TITOLO ORIGINALE: Cocaine Bear
USCITA ITALIA: 20 aprile 2023
USCITA USA: 24 febbraio 2023
REGIA: Elizabeth Banks
SCENEGGIATURA: Jimmy Warden
GENERE: thriller, commedia, horror
DURATA: 95 min
Tratto da un'incredibile storia vera, Cocainorso di Elizabeth Banks racconta di un manipolo di personaggi che, ritrovatisi per caso ai piedi della profetica Blood Mountain, devono fronteggiarsi con un orso nero assassino, strafatto di cocaina. Il risultato è il perfetto esempio di film che parte con la fiera, pericolosa e un po’ ottusa presunzione di essere la miglior versione di sé e del soggetto che sta andando a sviluppare, produrre, girare. Comicità depensante più che demenziale, horror apatico ed invisibile, richiami fortuiti ed insipidi alla produzione cinematografica anni '70, '80 e '90: sono questi solo alcuni dei difetti più evidenti di una pellicola insignificante, che è anche l'immagine più sconfortante di quella che è la contemporaneità del mezzo e dello spettacolo cinematografico.
Non esiste peggior film di uno ciecamente convinto di essere brillante. Di uno che parte ed intraprende ogni possibile percorso narrativo, inventivo, estetico, con la fiera, pericolosa e un po’ ottusa presunzione di essere la miglior versione di sé e del soggetto che sta andando a sviluppare, produrre, girare. Cocainorso di Elizabeth Banks - già volto vivace di serie come Scrubs e film come la trilogia di Spider-Man di Sam Raimi, Travolti dal destino, 40 anni vergine e Zack & Miri - Amore a... primo sesso, qui alla sua terza esperienza solista dietro la macchina da presa, dopo il carino Pitch Perfect 2 e il fallimentare e dimenticato sequel/reboot delle Charlie’s Angels - è esattamente quel tipo di pellicola e, ancor prima, di progetto.
Una pellicola ed un progetto che sfrutta il gancio cronachistico di una storia tanto vera, quanto bizzarra e straordinaria: quella di Pablo Eskobear, un orso nero della Georgia così soprannominato dopo che, nel 1985, morì di overdose dopo aver ingerito ingenti quantità di cocaina; per trarre qualcosa che, in primis, stuzzica la fame dei social media per storie potenzialmente virali e storytelling istantanei ed accattivanti, capaci di catturare a sé l’attenzione di un utente medio ormai assuefatto e abituato all’ipertrofia audiovisiva e stimolante dei feed.
Va da sé - in quanto, nel bene e nel male, mai come oggi il cinema è anche social(e) e marketing virale - che lo stesso meccanismo finisce per avere riscontro e funzionare pure per le dimensioni e le ambizioni del grande schermo, quest’ultimo (e Hollywood) in piena crisi di idee, soggetto ad algoritmi e all’ostinata ed indefessa ripetizione di modelli di successo, dunque bramosa, vorace, o, per meglio dire, dipendente da storie capaci di coinvolgere, stupire, richiamare il pubblico anche soltanto per la loro bizzarria ed originalità.
Proprio per tutte queste ragioni, possiamo benissimo affermare che Cocainorso è forse una delle pellicole che meglio e più di tante altre racconta la contemporaneità del mezzo e dello spettacolo cinematografico, disposto a tutto - anche a schiantarsi rovinosamente o a giocare il tutto per tutto - pur di regalare emozioni inedite ad un pubblico disertore, diffidente, disabituato e disamorato.
Peccato che, allo stesso tempo, si tratti forse anche dell’esempio e dell’immagine più sconfortanti ed avvilenti che ci si possa immaginare. Non solo perché stiamo parlando di una pellicola che mette in luce tutti i limiti e i problemi della progressiva ed oggi incondizionata preferenza, se non proprio subordinazione alla computer grafica: seppur confezionato dalla WETA di Peter Jackson, l’orso che dovrebbe terrorizzare o quantomeno imporsi nell'immaginario di chi guarda è quanto di più finto e artefatto si potesse ottenere (e fa rimpiangere i cari, vecchi, sì, vecchissimi, ma affascinanti e, soprattutto, pratici animatronics lucasiani e spielberghiani), finendo per rendere plasticosa ed inefficace tutta la produzione.
Ma anche e soprattutto perché Cocainorso è proprio ciò che sembra. Una pellicola che promette al solo scopo di ingannare. Tutta apparenza e quasi nessuna sostanza. Tanta, bella pubblicità (ingannevole), e pochissimo, anzi niente cinema. Tutta finzione e poca, pochissima umanità, anche negli errori, nelle sbavature, nelle cadute di stile. Invece no, non c’è nessun Phil “Piovono polpette” Lord o Christopher “The Lego Movie” Miller (entrambi nel ruolo di produttori) che tengano.
La verve che guida la penna di Jimmy Warden alla sceneggiatura del film e l’energia di Elizabeth Banks alla regia sono quanto di più lontano ed antitetico rispetto all’umore esaltato, su di giri, strafatto, febbrile, dirompente che dovrebbe pervadere la scena dalla prima all’ultima sequenza.
Ciò nondimeno, quello che rende Cocainorso addirittura fastidioso ed irritante sono, come anticipato in apertura, quella saccenza e certezza assoluta di star facendo qualcosa di mai visto prima, di arguto, di intelligente, che porta entrambi, insieme a tutti i coinvolti, ad adagiarsi sugli allori della premessa e dell’eccentricità del soggetto, a non osare mai realmente, a prendere tutto dannatamente sottogamba e a lavorare al minimo delle proprie capacità.
Malgrado qualche guizzo mal e mai realmente sviluppato (nel rapporto tra verità e finzione, tra storia documentata e storia inventata), la comicità, più che demenziale, è depensante (c’è differenza e si necessita di un grado di impegno ben diverso e superiore), azzecca pochissimi tempi, e non dosa nemmeno bene i suoi vari risvolti slapstick e cartooneschi.
Al contrario, si percepisce proprio come si tenti invano, a tutti i costi, senza alcuna regola o dignità, di strappare una risata, o anche solo un sorriso allo spettatore. Ciò che ne consegue è pertanto l'assenza di una strutturazione e modulazione reale e ponderata dell’intensità, sia essa comica, intrattenitiva, horrorifica. Si inizia al massimo delle possibilità, e ci si mantiene su questo standard sino ai titoli di coda, arrivando col fiato corto, ottenendo l’effetto contrario, e risultando monotono ed estenuante. E, questa volta, non c’è alcuna sospensione dell'incredulità che tenga, dal momento che non vi è proprio materialmente il tempo di costruirla ed individuarla, tanto da parte del film, quanto dello spettatore.
Tantomeno funziona, Cocainorso, come thrill ride o horror che dir si voglia, dal momento che, al di là di qualche sequenza di morte truculenta e molto esplicita, la pellicola non si preoccupa di darsi un tono ed un’atmosfera, la comicità detta legge, Elizabeth Banks dirige ed inquadra tutto allo stesso modo e con lo stesso (inesistente) piglio, e fin da subito la bestia, nuova, (solo) potenziale icona, viene messa da parte, ridotta alla stregua di un McGuffin (per chi è accorso in sala, più che per chi partecipa ai fatti), a favore del racconto mediocre, algido ed automatizzato di un ricettacolo di umanità ridicola, grottesca, esasperata, parodica, che si ritrova, un po’ per caso, ai piedi della pigramente profetica Blood Mountain, nella quale Banks & co. vorrebbero celare un barlume di critica sociale non pervenuta od analisi antropologica non meglio specificata.
Nel caso non l’aveste capito, infatti, soggetto e sceneggiatura vorrebbero dar forma ad un prodotto sofisticato che, a latere di un recupero filologico ed interessante (senza però alcuno scopo) delle celebri pubblicità reaganiane contro l’uso e abuso di droghe, intende tracciare addirittura un discorso autoriflessivo e metacinematografico. Come? Riproponendo un modo di fare cinema tipico degli anni ‘70, cosiddetto di serie B o, per certi versi, d'exploitation, riutilizzando alcuni inni musicali, nonché gli immarcescibili topoi di certo cinema avventuroso e fantastico degli anni ‘80, e mescolando il tutto al postmodernismo, ad ispirazioni tarantiniane e coeniane (nella caratterizzazione dei gangster) e ad un gusto pulp decisamente anni ‘90.
Ciò detto, quello che rimane di questo calderone di territori, tensioni e stimoli diversissimi tra loro è però la sensazione di un onanismo fine a sé stesso, caotico, “tagliato” malissimo, a cui manca tutto il retrogusto, la sofisticatezza, la cultura e gli strumenti adeguati. E, di tutta questa scellerata storia - oltre l’imprevedibile tempismo dell’uscita italiana (dopo i tragici fatti del Trentino) -, uno svogliato film di serie A troppo “prodotto” per essere di serie B, ma anche troppo sgangherato e trascurato per essere considerabile propriamente firmato da una major come Universal.
Una fiacca ed insipida parodia della parodia, ossia dei famigerati film della Asylum (i veri B-movies). Il grado zero di qualsiasi cosa si possa definire cinema blockbuster o di intrattenimento. Ma anche un’opportunità (im)perdibile per riflettere su come oggi quello stesso cinema di largo consumo sia e stia cambiando sempre più, a favore di progetti che, già solo dieci anni fa, sarebbero stati considerati di nicchia, di seconda scelta, o neppure valevoli di attenzione.
Più semplicemente, il film meno “stupefacente” dell’anno. Talmente insignificante, che fa quasi tristezza pensare, come ricorda la dedica finale, che contenga l’addio al cinema del compianto Ray Liotta. Ma, si sa, ad Hollywood, passare dall’essere un gangster al fianco di De Niro, per Martin Scorsese, al recuperare cocaina da un orso strafatto, è un attimo.
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