TITOLO ORIGINALE: A Man Called Otto
USCITA ITALIA: 16 febbraio 2023
USCITA USA: 13 gennaio 2023
REGIA: Marc Forster
SCENEGGIATURA: David Magee
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 126 min
Non così vicino è la storia di un anziano vedovo che, persa la luce della sua vita, l'unica ragione per cui si alzava dal letto la mattina, si tramuta in un orco burbero e autoritario, idiosincratico e misantropo, al limite dell'autismo. Tutte caratteristiche che, malgrado il regista Marc Forster e lo sceneggiatore David Magee tentino in tutti i modi di lasciar fuoriuscire ed esprimere, un Tom Hanks evidentemente divertito ma a disagio in panni che non sente mai davvero suoi, sabota dal primo all'ultimo minuto. Ecco quindi che questo adattamento (il secondo dopo lo svedese Mr. Ove) del romanzo di Fredrik Backman si trasforma ben presto, dal dramma dai buoni sentimenti e contorni da black comedy che avrebbe dovuto essere, in un film senz’altro piacevole, ma di maniera, artificioso, lucente e non chiaroscurale, innocuo ed edulcorato, sia mai possa offendere o scandalizzare l’americano medio.
C’è un posto vuoto affianco al nome di Sonya sulla lapide degli Anderson. È il posto che spetta ad Otto, suo marito, vedovo ormai da sei mesi, che, a seguito della scomparsa della moglie, vede tutto scuro, privo di colori. Ha perso tutto ciò che aveva, Otto, tranne la sua routine, le sue ronde mattutine per mettere in ordine e correggere un vicinato scapestrato ed invadente, le sue abitudini, che egli porta avanti per inerzia, quasi come non sapesse fare nient’altro. È un uomo burbero, il signor Anderson, rigido, apatico, indisponente, praticamente misantropo eppure solcato da una tristezza ed un dolore che ne segnano profondamente il viso.
Un uomo in balia del suo passato, che tenta in tutti i modi di rimanere sempre lo stesso, pur accorgendosi che il mondo attorno a lui vive e vivrà, cambia e cambierà, si muove e si muoverà senza attenderlo, senza lasciare che egli abbia il tempo di elaborare la perdita della sua ragione di vita. Quando anche l’ultimo appiglio ad un qualcosa che poteva ancora distoglierlo da certi pensieri definitivi (il posto di lavoro come operaio, da cui viene “gentilmente” cacciato dopo anni ed anni di contributo e dedizione), Otto decide che ne ha abbastanza, che è arrivato il momento di raggiungere finalmente la sua Sonya, che non vuole più vedere come va a finire. Ma ecco che, nella casa dirimpetto alla sua, fa la sua apparizione un’allegra famiglia che subito tenta di allacciare un rapporto col vecchio signore e che forse potranno essere la sua salvezza, un possibile motivo per continuare a vivere ancora un po’.
È l’intuizione più semplice, ma anche la più riuscita di Non così vicino, quello spazio vuoto sulla lapide. Una sintesi visiva di una limpidità, immediatezza e crudeltà uniche, che avvicinano l’adattamento che Marc Forster (mestierante dalla carriera bizzarra: prima Monster’s Ball e Neverland, poi Il cacciatore di aquiloni e Quantum of Solace, ed infine World War Z e Ritorno al Bosco dei 100 Acri) fa del romanzo dello svedese Fredrik Backman, dal (didascalico ed insieme magico) titolo L’uomo che metteva in ordine il mondo, al primissimo adattamento (svedese) del libro, ossia Mr. Ove del connazionale (di Backman) Hannes Holm.
È quello infatti l’unico elemento di Non così vicino capace di fornire un po’ di ombra, profondità, carattere, spirito ed intelligenza ad un film che, del resto, abbandona ogni traccia di black comedy pungente e mordace su un tema spinoso e delicato come il suicidio, rifugge ogni tipo di ambiguità e di sottotesto più sincero e sceglie la più agiata, confortevole e fulgida via della fiaba moderna alla Frank Capra (senza però averne nemmeno l’intenzione).
Sia chiaro: Non così vicino non è un film propriamente brutto o scorretto, anzi è fatto apposta per piacere e diventare, di diritto, il nuovo comfort movie di molti. È tuttavia così evidentemente giusto, corretto, quadrato, da sembrare nientemeno che il frutto di un algoritmo, di una macchina, di un artificio senza grande ispirazione e senza molto coraggio di sforzarsi anche solo un briciolo in più di un uso e sfruttamento blando e al risparmio dei propri ingredienti.
Al risparmio e nella sua zona di comfort è, per esempio, Tom Hanks, il quale si mostra divertito in un ruolo che, tutto sommato, potremmo pure considerare nuovo ed inedito per la sua carriera e il suo stardom. Ciò nonostante, è proprio quello stesso stardom e quello stesso immaginario a cui si rifà (di all-american-hero, di borghese irreprensibile, di paladino di un certo tipo di americanità per bene) che egli non riesce a sopprimere - al contrario, pare quasi foraggiare - con la sua interpretazione.
Per gran parte del primo e del secondo atto, Forster e lo sceneggiatore David Magee vogliono infatti raffigurare Otto Anderson come l’ennesimo epigono dello Scrooge dickensiano, come un personaggio disprezzabile, arcigno, quasi un orco scontroso che tiene in riga ed ammonisce il suo piccolo regno, il suo “piccolo angolo di paradiso” con convinzione, perseveranza, misura ed autorità - un po’ come il corrispettivo svedese, che di nome faceva Ove, come nel libro di Backman, interpretato da un impeccabile, fisionomicamente e fisicamente perfetto Rolf Lassgård. Eppure, ogni tentativo a favore di una tale rappresentazione e conseguente percezione spettatoriale viene affossata da un Hanks talmente fuori posto in panni che non sente mai come suoi, da fare irrimediabilmente tenerezza.
La stessa tenerezza melensa e patetica (e non in senso dispregiativo) di cui si informa, d'altronde, tutta l’operazione di Forster & co., che inciampa in tutti i possibili tranelli (che Holm era in parte e saggiamente riuscito ad evitare) in cui era possibile incappare nella traduzione di un testo del genere, ed è di fatto una continua dissimulazione.
Una che riguarda, innanzitutto, la sua natura produttiva: Non così vicino sceglie infatti un approccio al testo, all’estetica e al respiro narrativo più vicino al più pigro cinema indipendente (con tanto di registro fotografico che cambia ruffianamente a seconda che si parli del grigio e sbiadito presente, oppure del coloratissimo passato pastello), che non al blockbuster duro e puro che è già solo per la scelta di Tom Hanks, al fine di risultare magari più umile, autentico, sincero, semplice agli occhi del pubblico.
Allo stesso tempo, una dissimulazione è quella che Magee e il regista muovono nei confronti di tutti quei temi sociali e tendenze della contemporaneità, come immigrazione, razzismo, identità di genere, deforestazione, turbocapitalismo, conformismo innato ad una certa fascia sociale più âgée, (a cui Mr. Ove del film omonimo apparteneva ed Otto no). Hot topic, questi ultimi, che vengono chiamati in causa attraverso scampoli di dialogo, vicende, personaggi (come la Marisol di una splendida Mariana Treviño, la variante più memorabile e vera di questa equazione emotigena, capace da sola di mettere in ombra lo stesso Hanks), ma a cui però non viene mai data vera compiutezza, gravità o anche solo una posizione di arguto e lucido sottotesto. Viceversa, tutte queste tematiche vengono più che altro ridotte a pretesti per far apparire Non così vicino come qualcosa che non è. Come qualcosa di più elevato, di più importante, di più alto, di più di una parabola per tutta la famiglia (suicidio compreso).
Magari si potrebbe applaudire il film di Forster per aver ridotto e snellito la rigidità ritmica e fissità strutturale che i flashback avevano nell’imperfetto adattamento svedese. Ma anche in questo caso Non così vicino sbaglia in termini di grammatica cinematografica, privando lo spettatore del giusto contesto familiare e sociale che hanno reso Ove/Otto l’uomo che è (con le sue stravaganti idiosincrasie ed atteggiamenti al limite dell’autistico) - scambiando la credibilità del volto e dell’espressione di Truman Hanks, figlio di Tom, nei panni di un giovane (e fin troppo morbido) protagonista, a favore invece di una rassomiglianza più o meno evidente - ed infine edulcorando, ancora, un'ultima volta, i lati più ombrosi della sua biografia.
E - concedetecelo - di un nuovo adattamento/remake amabile, senz’altro piacevole, ma di maniera, lucente e non chiaroscurale, innocuo ed edulcorato, sia mai possa offendere o scandalizzare l’americano medio, non è che ce ne facciamo poi granché!
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