TITOLO ORIGINALE: Stranizza d'amuri
USCITA ITALIA: 23 marzo 2023
REGIA: Giuseppe Fiorello
SCENEGGIATURA: Giuseppe Fiorello, Andrea Cedrola, Carlo Salsa
GENERE: drammatico
DURATA: 134 min
Per il suo esordio dietro la macchina da presa cinematografica, il divo della fiction italiana Giuseppe Fiorello si ispira all'efferato ed insoluto delitto di Giarre per raccontare un contesto umano e le vittime, le inevitabili e dolorose conseguenze di una società maschilista, fallocentrica, retrograda e perbenista. Laddove dunque le immagini presentano una grossolanità ed una rozzezza di fondo che gli impediscono di qualificarsi al di là di un mero strumento e veicolo narrativo, l’eloquenza e la dedizione di chi, in quelle immagini, si muove, respira, vive, crea geografie emotive, ama, permettono a Stranizza d’amuri di sbarazzarsi di un’eventualità che pareva già scritta. Applausi a scena aperta per gli esordienti Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto, la più bella promessa della pellicola.
Stranizza d’amuri. Non è soltanto il titolo di una delle più belle canzoni del compianto Franco Battiato, ma anche il titolo dell’esordio alla regia cinematografica di uno dei divi assoluti della fiction e della televisione italiana, Giuseppe Fiorello, che per l’occasione sceglie di prendere ispirazione da un efferato e crudele fatto di cronaca nera, avvenuto in Sicilia, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta (nel 1980, per essere più precisi).
Quella che racconta e mette in scena è di fatto una letterale Stranezza d’amore, non tanto perché il rapporto tra chi, questo amore, nonostante tutto e tutti, lo prova e lo esprime, quanto piuttosto per chi, questo stesso amore, non riesce proprio ad inquadrarlo nei propri codici, retrogradi e perbenisti, e nella propria visione di ciò che è giusto e sbagliato, non riesce insomma a comprenderlo e, di conseguenza, ad accettarlo.
Strano era l’amore di Giorgio Agatino Giammona (25 anni) e Antonio Galatola, detto Toni (15), per gli abitanti di Giarre, piccolo centro rurale a metà strada tra Catania e Taormina. Inumano ed indicibile fu invece il motivo per cui quello stesso amore strano ai più si convertì in tragedia per questi due giovani carusi, trovati morti sotto un pino marittimo, uccisi entrambi da un colpo di pistola alla testa, il 31 ottobre 1980.
Quello che passerà alle cronache, appunto, come il “delitto (preda di una cattiva gestione delle indagini e tutt’oggi insoluto) di Giarre” è il fattaccio (epocale, archetipico e fondamentale per la nascita e le battaglie del movimento di liberazione omosessuale), ma anche l’emozione, la vibrazione, la storia, il ritratto di due martiri, di due vittime innocenti o, in altre parole, delle inevitabili e dolorose conseguenze di una società maschilista, fallocentrica, moralista, di chiara matrice cattolica, fondata su ideali come forza, virilità, prepotenza e prevaricazione. Un mondo che, nel caso di Giarre, appartiene ad un’Italia di più di quarant’anni fa, ma le cui tracce, pur complessivamente mitigate ed allentate, sono ancora rintracciabili nella nostra contemporaneità, indipendentemente dalla regione o dalla zona geografica, e nelle sue (ahinoi) numerose forme di discriminazione, nei suoi irrisolti secolari, nei suoi nodi indisciolti.
In Stranizza d’amuri - che, la stranezza del titolo, la trattiene anche nella combinazione e nel mix inconsulto ed inconsueto di elementi ed individualità produttive - Giuseppe Fiorello trasla il tutto all’estate del 1982 e sceglie, come sottofondo dell’inizio e dello sviluppo della tormentata storia d’amicizia e amore tra i suoi Giorgio e Antonio, ovvero Gianni e Nino; i mondiali di calcio di Spagna, che videro l’Italia battere in finale (3 a 1) la Germania Ovest e sentirsi, anche se per poco, in cima al mondo.
Questa soluzione di adattamento non è casuale, per quanto abbastanza scolastica e dialetticamente proverbiale: nell’esatto momento in cui l’Italia calcistica trionfa ed alza la coppa del mondo, l’Italia civile e sociale muore, crolla, viene annientata, fallisce di fronte alla morte insensata della sua progenie o, meglio, del suo futuro. Una morte figlia di tradizioni ed usanze ottocentesche, del pettegolezzo (che diventa l’arma principale con cui annichilire la vittima e chi gli sta intorno e gli è caro, prima di infierire il colpo finale) e di ipocrisia che condanna, emargina e sopprime l’omosessualità, ma ritiene normale una gravidanza a quindici anni o il totale abbandono di moglie e figlio per fuggire chissà dove.
Questo, Stranizza d’amuri lo rende bene, così come fa percepire in maniera funzionale e funzionante l’oppressione, l’angoscia, l’omertà, l’inadeguatezza e l’arretratezza di un contesto umano, ancor prima che socio-culturale, che, dietro la facciata onorabile e morigerata, cela una disfunzionalità dei rapporti amorosi e sessuali che porta, o ad un’oggettificazione della donna, o altrimenti ad un’attrazione omoerotica inconscia e latente.
In tal senso, la sceneggiatura che lo stesso Fiorello firma assieme a Andrea Cedrola e Carlo Salsa, e successivamente la messa in scena sono interessate innanzitutto alla riproposizione fedele - forse pure tratta da esperienze e spunti autobiografici -, all’analisi, all’osservazione del contesto, oltre che alla delineazione dei caratteri e, soprattutto, dei volti che compongono questa cittadina di provincia, intrisa della polvere delle cave di pietra calcarea, che è poi quella di una mentalità tossica ed anacronistica, tuttavia allietata e circondata dalla natura elegiaca, suggestiva, idilliaca di laghetti nascosti, strade di campagne e spiagge assolate e solitarie.
Grande attenzione e cura sono allora riposte nelle interpretazioni, che, specie per quanto riguarda i personaggi di contorno, secondari e negativi, riescono da sole a riabilitare e a conferire maggior dignità e compiutezza ad una scrittura tendenzialmente ed eccessivamente faziosa ed aneddotica.
Gli applausi sono però tutti per i due giovanissimi, assoluti esordienti che sono chiamati a ridare vita, per due anche troppo generose ore, a Giorgio e Toni, alla loro memoria, alla loro anima, alla loro morte. Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto sono la vera rivelazione, il dono più inaspettato eppure desiderato, ciò che resterà indelebilmente nelle menti e nei cuori di tutti dopo la visione della pellicola, in particolare per la chimica, l’intesa e l’alchimia che riescono a raggiungere in ogni sguardo, ancor prima che nelle sequenze più prettamente intime, delicate, emozionanti, nelle quali si esprime in toto tutta quella stranizza d’amuri del titolo.
Ovviamente il merito (di averli scelti, ma anche di averli fatti incontrare e di averli diretti) è anche di Giuseppe Fiorello, che sfrutta l’autenticità recitativa, quelle piccole imprecisioni, quelle inconsapevoli sporcature, quei néi quasi impercettibili che sono propri delle promesse della recitazione (alle quali non sempre spetta, purtroppo, una rosea e gloriosa carriera di fronte a sé), per farne cifra e personalità di questa sua opera prima, il cui sguardo, a sua volta, di Pizzurro e Segreto, condivide e serba proprio questa genuinità, purezza, naturalezza, anche ingenuità di sguardo.
Ciò detto, l'attore e regista è senz'altro ancora troppo legato a canoni, standard e ad un linguaggio televisivo per poter fare cinema ed essere cinematografico in tutto e per tutto, eppure è fautore, magari pure per casualità, coincidenze felici o miracoli di non precisata natura, di sequenze capaci di coinvolgere ed emozionare, grazie in primis ad una colonna sonora che include, al fianco dei temi originali di Giovanni Caccamo e Leonardo Milani, anche alcuni grandi classici del già citato Franco Battiato.
Laddove dunque le immagini presentano una grossolanità fotografica ed una rozzezza di fondo che gli impediscono di qualificarsi al di là di un mero strumento e veicolo di fatti, cause e conseguenze, e sono illanguidite nell’insieme da un montaggio tutt’altro che impeccabile e di manica larga nell’orchestrazione drammatica e drammaturgica dei momenti cardine della vicenda; l’eloquenza e la dedizione di chi, in quelle immagini, si muove, respira, vive, crea geografie emotive, ama, permettono a Stranizza d’amuri di sbarazzarsi di un’eventualità che, quantomeno dalle premesse realizzative e nella difficoltà del soggetto, pareva già scritta.
Non raggiungerà i livelli di altri cantori di un’idea pura, incondizionata, sconfinata, forse superiore di amore, come Xavier Dolan, Luca Guadagnino, Abdellatif Kechiche o François Ozon, giocherà fin troppo sul sicuro, compirà una scelta incomprensibile nel finale, sarà derivativo e difettoso, ma quello di Giuseppe Fiorello è comunque un tentativo prezioso per la salute e il benestare del cinema italiano. Di quel poco cinema italiano che guarda al passato per trovare risposta, o forse ammonire riguardo a pericolose derive e stagnamenti fin troppo visibili del presente.
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