TITOLO ORIGINALE: EO
USCITA ITALIA: 21 dicembre 2022
REGIA: Jerzy Skolimowski
SCENEGGIATURA: Ewa Piaskowska, Jerzy Skolimowski
GENERE: drammatico
DURATA: 88 min
Premio della giuria alla 75ª edizione del festival di Cannes; Candidato all'Oscar come miglior film straniero
Il maestro polacco del surrealismo Jerzy Skolimowski racconta, in EO, la storia di un asinello di circo che si ritrova a viaggiare da un capo all'altro dell'Europa continentale tra mille peripezie ed un'umanità forse ancor più bestiale della fauna animale, sciapa, inerte, insensibile, inconsistente, grottesca, mostruosa, tragicomica, deforme, impietosa. La metafora è abbastanza chiara, slavata solo da un eccessivo autocompiacersi della propria bizzarria. Ciò nondimeno, la vera forza di EO è il suo essere fondamentalmente un esercizio, ai limiti del saggio, sulla percezione spettatoriale; un ricettacolo di soluzioni ed espedienti a riconferma della forza intrinseca dell’artificio cinematografico, a sopperimento dell'inespressività del soggetto protagonista; un racconto del nostro essere prede e prigionieri dei modi in cui il mondo si rivela.
Gerd De Ley scriveva che “coloro che sono alla ricerca di un asino, troveranno sempre uno specchio”. E allora, EO e IO. In un suono si concentra tutto il significato dell’ultimo film del maestro del surrealismo polacco Jerzy Skolimowski, contemporaneo, amico e compagno di sventura del più noto e conterraneo Roman Polański (per il quale ha firmato i dialoghi de Il coltello nell’acqua), che, ad ormai 85 anni suonati, decide di rifare e riadattare al sentire contemporaneo Au hasard Balthazar di Bresson, la cui visione - lui stesso afferma - “mi ha cambiato radicalmente”.
Egli sceglie quindi di raccontare la storia di un asino, di nome Eo per l’appunto, il quale, a seguito del fallimento del circo in cui è cresciuto e si esibisce, si imbarca in un viaggio attraverso l’Europa, passando di padrone in padrone, di mano in mano, di situazione in situazione, ed osservando con uno sguardo malinconico, inquieto, timoroso la realtà e il mondo che ne fanno banalmente ciò che vogliono. Il gancio del “raccontare una storia attraverso gli occhi e il punto di vista di un asino” - ergo EO - diventa allora il modo più insolito, ma anche più stimolante con cui Skolimowski arriva poi, inevitabilmente, a parlare dell’IO, ovvero dei sentimenti individualisti ed egoistici che funestano un’umanità, in tal senso, quasi più bestiale della stessa fauna animale, sciapa, inerte, insensibile, inconsistente, grottesca, mostruosa, tragicomica, deforme, impietosa.
Quella stessa umanità che, come già anticipato sopra, farà del nostro, adorabile ciuco protagonista ciò di cui più hanno necessità e capriccio in quel determinato momento: e quindi da un bieco e degradante funzionalismo meccanico od alimentare, passa ad essere il portafortuna, la mascotte di una squadra di calcio di bassa lega, piuttosto che il compagno di un giovane neo-sacerdote (un inedito Lorenzo Zurzolo) che sembra intrattenere una relazione di natura incestuosa con la matrigna (una Isabelle Huppert che continua lungo il solco di un erotismo matronale).
Ebbene, quanto avete letto è ciò che salta agli occhi fin dalle primissime sequenze di EO ed è forse anche il suo più grande limite ed ostacolo. Sì, perché una volta messo in chiaro e più o meno intuito dove la pellicola e i suoi discorsi vogliano andare a parare, che visione del mondo intenda dipingere Skolimowski; la pellicola si arena purtroppo sulle proprie bizzarrie e si lascia convincere eccessivamente da una tendenza miniaturistica, dalle gioie dello scrivere, inventare e mettere in scena un racconto frammentato e frammentario, fatto di incontri con personaggi bizzarri e pittoreschi, circostanze inaspettate, momenti che si avvicinano all’onirico e al surreale. Schegge sfilacciate e vicendevolmente autarchiche. Tappe di un itinerario da road movie tipico, eppure sciancatissimo e sgraziato.
Ciò nondimeno, la vera forza e la più profonda singolarità dell’opera di Skolimowski - oltre ai sei asini sardi intervallati e “scritturati” per interpretare il nostro protagonista - consiste più che altro nel suo essere fondamentalmente un esercizio senz’altro capriccioso, ai limiti del saggio, sulla percezione spettatoriale e su come l’utilizzo del mezzo e del linguaggio cinematografico modifichi ed influenzi tale senso della realtà costruita(!) e (rap)presentata a schermo [e questo, lo si può intuire sin dal segmento iniziale, nel quale la padrona di Eo sembra intrattenere quasi un rapporto sessuale con l'animale]. Per ottenere questo risultato, il cineasta si limita a rimuovere l’elemento espressivo per eccellenza, lo strumento principale di rivelazione di questa realtà, ovvero la recitazione, alla quale sostituisce una presenza di per sé immobile, fissa, atona, afona, bidimensionale, triviale, stereotipata, che viene resa espressiva, peculiare, finanche umana solo ed esclusivamente grazie al segno cinematografico.
EO diventa così un esperimento molto interessante, nella misura in cui crede nelle potenzialità sintetiche dell’immagine e dell’arte del narrare per immagini e, pertanto, si propone e mostra come ricettacolo di soluzioni ed espedienti a riconferma della forza intrinseca dell’artificio cinematografico. Difatti, è solo attraverso il montaggio, una giustapposizione precisa ed accurata di azioni e reazioni, magari impresse e catturate in momenti diversi tra loro, di determinati sguardi, ma anche un particolare movimento di macchina, una specifica scelta di luci e colori, oppure ancora un’intenzione ed intonazione melodica posta al momento giusto; che a noi spettatori sembra di percepire, intuire, carpire, comprendere ed udire i reali pensieri dell’asino.
Noi stessi allora non siamo che prede e prigionieri della nostra stessa percezione, data, stimolata e solleticata, a sua volta, da un’illusione, una finzione, un incantesimo, un artificio, una formula matematica; secondo un approccio che ricorda, alla lontana, gli esperimenti di Lev Vladimirovič Kulešov, titolare del cosiddetto effetto Kulešov. Un qualcosa, dunque, di intrinsecamente artificiale, predeterminato e precostruito, come ci (e si) svela lo stesso Skolimowski in più di un’occasione. Si pensi, ad esempio, al breve segmento di transizione tutto dedicato al muoversi ingessato e scattoso di un androide quadrupede con una mini-cam al posto degli occhi, probabilmente utilizzato proprio per le poche soggettive che evidenziano, sottolineano ed enfatizzano il punto di vista dell’asino. O, in alternativa, al cartello finale, capace di smontare definitivamente - semmai ce ne fosse bisogno - ogni ipotesi di realismo, pure il più crudo ed angosciante.
Siamo sempre infatti dalle parti della favola fedriana, dai toni talora nerissimi, come già avveniva in Cow di Andrea Arnold e in Essential Killing dello stesso Skolimowski. Dalle parti di un film che, malgrado qualche scelta più didascalica, riesce infine a trovare un equilibrio sorprendentemente alchemico nella combinazione di linguaggi, stili, estetiche, riferimenti: da(gli acetati del periodo de)l cinema muto, passando per il racconto di formazione, la metafora classista, la commedia più fisica ed immediata e quella, invece, più sofisticata e sagace, ma anche l’horror - con un certo retrogusto tratto direttamente dall’Argento fantastico di Phenomena - e il melò, per arrivare infine al videoclip, in zona black metal nordico con i Behemoth, oppure krautrock con i Faust.
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