere che fa di quest’ultimo Il sol dell’avvenire quasi un nuovo Aprile, un nuovo, definitivo ed irreparabile punto di cesura dell’opera morettiana.
Il metro si è accorciato ulteriormente. I centimetri rimasti, secondo le stime originarie, sono solo dieci. Tra qualche mese (ad agosto 2023, ndr) Nanni Moretti spegnerà ben 70 candeline. Tutto è cambiato, nel cinema, nel suo cinema, in Italia, nel mondo. Ma l’intensità del sentire e del sentimento è la stessa che, nel 1998 (ma già nel 1994), lo portò a quel tentativo di auto-convincimento, di sincero ottimismo e di aperta fede in un trasformismo positivo personale, esistenziale ed artistico, laddove sul fronte politico il trasformismo era alla base della sconfitta e del più totale fallimento, tanto nei valori quanto nella credibilità, della classe politica italiana (ed indirettamente dell’ascesa incontrastata di quel Berlusconi, che, qualche tempo più tardi, lui stesso avrebbe fagocitato ed annientato, con un atto di intelligente iconoclastia, ne Il Caimano).
Questa volta, però, il disagio, il turbamento non sono rivolti più alla disillusione in campo ideologico, al riconoscimento della propria disfatta, e della disfatta dell’intero sistema-Italia, al rigetto di un impegno e di una militanza che non hanno portato davvero a nulla, al rifiuto infantilizzato, ironico e capriccioso del cinema quale compito o dovere civico di informazione, commento o, più semplicemente, rassicurazione. Essi sono rivolti piuttosto al deludente esito e risultato (di critica e di pubblico) dell’estrema conseguenza di quella promessa, fatta in quel finale, in sella alla Vespa, ben 25 anni fa. Un film, il cui titolo è Tre piani, che è forse quanto di più lontano esista dal morettismo che ha fatto storia e che è già stato ampiamente analizzato sui libri di storia del cinema. Una pellicola nella quale Nanni Moretti non soltanto si interfaccia con il primissimo adattamento della sua carriera, trasportando nella Roma borghese il noto ed omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo; ma decide di rappresentarsi in maniera iconoclasta, sovversiva, quale incarnazione eccellente di quella borghesia paternalista che aveva sempre tentato di urtare e dissacrare, ben lontana dalla vittoria e dal trionfo, magari agrodolce, caustico, talora sbagliato, di Michele Apicella o di altri suoi alter ego, scegliendo addirittura, ad un certo punto, di morire ed uscire completamente di scena.
Accolto malamente dagli stessi ferrei sostenitori del regista, Tre piani è stato senz’altro un passo più unico che raro all’interno del corpus morettiano, un’eccezione, una mosca bianca che, per quanto irrisolta e difettosa in molte sue scelte, presentava comunque dei risvolti interessanti ed intraprendeva un discorso molto intelligente sulla senilità. Il suo fallimento non ha fatto altro che confermare una cosa: che nella vita “nessuno cambia (o può cambiare) realmente”.
È quest'ultima una delle battute più sentite de Il sol dell’avvenire, pellicola in cui, per l’appunto, Nanni Moretti arriva a ragionare sulla condizione del suo cinema ed inevitabilmente della sua esistenza (che ne condivide moltissimi aspetti, in un gioco di specchi mai interrotto dagli esordi ad oggi), riconoscendo finalmente la sua adesione più totale a quel leopardismo, quella tensione verso una felicità irraggiungibile, che è sempre stata cifra ricorrente della sua produzione e del suo pensiero dentro e fuori la finzione, dentro e fuori le maschere.
Ed è allora sulla memoria (che, secondo il regista, mancava agli italiani nel già citato Aprile), sul ritorno al passato, su una sorta di usato sicuro, che gioca questo ritorno morettiano sul grande schermo, che, a differenza di quanto dice (l’ennesima emanazione del suo io) in un momento del racconto, avviene a soli due anni - e non a cinque - dal lavoro precedente.
Greatest hits, fan service, bignamino, un duchampiano ready-made, quintessenza, apoteosi, un ripetersi parodico: in molti modi è stata definita questa riproposizione aggiornata di tutto ciò che Moretti è stato, significa e continua, indomito ed inimitabile, a rappresentare nell’immaginario collettivo, tra semplici omaggi, citazioni e madeleine proustiane (la camicia di Caro Diario, la coperta a maglia di Sogni d’oro, la piscina, il circo Budavari, i dolci, le canzoni italiane e non che irrompono incontrollabili e contagiose in scena), ed inserti ed innesti meno immediati da scovare (il disprezzo per pantofole e scarpe, la scena col pallone, la stessa ambientazione anni ‘50 che faceva da sfondo al trasognato musical-panacea, con protagonista un pasticcere trotzkista, accennato in Caro Diario, ribadito e portato effettivamente in scena in, di nuovo, Aprile).
Un’operazione, questa, che sembrerebbe rispondere ad una precisa intenzione di confessione e autoanalisi (per cui Moretti ha sempre interrogato il cinema, fin dai tempi del succitato Sogni d’oro), verifica, ma anche di bilancio, prova del tempo, riepilogo di una filmografia, conclusione di un ciclo, rettifica di una decisione.
O forse, per l'appunto, di riconoscimento di quel singolo fallimento, che diventa perciò retroattivo e porta a considerare l'idea di fallimento di tutto un cinema, il suo, che anche quando poteva dirsi ed era realmente “sovversivo” - come viene qui gridato in uno scambio di battute tra Moretti e lo schizofrenico, ancor più nevrotico, e un po’ macchiettistico produttore interpretato da Mathieu Amalric -, ha e sempre e comunque rimpianto un tempo andato e che, ora come non mai, per non soccombere, è costretto a rifugiarsi nel proprio mondo. Di se e ma, di eccezioni in corpo ed ossa, di volti conosciuti e familiari, di riti (che bisogna celebrare, “altrimenti il film andrà male”), di temi e posizioni decennali, come quella nei confronti di un cinema sempre meno etico e sempre più violento, o la tutela ironica, mordace, ma certo un po’ furba e pretestuosa, del cinema d’autore italiano dalle maglie di anglismi, algoritmi, numeri, statistiche e momenti “what the fuck” (che sono poi gli stessi con cui lo stesso cineasta spiazzava la sensibilità del pubblico già ai tempi di Io sono un autarchico) di Netflix.
Il sol dell’avvenire porta dunque il punto focale di tutta la produzione e la poetica morettiana: l’appartenenza; verso risvolti e pieghe tra i più malinconici, sconsolati, delusi e deprimenti è possibile ricordare.
Mentre tutto attorno a lui cambia, ne disattende la fiducia e le certezze, lo abbandona, si dilegua, passa alla maggioranza (mentre lui, come riconosceva ai tempi di Caro Diario, si “troverà sempre con una minoranza di persone”); mentre il mondo gli dimostra che forse il suo cinema, ma anche il Cinema tutto non importi più a nessuno e non abbia più alcun senso di esistere, Giovanni, alter ego di Moretti, tenta di opporre un’inutile resistenza, intraprende la missione impossibile di provare a tenere tutto insieme e fare in modo che tutto ciò che lo circonda ne rispetti la visione, le idee, le idiosincrasie, i principi.
In risposta, questo tutto diventa soltanto manifestazione vivida ed inesorabile della propria disfatta e di una solitudine man mano sempre più dolente. Un memento mori, a cui il nostro reagisce con una sincerità mai vista, ed un’amarezza ed un dolore mai così espliciti e diretti.
Il regista e(rgo) il suo protagonista falliscono infatti in tutti e tre i piani (pardon) nei quali si scandisce e sviluppa la sceneggiatura e il racconto de Il sol dell’avvenire, co-scritto da Moretti insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella. Fallisce il suo matrimonio di vita e sentimento, ma anche artistico, con la moglie Paola (Margherita Buy), produttrice di tutti i suoi film e spalla, forse più utile che amata, su cui piangere, consolarsi e sentirsi compreso. Falliscono le speranze e il sogno di produrre un film tratto da Il nuotatore di Cheever, che “forse dovevo fare quando ero in forma, quando ero magro”, mentre quello tutto raccontato da musiche e canzoni italiane, sulla storia d’amore tra due giovani ragazzi è possibile solo in sogno (in alcune delle sequenze più riuscite del film).
Ed è proprio nel sogno, in un disatteso turning point, o, ancora, nell’utopia à la Tarantino di un (micro-)mondo vittorioso, in cui tutti dimostrano l’appartenenza fervida, festosa, sorridente agli stessi ideali e allo stesso cinema, il suo, che si celebrano e, al contempo, falliscono sia il suo film nel film - ambientato, come anticipato sopra, nell’Italia degli anni ‘50, su una sezione del PCI che assiste dapprima impotente all’invasione sovietica di un’insorta Ungheria e alla pudica ortodossia del comunismo italiano - sia Il sol dell’avvenire, che in quel finale, in quella parata di volpediana o felliniana (l’ultimo di tanti rimandi al cinema di Fellini sparsi lungo la pellicola, che è a suo modo l’ennesimo 8½ morettiano) memoria, dismette la promessa e le prospettive future del titolo, asseconda del tutto un’esigenza, un’emozione, un preoccupazione, un sentire, chiari e percepibili sin dai primissimi momenti e si accontenta fondamentalmente di sé stesso e, al massimo, come sopra, delle fantasmatiche frammentazioni del suo io, delle varie ipotesi di sé, dei "se al di là di sé" (oltre a Margherita Buy e Silvio Orlando, Jasmine Trinca, Elio De Capitani, Silvia Nono, Dario Cantarelli, Claudio Morganti e Alfonso Santagata, Mariella Valentini, Lina Sastri, Fabio Traversa, Anna Bonaiuto, Alba Rohrwacher, Gigio Morra e Renato Carpentieri).
Tutto si può dire allora de Il sol dell’avvenire, tranne che non sia pienamente e perentoriamente coerente. La coerenza, che diventa efficienza - in primis, nei confronti di un pubblico che non vuole, né concepisce altro Moretti al di fuori di un ritorno, anche stanco e senile, di Michele Apicella -, non paga e non riesce però a condonare un’inefficacia realizzativa.
In una pellicola in cui l’infanzia e l’infantilismo che hanno sempre tratteggiato i personaggi interpretati da Moretti, si uniscono, confondendosi, con la senilità, quasi come se fossero due facce della stessa medaglia, è proprio questa stanchezza, questo rallentamento evidentissimo ed (in)volontario, prima di tutto della dizione e della recitazione di Nanni Moretti, mai così straniante e brechtiana; a penalizzare gli intenti comico-ironici della pellicola, nonché proprio la riproposizione di quelle faccette, quelle movenze, quelle gag e quei leit motiv di cui sopra.
I tempi comici non sono più impeccabili e perfetti come un tempo, così come ci si scontra con l’incompiutezza e convenienza, o ancora con la senescenza, la ridondanza ed un anacronismo visibile dei temi di cui sopra, delle posizioni, delle istanze, del vocabolario di riferimento, dei moti di biasimo, degli attacchi moralizzanti, seppur legittimi, non più così mordaci o feroci.
Non aiutano, in tal senso, gli attori comprimari e secondari, che, a partire dalla stessa Margherita Buy (un po’ diafana, spenta, immotivata), si dimostrano incapaci di sostenere il gioco scostante ed alienante, i tempi e i ritmi morettiani. Né tantomeno la colonna sonora originale di Franco Piersanti, che si nasconde troppo facilmente dietro la reminiscenza rotiana, e la fotografia di Michele D’Attanasio, che firma qui forse la sua peggior prova, maldestra nella gestione intelligente degli spazi, ingessata, ristagnante, fin troppo quieta, quando non assurdamente televisiva (si pensi alle ospitate a mò di collegamento di Corrado Augias e Renzo Piano).
Forse solo il montaggio generale, garante di un ritmo incalzante, rende memoria concreta ed esperibile di quel vero, vecchio (o giovane?) Nanni Moretti, il quale, dal canto suo, si ritaglia una posizione inattaccabile, un ambiguo spazio vitale, di indipendenza, di libertà, in cui poter confondere quello che è e pensa Giovanni con ciò che lui stesso è e pensa.
L’ultimo tentativo di resistenza all’inevitabilità del proprio fallimento e del lento riavvolgersi di quegli 80 centimetri riesce: egli tratta infatti quella senilità di cui sopra più con la pancia e con una massa di emotività, che permea e trasuda da ogni suo gesto, parola, sguardo, che non con la mente (quasi contraddicendo l’ostinato “Think” di Aretha Franklin in colonna sonora), andando davvero fino in fondo a quella prospettiva di fine di tutto.
E così, in un certo senso, arriva a realizzare un film di cui è insieme facilissimo e difficilissimo parlare. Un film bifronte che trae forza dalle debolezze, e debolezza dalle forze. “L’ultimo di Don Siegel” su cui veniva giocata una delle migliori gag di Sogni d’oro, che si può criticare perché “pieno di luoghi comuni, banalità e personaggi tipici” ed elogiare perché “tutto giocato su luoghi comuni, banalità e personaggi tipici”.
Il dilemma, quindi, non riguarda tanto Nanni Moretti - il quale non fa altro che riconfermare il suo ruolo di “grande” del cinema riuscendo ad essere discusso (anche se “sono solo parole”) e ad imporsi nel, seppur - come profetizzato in Io sono un autarchico - ristretto e senz’altro più futile, dibattito pubblico e più prettamente cinefilo - ma forse (solo!) noi spettatori. Aut aut: seguirlo ed unirci a quella parata, credendo nell’illusione futuribile di quel saluto e quel sorriso, oppure, alla stregua della Paola di Buy, trovare il coraggio di lasciarlo. Di abbandonare quella che è stata “la stagione dell’amore”, che, come cantava Franco Battiato, “viene e va/All’improvviso senza accorgerti, la vivrai, ti sorprenderà/Ne abbiamo avute di occasioni/Perdendole, non rimpiangerle, non rimpiangerle mai”.
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