TITOLO ORIGINALE: Mia
USCITA ITALIA: 6 aprile 2023
REGIA: Ivano De Matteo
SCENEGGIATURA: Ivano De Matteo, Valentina Ferlan
GENERE: drammatico
DURATA: 108 min
Presentato in anteprima al Bari International Film Festival 2023
Ivano De Matteo torna al cinema con Mia, il film con cui porta la propria idea di cinema sociorealista e morale, di grandi messaggi e grandi temi d'attualità, al parossistico, allo sgraziato, ad un qualcosa che sarebbe ridicolo o forse innocuo, se solo non sconfinasse nel triviale, nel grossolano, nel volgare, nel cattivo gusto, in una sgradevolezza come da tempo non avrete il dispiacere di vedere sul grande schermo. Sprecando tanto un soggetto perlopiù inedito per il cinema nostrano ed un cast comunque dedito e in parte, De Matteo dà vita a quanto di più anacronistico e sbagliato l'immarcescibile drammone nazionale abbia da offrire. Semplice, sensazionalistica, talora abietta TV del dolore.
Solo una cosa viene da chiedersi, una volta giunti ai titoli di coda di Mia di Ivano De Matteo: perché?
Perché si è scelto o, meglio, si è finiti per rovinare un soggetto così interessante e mai realmente approfondito dal cinema italiano? Perché una pellicola del genere, con tali pretese, ad un certo punto, dovrebbe sentire il bisogno o l’urgenza di trasformarsi in un revenge movie, in cui a dover essere vendicato è più che altro l’orgoglio maschile e patriarcale? Perché si è sprecato un cast così convincente e per lo più dedito ai propri ruoli e agli esiti del progetto - composto sia di volti nuovi, freschi, giovani e promettenti come la splendida diciassettenne Greta Gasbarri, qui al suo esordio sul grande schermo, o il crudo, spigoloso e peculiarissimo Riccardo Mandolini, sia di nomi grandi o comunque già affermati come Edoardo Leo, Milena Mancini o addirittura Vinicio Marchioni (qui presente sfortunatamente solo in uno pseudo-cameo) - mettendolo invece al servizio di una sceneggiatura a dir poco semplicistica e stereotipata?
E, a tal proposito, proprio nessuno ha avuto qualcosa da ridire o da appuntare, prima di dare il via libera alla messa in scena di un copione che mette in luce e in nuce tutti i motivi per cui la produzione nostrana, ora come ora, non può e, di questo passo, non potrà mai tornare ad essere rilevante nel panorama internazionale?
Già, poche, se non pochissime sono le cose che funzionano realmente, o che abbiamo quantomeno un minimo senso di esistere, nell’ultima fatica di De Matteo, il quale porta avanti imperterrito la propria idea di cinema impegnato, socio realista ed (auto)incaricato di tematiche e messaggi importanti, profondi, seri (qui è il turno delle relazioni tossiche, dello stalking e del revenge porn). Con Mia però questo concetto giunge al parossistico, allo sgraziato, ad un qualcosa che sarebbe ridicolo o forse innocuo, se solo non sconfinasse nel triviale, nel grossolano, nel volgare, nel cattivo gusto, in una sgradevolezza come da tempo chi scrive non aveva avuto il dispiacere di fruire sul grande schermo.
Se l’estremo patetico, ricattatorio e semi-pornografico di una tradizione tutta italiana del cinema educativo-pedagogico - ossia del film visto come mero supporto audiovisivo, funzionale, conveniente, alternativo alla lezione frontale e tradizionale (con conseguente sottovalutazione del mezzo, che diventa sinonimo di ozio e svago, oltre che poco interessante, agli occhi delle giovani generazioni) - non fosse di suo già abbastanza problematico, la pellicola dimostra inoltre una generale e abbastanza inaccettabile (per un autore giunto al suo settimo lungometraggio di finzione) inconsapevolezza del linguaggio, di tutte le sue complessità, ragioni, sfumature, dimensioni, variabili.
Viene allora da chiedersi ancora il motivo dietro alcune scelte. Perché incedere per ben due volte su una sequenza di sesso tra Leo e Mancini, al di là della bruttezza estetica, davvero gratuita? Perché mostrare sempre Mancini mentre espleta i suoi bisogni appena sveglia? Perché scrivere, dirigere, ed infine includere nel montaggio finale del film quella scena, ai limiti del grottesco, di Leo che si mette ad urlare a squarciagola Per tutta la vita di Noemi, di punto in bianco, e in modo (ancora) tanto ingiustificato, forzato e fortuito drammaturgicamente, da diventare grottesca e goffa?
Forse la risposta sta tutta nella maniera in cui De Matteo, insieme alla co-sceneggiatrice (e compagna di vita) Valentina Ferlan, pensa, costruisce ed infine riprende quello che dovrebbe essere il climax della pellicola, il fattaccio proverbiale che dovrebbe assestare il colpo di grazia all’emotività dello spettatore. Tutto esibito, esplicitato, ostentato, dai filmati alla decisione definitiva; sì, in modo nudo e crudo, ma senza una reale spiegazione, o ancora, un impianto estetico, stilistico e drammatico sensato e sensibile che preveda e proponga una tale visione della realtà diegetica e non.
Come se non bastasse, in quello stesso segmento, l’istanza narrante vorrebbe pure addurre e suggerire una critica ad una società in cui quel che conta di più è filmare, documentare, postare, condividere, più che intervenire, quando in realtà è proprio la stessa posizione che essa assume nei riguardi della storia di Mia e di suo padre. Senza rendersi conto che essa non è tanto lontana da quella ragazza in secondo piano, la cui prima preoccupazione è mostrare, assistere, registrare in maniera passiva ed indifferente, costruire inconsapevolmente una narrazione, un’immagine, un immaginario che colpisca alla pancia e diventi virale, condiviso, discusso, riconosciuto.
Purtroppo per De Matteo & co., perlomeno a giudicare dai magri risultati al box-office (in una settimana, quella di Pasqua, al contrario di grandi exploit), Mia non ha nemmeno quest’ultima fortuna, se così la si vuol definire. Non è nemmeno popolare e diffuso, come, dal canto suo, vorrebbe essere.
E, di nuovo, perché? Facile: perché il fatto che, in una pellicola che pretende di raccontare e racconta la storia di una quindicenne alle prese con un amore malato, il personaggio più approfondito e “meglio scritto”, se non proprio il vero protagonista, è viceversa il padre, di cui, ad una certa, si abbraccia, legittima e spettacolarizza a livello drammaturgico (questo proprio involontariamente) lo sfregio all’onore e la vergogna di uomo (e lo si capisce già dal trailer), è quanto di più anacronistico, sbagliato ed imbarazzante. Sia per un testo che condanna proprio questo tipo di maschilismo tossico, sia in un mondo di progressiva decostruzione delle istanze machiste e patriarcali e di superamento di un'oggettificazione femminile che - per come viene ripresa Mia, uno dei significati di cui viene incaricato il titolo stesso, oppure ancora uno scambio di battute brillante come "lei è mia, non è più tua" - questo film non supera, anzi rianima in toto.
Laddove, con un soggetto del genere, un qualsiasi regista d'oltralpe o statunitense si sarebbe calato, nel bene o nel male, con delicatezza o, viceversa, con tutti gli eccessi riprovevoli del caso, nell’intimità e nella complessità della ragazza, della sua condizione esistenziale e del suo dolore, qui, nel Bel Paese, siamo ancora fermi al film a tesi o, peggio, agli spot ministeriali ed istituzionali della polizia di stato o della polizia postale, con una scrittura e rappresentazione assolutamente manichea del colpevole (con tanto di cappuccio nero a rendere ancora più chiara e didascalica la cosa), e tutto ciò che di più semplice, retorico, enfatico, affettato, sguaiato e, appunto, sbagliato abbia da offrire la peggior tradizione del dramma all’italiana.
Mia è insomma è un film che non ha né l’intelligenza, né tantomeno la delicatezza per poter essere qualcosa di più, e di meglio, di semplice, sensazionalistica, talora abietta e quasi oscena TV (altro che cinema) del dolore.
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