TITOLO ORIGINALE: Magic Mike's Last Dance
USCITA ITALIA: 9 febbraio 2023
USCITA USA: 10 febbraio 2023
REGIA: Steven Soderbergh
SCENEGGIATURA: Reid Carolin
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 112 min
Co-autore della serie insieme a Channing Tatum, Steven Soderbergh torna alle redini e dietro la macchina da presa di Magic Mike con il capitolo conclusivo(?) delle avventure dell'artista-spogliarellista di Miami. Il risultato è forse la pellicola meno soddisfacente sotto il profilo spettacolare ed affabulatorio, ma al contempo la più interessante ed “autoriale” per l’attenzione e la cura che pone in tutto ciò che esula dal primo piano, dove il regista custodisce e lascia fiorire silenziosamente il senso più profondo della sua opera. Una che è soderberghiana nel modo in cui si interessa ai modi in cui il denaro e i suoi flussi condiziona, snatura, deforma, ostacola la natura dell’uomo e ciò che, con essa, è quanto di più naturale, spontaneo, imprevedibile, inspiegabile, misterioso, alchemico, magico. Ma anche nel suo essere prosecuzione di una maniera di pensare, fare, interpretare il cinema modulato sulle tensioni di un presente (post-)pandemico, più simile ad un happening per pochi eletti, di limitate necessità che diventano sublime virtù.
La serie di Magic Mike è sempre stata scandita da ultime corse ed ultimi balli. Ha sempre avuto un lato crepuscolare, d’ombra, dietro tutti quei riflettori, dietro tutti quei giochi di luce che scolpivano i corpi tonici, guizzanti, edonici, oggetto del desiderio e del piacere estatico della visione. Si è sempre fondata su una lotta impossibile tra quegli stessi corpi ed un destino condiviso che fa rima con crisi e disparità economica sistematica, devirilizzazione e messa in crisi del maschio e di ciò che egli ha sempre rappresentato, specie nei confronti di un “gentil sesso” che ora risponde a ben altre esigenze, stimoli, desideri e piaceri, aspira a qualcosa di più, invoca a gran voce la libertà e l’emancipazione che le sono state da tempo negate.
Soldi e rapporto col femminile in tutte le sue emanazioni, propaggini e pulsioni, siano esse fisiche o scopiche: sono questi i due assiomi a cui ha sempre risposto il franchise di Magic Mike, dai tempi del cult movie che ne definì il successo e contribuì a rendere il suo protagonista e principale propugnatore, Channing Tatum, uno dei volti più richiesti e riconoscibili del pantheon hollywoodiano, fino ad arrivare ad oggi, allo spettacolo dal vivo Magic Mike Live! (lanciato, tra gli altri, dallo stesso attore) e al terzo (ed ultimo?) capitolo della sua odissea cinematografica, Magic Mike - The Last Dance.
Un titolo che, proprio in questo suo crepuscolarismo, nel sentore di fine, di ultimatum, di letterale fine delle danze, non fa altro che compiere una profezia già annunciata, una sintesi fra questi due assiomi. Quegli stessi assiomi, dalla cui vicendevole correlazione - non a caso - ha preso e prende vita, si è districato e si districa (da Traffic, passando per la trilogia di Ocean’s, fino ad arrivare ad Effetti collaterali e Panama Papers) il cinema imprendibile, sfuggente, ipertrofico, proteiforme, smisurato del film-maker per eccellenza ed etimologia, Steven Soderbergh, il quale, da co-autore, torna alle redini e dietro la macchina da presa della serie, firmandone forse il capitolo meno soddisfacente sotto il profilo spettacolare ed affabulatorio, ma al contempo il più interessante ed “autoriale” per l’attenzione e la cura che pone in tutto ciò che esula dal primo piano, sia esso fotografico, narrativo, scenico, emotivo, che, a momenti, sembra quasi diretto da un altro regista.
Magic Mike - The Last Dance è infatti un film in cui ciò che conta realmente non è il manifesto femminista di cui esso viene incaricato, che gli viene fatto gridare ai quattro venti e che mette in scena in tutti i sensi, bensì quello che avviene lontano dai riflettori, dietro le quinte, in secondo piano, tra uno stacco di montaggio e l’altro, tra un'inquadratura e l’altra. È lì, in quegli spazi oscuri della composizione e della performance, idealmente non-attrattivo ed attrazionale, che Soderbergh custodisce e lascia fiorire silenziosamente il senso più profondo di quello che, ad un'occhiata epidermica (in tutti i sensi), potrebbe apparire come un sequel abbastanza sciapo ed inconcludente; come una commedia romantica dai toni e dagli elementi (seppur rivisitati ed aggiornati alla contemporaneità e al contesto di Magic Mike) fiabeschi.
Per fare qualche esempio, è allora ad un chiacchiericcio fuori campo che Soderbergh affida l’introduzione e prima caratterizzazione - mentre, in rilievo, assistiamo proprio alla sua regale e suadente entrata in scena - di Maxandra, la “cazzuta”, esuberante, frizzante, vorace, vendicativa e un po’ nevrotica miliardaria interpretata da una Salma Hayek nella cui prova riecheggia la sensualità e lo shock (solo ribaltato nel gioco delle parti) dell’iconico ruolo che la lanciò in Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez - nell’ultima delle ambigue integrazioni biografiche di un franchise che ha mosso i primi passi proprio a partire da un capitolo della biografia del suo volto protagonista.
O ancora, è tutt’altro che casuale la scelta di ambientare uno dei punti di svolta della (risicata) trama - ossia il momento in cui sempre il personaggio di Hayek capisce di non poter nulla contro l’ex marito da cui tenta invano, anche attraverso lo spettacolo e la scena, di svincolarsi - sullo sfondo di uno schermo sul quale campeggia un grafico che rappresenta l’andamento finanziario in tempo reale di un dato titolo in borsa, a riassumere e ricapitolare ciò che, come già anticipato sopra, sempre ha interessato la visione soderberghiana. Il riferimento è appunto al modo in cui il denaro e i suoi flussi regolari, le sue certezze matematiche, le sue illusioni programmatiche, lo spietato incantesimo che esercita, il valore tutto artificiale e artificioso di cui viene investito, condiziona, snatura, deforma, ostacola la natura dell’uomo e ciò che, con essa, è quanto di più naturale, spontaneo, imprevedibile, inspiegabile, misterioso, alchemico, magico.
Quella cosa che Santanico Pandemonium risvegliava nel Richard Gecko di Quentin Tarantino (e nello spettatore) nel già citato Dal tramonto all’alba, e che qui Mike resuscita in Maxandra. Una sensazione che non si può spiegare a parole, ma può solo essere (ri)messa in scena, fatta rivivere in una sorta di happening esclusivo (come l'ultimo cinema di Soderbergh), in un’esperienza unica ed irripetibile, in una collettivizzazione di piacere libertino e libertario che sdogana e va oltre il mero scopo di lucro, il denaro di cui venivano ricoperti gli spogliarellisti nei due capitoli precedenti. In uno spettacolo che supera il materialismo pecuniario e l’illusione di un sogno americano che, un po’ come la danza, si è più volte ripresentato alla porta di Mike. (Lo stesso Mike che, in questo senso, non accetta mai le offerte e le remunerazioni che Maxandra gli offre, né viene dissuaso dall’innamorarsene quando lei gli rivelerà la sua reale condizione economica. Basti pensare anche solo ai soldi su cui si sofferma la macchina da presa nell’ultima inquadratura, indubbiamente falsi.)
In una rilettura e rivisitazione iconoclasta e pruriginosa di un testo teatrale oggi visto indubbiamente come misogino ed anacronistico - e, in parallelo, di un luogo tradizionale, intoccabile ed ultraconservatore come il teatro, quello all’inglese, nella sua accezione più shakespeariana, il quale diventa sintesi visiva e scenografica di uno dei dualismi principali del copione - che supera l’elemento pecuniario e materiale, per puntare a qualcosa di davvero puro, autentico, destabilizzante, vertiginoso.
Il fatto che poi ciò a cui assistiamo nel terzo atto non lo sia poi per davvero o fino in fondo è un altro paio di maniche, anzi corrisponde ad una delle caratteristiche tipiche del cinema di Soderbergh, che consiste, come scrive saggiamente Pier Maria Bocchi, nel “fare delle limitate necessità una sublime virtù”. Lo è, al contrario, l’idea della sceneggiatura del sodale Reid Carolin di mostrarci la costruzione di uno spettacolo, senza di fatto farcela percepire o davvero vedere (assistiamo sempre a qualche scorcio di prova, ma mai alla realizzazione vera e propria, alla preparazione artistica e atletica).
In compenso, siamo partecipi e diventa primario, importante, cutaneo (in un eccellente cortocircuito) proprio il secondo piano, il non-detto, la vera storia che si celerà poi dietro quelle voluttuose e lubriche performance, il sentimento che lo muove, la storia che di fatto lo agita e di cui è intriso fino al midollo, l’amore fatale che riecheggia e sprigiona, come ci rivela (ahinoi) didascalicamente il montaggio parallelo curato dallo stesso cineasta.
Così facendo, con questo show e tutti i sentimenti e i significati più o meno profondi che lo informano, (l'anti-hollywoodiano) Magic Mike - The Last Dance compie inoltre un subliminale discorso sull’attuale condizione di salute della macchina spettacolare nordamericana, anestetizzata, ingessata, inerme, innocua, sbiadito, digitalmente eterea, evanescente, inconsistente ed incorporea, privata della sua tensione ed azione primordiale, ovvero sognare ed essere sognata. Una condizione che sottrae ed induce, a sua volta, nel pubblico, in noi, in tutti noi, parimenti distaccati, alienati, isolati, la cui socialità è ormai in mano all’artificio, alla tecnologia, alla freddezza difettosa di videochiamate, come quella che vediamo, ad un certo punto, tra Mike e i suoi vecchi amici.
A tal proposito - e sempre nel segno di quell'emancipazione silenziosa del secondo piano - la pellicola si inserisce nell’affollato e cangiante corpus soderberghiano in qualità di prosecuzione ideale di un modo di pensare, fare, interpretare il cinema modulato sulle tensioni di un presente (post-)pandemico. Lo stesso modus operandi che ha dato il là ad un’opera estremamente interessante e stimolante nel suo sperimentalismo come Lasciali parlare. Laddove però in quel film, le costrizioni date dalla pandemia si tramutavano in un approccio minimalista da cui si originava, a sua volta, una riscoperta e valorizzazione inedita di elementi come l’improvvisazione e la recitazione, al contrario, in Magic Mike - The Last Dance, si incarica il segno ipersessuato, eccitante, procace, orgasmico, corporeo, carnale, caloroso, che ha sempre contraddistinto (il successo del)la serie, di significati nuovi e più intimi (come intimissimo ed assolutamente ipnotico è il primissimo, epifanico ballo tra Channing Tatum e Salma Hayek), di proprietà inedite, di altre sfumature.
Di qualcosa, insomma, che, ciononostante e a dispetto di quel che potrebbe apparire, è però tutt’altro che ignoto o sconosciuto, ma anzi affonda le proprie radici nelle nostre, di radici, e in quelle della danza, prima che divenisse spettacolo, prima che venisse sottoposta alle dure regole del soldo e si convertisse nell’ennesimo bene merceologico. Quando ancora era potere allo stato brado, indomito ed indomabile. Quando ancora era sinonimo di libertà e di comunione. Ed è proprio di questo che parla in fondo Magic Mike - The Last Dance: dell’ultimo ballo di uno, dieci, cento corpi in febbrile e vorticoso movimento che tentano a tutti i costi di esorcizzare l’inevitabile, l’ennesima (messa in) crisi (qualunque essa sia), della quale quegli stessi corpi, ed innumerevoli altri, sono insieme morbo e rimedio. Di nuovo, ancora, un (altro) ultimo ballo che può cambiare la vita.
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