TITOLO ORIGINALE: عنكبوت مقدس
USCITA ITALIA: 16 febbraio 2023
REGIA: Ali Abbasi
SCENEGGIATURA: Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami
GENERE: drammatico, thriller
DURATA: 117 min
Vincitore del Prix d'interprétation féminine al festival di Cannes 2022
Dopo essersi fatto notare con Border, il giovane regista irano-danese torna sul grande schermo con Holy Spider, un thriller velenoso che sfrutta le molteplici dimensioni (semantiche) del corpo femminile per raccontare un contesto maschilista, fallocentrico, bigotto e perbenista che condanna e biasima, ma al contempo non ci pensa due volte prima di servirsi ed approfittare di quello che descrive e chiama in molti modi: peccato, vizio, perversione… Un contesto dettagliato, geolocalizzato, individuato lì (in Iran), in un preciso momento storico (il 2001, all'alba dell'11 settembre), ma che è scritto e messo in scena apposta per erompere i confini in cui lo si potrebbe circoscrivere, ed essere così declinato su scala internazionale, universale, collettiva. Un film che risponde sia ad esigenze di genere (che poi sovverte), sia ad urgenze autoriali, e che pratica bene, quando non benissimo, entrambe. La consacrazione definitiva di una nuova, inebriante voce registica del cinema contemporaneo.
Inizia con un nudo femminile, Holy Spider, il terzo lungometraggio di quel piccolo, giovane talento che è Ali Abbasi. In pochi secondi, con una manciata di inquadrature, questi mette in piedi e bene in chiaro il soggetto principale del proprio film, che, ben prima che sulle derive più pericolose, estreme e tragiche (per usare un eufemismo) del fanatismo, degli estremisti, degli assoluti idealistici, è un testo, per l’appunto, sul corpo. Meglio ancora, sul corpo femminile, sulle cui molteplici dimensioni semantiche Abbasi va poi a costruire e ad erigere tutto l’impianto critico, accusatorio, di denuncia diretta, senza troppi giri di parole o deviazioni, di un sistema e di un fenomeno che vediamo dettagliato, geolocalizzato, individuato lì (in Iran, nella città simbolo di Mashhad, luogo di pellegrinaggio per lo sciismo), in quel preciso momento (nel 2001, all'alba dell'11 settembre), con quei volti e quei rappresentanti, ma che è scritto e messo in scena apposta per erompere i confini in cui (sbagliando) lo si potrebbe circoscrivere, ed essere così declinato su scala internazionale, universale, collettiva.
Torniamo però a quel corpo nudo, femminile, testimonianza muta, stimmate indelebile, livida geografia delle ipocrisie di una società maschilista, fallocentrica, bigotta e perbenista che condanna, biasima, censura, copre, scaccia pregando, ma al contempo non ci pensa un attimo prima di servirsi ed approfittare di quello che descrive e chiama in molti modi: peccato, vergogna, insulto, vizio, perversione, castigo…
Quel corpo con la cui nudità esposta, disinibita e anzi voluta e ricercata, il giovane regista vuole anzitutto chiarire la propria posizione rappresentativa, cinematografica, poetica e, soprattutto, politica, disconoscendo e volendo in qualche modo rifuggire la timida, costumata e “troppo metaforica” produzione iraniana coeva, nella quale, per sua stessa ammissione, non si sente a casa, pur essendo lui stesso iraniano di nascita e origine (poi trasferitosi in Svezia e Danimarca).
Dopodiché, come già definito sopra, mostra chiaramente quello che, al contrario, per tutto il resto del film, verrà (poiché deve essere) coperto. Perché è appunto attraverso il corpo femminile e il suo possesso e controllo mediante tradizioni, usanze e dogmi (trasfigurati in un oggetto comune, il velo, o chador, che vedremo sempre durante il corso del film, e che diventa perciò qualcosa di più significativo e grande) che questo sistema, quest’altro corpo - che non è solo fisico, ma anche sociale, giuridico, religioso, politico - attecchisce, sopravvive e prosegue lungo la sua millenaria strada di oppressione, repressione e conservatorismo in nome di una parola, di un verbo, di un potere invisibili, dei quali si è smarrito ogni riferimento.
Un sistema che può avere solo due conseguenze: o un’estrema problematicità nel rapporto col femminile (sintetizzata nella timida reazione di un uomo ad un bacio sulla guancia a fine film), o una strada più violenta e pericolosa.
La stessa strada che, suo malgrado, si ritroverà a percorrere quella donna, una ragazza-madre, prostituta e tossicodipendente, di cui vediamo il corpo senza veli, senza filtri ad inizio film, la quale verrà uccisa qualche istante più tardi, dopo essere stata abbordata da un uomo alla guida di una motocicletta, strangolata simbolicamente con quello stesso foulard (che non è solo un foulard) che dimostra così tanta premura nell’avere sempre ben posizionato, a coprire tutta la sua testa.
L'uomo responsabile di una simile bestialità si chiama Saeed Hanaei, di giorno è un premuroso e normalissimo padre di famiglia, impiegato in una ditta di costruzioni e veterano disilluso della guerra contro l’Iraq, di notte invece si autoconvince - in una sorta di delirio di onnipotenza che cresce via via più incontrollato, alimentato da una vita familiare, matrimoniale e sessuale insoddisfacente e mediocre - della propria importanza per la salvaguardia e il futuro dell’Islam, imbraccia le armi di una fantomatica Guerra Santa, di una pulizia morale della città, di una liberazione da tutto ciò che è lascivo e corrotto, ed ispeziona le strade alla ricerca di una prostituta da poter uccidere. Si converte, in sostanza, in un serial killer che ben presto verrà soprannominato “Il Ragno”.
Una trama del genere sembrerebbe quasi il frutto della mente geniale di un autore di gialli, noir o thriller, tranne per il fatto che non lo è. Con Holy Spider, Ali Abbasi porta sul grande schermo (ovviamente adattata e riscritta ad hoc) il vero caso dell’uomo, che di nome faceva proprio Saeed Hanaei, che tra il 2000 e il 2001 strangolò ben sedici donne, tutte lavoratrici del sesso, nell’indifferenza più o meno diffusa della polizia e dell’opinione pubblica, la quale anzi iniziò a parlare quasi di un “eroe altruista, che si è sacrificato per il bene della società”.
Tuttavia, a differenza del documentario del 2002 di Maziar Bahari, intitolato And Along Came a Spider, il cineasta irano-danese non è interessato a fare cronaca, a ricostruire i fatti con perizia scientifica e precisione espositiva, bensì a far emergere, tratteggiare, definire, far percepire, quasi subodorare un contesto sociale, culturale, religioso, invadere e pervadere lo spazio di comfort dello spettatore alla stregua di quanto ha già dimostrato di saper fare nel precedente, perturbante, inquietantissimo e perlopiù originale Border; senza per questo dimenticarsi della sua irrefrenabile vocazione e attenzione per il genere, della quota intrattenitiva del progetto e del prodotto.
Il risultato è quindi l’esempio più fino, elegante ed intelligente dell’idea di cinema - già di per sé intelligentissima ed astuta - che Abbasi ha portato avanti sino a questo momento, ossia quella di un ibrido tra le esigenze e le istanze del cinema di genere, in particolar modo il thriller e l’horror, e quelle viceversa di un cinema arthouse, che si fonda e qualifica a partire dal messaggio e dall’idea che intende esprimere ed imprimere nelle immagini.
Ad un’occhiata rapida e fugace, Holy Spider parrebbe allora essere un thriller dall’impianto ed esecuzione classiche, forse anche troppo. E per certi versi, lo è pure, con la sola differenza che quel che si potrebbe definire classico è, in realtà, orchestrato, composto e ritmato con una tecnica, un gusto, un ritmo, una tensione ed una precisione invidiabili, che riportano subito alla mente la produzione e l’opera dei grandi maestri del filone e delle sue varie diramazioni: da Hitchcock a Polanski - del cui Chinatown, come confida Abbasi stesso, mutua l’idea di una città che, per ragioni anzitutto politiche, è principalmente una costruzione mentale, fino ad arrivare ai maggiori rappresentanti italiani e a Memorie di un assassino di Bong Joon-ho per l’occhio di riguardo alla funzione dei media d’informazione nella fenomenologia di un caso di cronaca nera.
Ma soprattutto, questa proverbiale trama thriller viene ripetutamente sabotata, disinnescata, tradita, in maniera sottile e sofisticata, con micro-rivoluzioni e scelte molto coraggiose, le quali non fanno altro che coinvolgere ancor di più lo spettatore nella tela (giustappunto) intessuta e dipinta dal cineasta.
Soluzioni ardite, come appunto quella di rivelare sin da subito l’identità e il volto dell’assassino, annullando ed invalidando così uno dei meccanismi fondamentali, più inebrianti e spettacolari del processo narrativo ed esperienziale della detection, a favore di un’indagine e di un’analisi - quelle relative dapprima alla psicologia, ai traumi e alle motivazioni familiare, fisiologiche, morbose dell’assassino e in seguito dell’ecosistema in cui vive e porta avanti il suo (auto)imposto compito - decisamente pertinenti e vicine ad un ambiente e ad urgenze autoriali, ma non per questo meno, anzi forse ancor più inquietanti ed angoscianti.
Queste fanno da apripista per lo stravolgimento che abbraccerà la pellicola negli ultimi quaranta minuti (forse troppo diluiti e generosi), quando il thrilling e gli osteggiati tentativi di indagine e cattura ad opera di una giornalista emancipata, ribelle e guardata con sdegno, scetticismo e mal sopportazione dall’ambiente che la dovrebbe aiutare per un’onta del suo passato, si esauriscono e il film asseconda del tutto la propria essenza politica, infliggendo le più dure stoccate ai principi fondamentali, oltre che alla coscienza e al ritegno di un paese intero, senza pietismi, sofismi od eccessi retorici, ma semplicemente aderendo e rifacendosi alla più probabile e realistica, ergo alla più ambigua, direzione degli eventi.
A sorreggere il tutto, la torbida, intricata e viziata fotografia di Nadim Carlsen e la soffocante colonna sonora di Martin Dirkov, capaci da sole di informare il procedimento e la volontà delocalizzati e delocalizzatori, universali ed universalizzanti, della concezione di Abbasi e dei discorsi che sembra disseppellire, ritrovare, trarre da qualsiasi cosa inquadri ed osservi attraverso l’obiettivo della propria macchina da presa; ma anche e soprattutto i meravigliosi interpreti protagonisti: Mehdi Bajestani e (premiata a Cannes 2022 per questo ruolo) Zahra Amir Ebrahimi. Risultato positivo di un casting a dir poco vitale, oltre che impeccabile [specie quello della Ebrahimi, che biograficamente ha vissuto uno scandalo simile a quello del suo personaggio], questi ultimi sono l’opposto logico, le due facce dello stesso buco nero che risucchia tutti indistintamente.
Sono loro due, con questa giustezza fisiognomica, con la dedizione alla parte, la capacità di avvantaggiare il meccanismo di genere e, quando necessario, arrestarlo e portare il racconto verso tutt’altre latitudini, con l’essere proteiforme ed ambiguo dell’uno ed intensa e penetrante dell’altra; a permettere, concedere e favorire la potenza di un finale che, nella sua semplicità concettuale, è forse l’immagine, la prospettiva, la visione più agghiacciante, disturbante, vivida e cinica di tutte quelle viste nei 110 minuti precedenti, nei quali si succedono brutali sequenze d’omicidio ed altrettanto crude scene di repressa vita quotidiana che esonda e si libera delle catene del dogma e del pudore col calar della notte.
Una visione, quella con cui Abbasi e la co-sceneggiatrice Afshin Kamran Bahrami scelgono di chiudere il film, che vale da sola il prezzo del biglietto. Che svela, in una sorta di grande twist solo ritardato, fin dove è riuscito ad attecchire il veleno del Ragno. Di cui si può, sì, recidere una zampa, ma che è praticamente impossibile annientare una volta per tutte.
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