TITOLO ORIGINALE: Empire of Light
USCITA ITALIA: 2 marzo 2023
USCITA USA: 9 dicembre 2022
REGIA: Sam Mendes
SCENEGGIATURA: Sam Mendes
GENERE: drammatico, sentimentale
DURATA: 119 min
Candidato all'Oscar per la miglior fotografia
Dopo il successo di 1917, Sam Mendes torna sul grande schermo con un omaggio, un'elegia, una celebrazione del cinema quale mezzo, linguaggio, spettacolo, ma soprattutto luogo. Quale illusione di cui si "svela" la matericità, la fisicità, lo sforzo, la complessità esecutiva, la routine inderogabile, che diventa a sua volta spazio, che diventano volti, che diventa luce evanescente, impalpabile, fantasmatica. Se allora la storia d'amore tra due dipendenti di un cinema sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra, è sufficiente per un'eventuale masterclass di fotografia da parte dell'unico ed inimitabile Roger Deakins, non lo è per un film più simile ad una formula algebrica senza margini di imprevisto, in cui un cast ben assortito e molto in parte tenta di nobilitare ed inspessire un copione che, di corpo, sostanza e complessità discorsiva, ha ben poco.
Si prenda il ricettario tipico di una certa elegia del cinema quale mezzo, linguaggio, spettacolo, ma anche e soprattutto luogo. Si chiami uno dei migliori, se non il migliore ed inimitabile dei direttori della fotografia e lo si metta a fare ciò che gli riesce meglio. Si riunisca poi un cast che tenta, a tutti i costi, in ogni modo possibile, di rendere nobile e trascinante una sceneggiatura che, viceversa, non lo è affatto. Infine, si incarichi due dei più talentuosi compositori attualmente in circolazione e gli si affidi essenzialmente una stereotipizzazione di sé stessi, una pantomima del proprio stile ambientale, una riproposizione sbiadita e stanca dei propri riconoscibili tappeti avvolgenti ed insieme alienanti.
Ecco: avete la formula esatta e precisa di Empire of Light, l’ultimo film scritto, prodotto e diretto da Sam Mendes (American Beauty, Jarhead, Revolutionary Road, Skyfall), reduce dal grande successo del suo 1917, war movie sintetico, muscolare, performativo ed, in un certo senso, archetipico (nel bene e nel male) per una nuova deformazione estetica del genere.
Quattro ingredienti per un film che è, in primis, un racconto, ma anche un ambiente, un luogo pienamente cinematografico quadripartiti. Quattro è infatti anche il numero di sale - due delle quali non funzionanti e non agibili - di cui dispone l’imponente Empire, unico cinema della piccola cittadina Margate, sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra.
La sua metà, due, è invece ciò che gli basta per trovare la luce che gli serve, o meglio, che pensa gli possa bastare per illuminare e dar vita alla storia d’amore tra due dipendenti del multisala, attorno alla quale ruotano poi tutti i discorsi e i destini del piccolo mondo che Mendes, a partire dalla storia biografica della madre, costruisce e tenta di riempire e popolare di sfumature e significati durante le quasi due ore di Empire of Light.
Lei è Hilary (Olivia Colman), donna di mezza età profondamente traumatizzata ed ipersensibile, che soffre di un serio disturbo schizofrenico e bipolare, che la rende spesso apatica, distante e depressa, altre volte inspiegabilmente euforica; impiegata da qualche anno al cinema nel ruolo di vice-direttrice e responsabile del bar, quando non costretta a soddisfare le esigenze e le insistenti richiesti sessuali del signor Ellis (un Colin Firth nel segno dell'ambiguità e della ripugnanza di The Staircase), lo sgradevole e mellifluo direttore.
Lui invece è Stephen, giovane ragazzo di colore, neoassunto all’Empire come maschera, mentre attende di ricevere una lettera di confermata ammissione da uno dei college in cui sogna, un giorno, di poter andare a studiare, così da emanciparsi rispetto ad un contesto sociale e politico, quello inglese di inizio anni ‘80, segnato da un profondo e violento razzismo e da un conservatorismo e perbenismo imperanti e recalcitranti, in correità con la salita al potere della prima ministra Margaret Thatcher, la cosiddetta Iron Lady.
Insomma, come forse avrete intuito, Hilary e Stephen sono due difetti, due irregolarità, due angoli bui che la società del tempo tenta a tutti i costi di reprimere, confinare, cancellare, i quali - chi per scelta, chi per una mera coincidenza del destino - trovano nel cinema - che è prima di tutto un mezzo meccanico-scientifico che, come spiega leziosamente Norman, il proiezionista interpretato da un Toby Jones rassicurante, inespresso, d’arredamento; fonda la propria essenza, la propria unicità, la propria genesi sostanzialmente su un inspiegabile difetto del nostro corpo, più precisamente del nervo ottico - un rifugio sicuro, un conforto, un piccolo, luminoso e protetto mondo altro, all’interno di uno che invece sta colando a picco e, ciononostante, sembra non volersi fermare.
Quattro, ancora quattro, e poi due, lo stesso numero di proiettori di cui proprio Norman ha bisogno per proiettare un film, lo stesso numero dei nostri occhi. Ecco cos’è Empire of Light: un’operazione matematica, un’equazione del risultato preimpostato, una formula algebrica senza margini di imprevisto, un’illusione scientificamente provata, un inganno premeditato, un compito pulito e senza alcuna apparente (poiché malcelata) traccia di oscurità. Che sia una cosa positiva o negativa, sta a voi deciderlo.
Per chi vi scrive, quello che Sam Mendes offre in cambio di questo spettacolo contenuto, temperato e morigerato è fin troppo poco per accordare toni lieti alla sua ultima fatica. O, se preferite, la storia di Hilary e Stephen è anche fin troppo generosa per quella che, in realtà, è, o meglio, appare più che altro come la riconferma del lavoro unico ed irripetibile del direttore della fotografia Roger Deakins. Il suo effettivo Impero della Luce. Una masterclass su come si racconta una storia solo ed esclusivamente attraverso il modo in cui si sceglie di illuminare un ambiente, di far parlare una scenografia, di far risuonare sul volto e sui primi piani degli attori l’atmosfera e il sentimento che, in contemporanea, si sta allestendo ed eseguendo su superfici, materiali, orizzonti.
Ma questa è un’idea, un pensiero che si forma nella mente di chi guarda non appena si posa gli occhi su Empire of Light. In tal senso, è proprio della specificità preziosa, viscerale ed incomprensibile del mezzo cinematografico, vale a dire della sua impareggiabile sintesi, del suo massimo spettro espressivo e dunque della sua rapidità comunicativa, che cade vittima il racconto di Mendes.
Come si dice ad un certo punto del film, “basta uno sguardo” per capire le reali intenzioni, il vero scopo, le pieghe di (povero, semplicistico, banale) significato. Bastano quelle lunghe sequenze totalmente mute, con la musica di sottofondo composta da Trent Reznor ed Atticus Ross, che fanno da raccordo tra un segmento e l’altro di un intreccio e di un copione che tradiscono tutte le ingenuità e le leggerezze di un Mendes qui alle prese con la sua prima, vera sceneggiatura solista, e che quindi lasciano intravedere ed intendere fin troppo visibilmente i fili, il flusso e le suddivisioni strutturali.
Basta, ancora, il modo in cui un’appassionata Olivia Colman - chiamata ad interpretare, ancora una volta, dopo La favorita e La figlia oscura, un personaggio mentalmente instabile, estremamente difficile e complesso, che, malgrado la sua prova limitatamente ottima, presta il fianco alla superficialità della sua scrittura - guarda, con un’enfasi molto ben accolta sul concetto di piacere maturo e di desiderio femminile, un esordiente Michael Ward che potrebbe facilmente rivelarsi la cosa migliore, oltre al già citato Deakins, partorita da Empire of Light.
Fosse stato un cortometraggio di riflessione su ciò che il cinema è oggi ed è diventato dopo il periodo pandemico, forse ora staremmo adoperando altre parole, parole diverse. È d’altronde quello il paragone su cui parrebbero informarsi i primi minuti del film, che indugiano su particolari, elementi, oggettistica, arredamento decò di quello che sembrerebbe e potrebbe benissimo essere un cinema fatiscente, polveroso, abbandonato, chiuso per sempre, e che invece, pochi istanti più tardi, grazie alla magia primigenia e fondamentale della luce, torna a rianimarsi e a riaccendersi in tutti i sensi.
Al contrario, la pellicola di Mendes indugia, diluisce e perde la centralità e la lucidità narrativa, dando vita a quattro, se non cinque possibili finali, trattando, intrecciando quattro, se non cinque temi e leit motiv diversi senza però trovargli davvero sintesi, risoluzione, visione, tentando in tutti i modi di convincerci di essere più di ciò che è. Più serio, importante, impegnato, colto (le numerose citazioni: da The Blues Brothers ad All That Jazz, da Momenti di gloria ad Oltre il giardino con Peter Sellers, film con cui Mendes ingaggia un pericolosissimo parallelismo per quanto riguarda l’arco narrativo di Hillary) di un lato-B di 1917, nel senso di una glorificazione esasperata ed estenuante, nuovamente meccanica e tecnica, del cinema.
Lì, c’era quel gigantesco, erculeo ed algido pianosequenza che depauperava la guerra della sua gravitas, rendendola un mero pezzo di performance art. Qui, c’è invece la celebrazione del suo atto ultimo, più significativo, del suo laico sacramento, del rito profano, ossia il binomio proiezione-visione, i cui assiomi riverberano ed estendono le proprie braccia metaforiche anche al mondo al di fuori del maleodorante e morboso sogno e di un’illusione di cui si "svela" la matericità, la fisicità, lo sforzo, la complessità esecutiva, la routine inderogabile, che diventa spazio, che diventano volti (attaccati alle pareti), che diventa luce evanescente, impalpabile, fantasmatica.
Empire of Light si rivela essere allora una sorta di termine ultimo, di estrema conseguenza, di capolinea di un tipo di omaggio al cinema e all’esperienza della sala, che più che vitale e rivitalizzante, è pari al suo contrario: ad un atto di necrofilia, al porre il proverbiale ultimo chiodo nella bara di qualcosa che, se non si è già dissolta, non ci metterà tanto a farlo. Tra i suoi popcorn, le sue “pizze”, i suoi biglietti, le sue insegne, i suoi rossi e i suoi gialli, i suoi odori e le sue emozioni, le sue luci e il suo impero, nostalgico e malinconico.
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