TITOLO ORIGINALE: Profeti
USCITA ITALIA: 26 gennaio 2023
REGIA: Alessio Cremonini
SCENEGGIATURA: Alessio Cremonini, Monica Zapelli
GENERE: drammatico, thriller
DURATA: 109 min
Quasi cinque anni dopo il suo folgorante esordio con il lancinante ed intenso Sulla mia pelle, Alessio Cremonini torna al cinema con la storia di una reporter di guerra che viene catturata dall'ISIS ed imprigionata in un campo di addestramento in Siria. Laddove sono da apprezzare alcune scelte di messa in scena, così come la volontà di dar forma ad un'opera che deve e vuole anzitutto informare, e non giudicare demagogicamente, Profeti sembra accontentarsi del mero processo mostrativo, di far vedere, senza filtri di sorta, la violenza e il male, senza però accettarne le conseguenze, senza volere, o meglio, riuscire a trovargli una spiegazione, una sintesi, un’argomentazione decisa e decisiva, né tantomeno una vera e propria conclusione.
C’è un’idea puramente cinematografica, o quantomeno un inizio di poetica e di etica della pratica cinematografica, in Profeti, il secondo lungometraggio scritto e diretto da Alessio Cremonini. Un discorso che già spiccava nel suo fulminante esordio, Sulla mia pelle, una pellicola talmente dirompente, intensa e consapevole nell’utilizzo del linguaggio cinematografico e di tutti gli strumenti a lui pertinenti e ascritti (tra cui il corpo attoriale), da diventare, in un certo senso, opprimente, più grande e addirittura più importante del suo autore, il quale, come è possibile leggere in un paio di interviste, ha faticato moltissimo per veder prodotto questo suo nuovo lavoro.
Questa idea consiste fondamentalmente nel concepire il mezzo-cinema e, più generalmente, l’immagine come tenutari di di una verità sempre dolorosa, lancinante, inevitabile, emaciata, universale e collettiva; come idoli in cui credere ciecamente proprio perché soli ed unici in grado di dare un volto ed un corpo alla presenza del male nel suo senso più ampio.
Allora se il fisico e la faccia irriconoscibili, lividi, informi, quasi mostruosi dello Stefano Cucchi di un formidabile e mimetico Alessandro Borghi serviva a certificare e testimoniare una realtà dei fatti, una versione ed una colpa collettiva non e mai negoziabili, in Profeti - che racconta la storia fittizia di Sara Canova, reporter di guerra italiana rapita in Siria dal Califfato Islamico, conosciuto alle cronache come ISIS - c’è il bisogno di vedere la brutalità, l’ignominia, la barbarie, le violenze sui prigionieri, le spie o le presunte tali con i propri occhi per credere, ma vi è anche la necessità di coprirsi alla vista degli altri in quanto donna, poiché “la donna non deve assolutamente creare scandalo”, perché così dice e vuole Allah.
Ma, nella seconda regia di Cremonini, ciò che si percepisce è soprattutto una (comprensibile) voglia di riconferma ed un senso di rispetto dell’altissimo standard che lui, in prima persona, aveva contribuito ad imporre con un film, il già citato Sulla mia pelle appunto, che, più che di un assoluto esordiente, sembrava firmato da un cineasta navigato, cosciente delle regole e delle logiche interne al racconto per immagini e sempre nella giusta posizione etica, politica e cinematografica all’interno di una storia, al tempo, ancora irrisolta; di una ferita aperta per tutto il tessuto sociale e nazionale italiano.
Riconferma e adempienza, a dispetto e a discapito di tutto. Perché se, come già anticipato, Profeti può sì contare su qualche buona idea di regia e messa in scena: la fessura occultata da un mobiletto, un buco nel pavimento, una crepa nel muro, attraverso cui guardare all’esterno o in altre stanze come evasioni fisiche e psicologiche, con tutte le conseguenze del caso, da una condizione opprimente e claustrofobica, ma anche il lavoro in sottrazione fatto su una Jasmine Trinca sempre, o quasi (a costo di un leggero overacting), misurata e molto (forse pure troppo) contenuta, o la scelta di mantenere la lingua araba ed inglese al di fuori dei muri della casa-prigione in cui Sara verrà sistemata per più di un centinaio di giorni, oppure ancora i vetri oscurati di suddetta, fatiscente ma dignitosa abitazione quale sintesi visiva perfetta del clima oscurantista che tenta di sottomettere e convertire ai propri dettami la nostra reporter; lo stesso purtroppo non si può dire di tutto il resto - dai concetti e dalle idee messe in luce, fino ad arrivare alla posizione dello stesso Cremonini nei confronti di ciò che sta raccontando.
Ciò detto, il più grande problema di questo film corrisponde precisamente all’impossibilità, da parte di chi guarda, di ravvisare anche solo la presenza di un autore, di una visione che costruisca, rappresenti ed ovviamente deformi, a proprio uso e consumo, una realtà ben nota ed affrontata da molto cinema occidentale. (Quello che si rintraccia è, per l’appunto, esclusivamente quel desiderio di ratifica di cui sopra, che è improbabile possa venir colto da uno spettatore più casuale e profano.)
In tal senso, è dunque apprezzabile il tentativo di dar letteralmente spazio e respiro al confronto dialettico, al contrasto di filosofie di vita, esperienze, esistenze, culture tra due donne diametralmente opposte in tutto, e, così facendo, comporre un’opera che deve e vuole informare, anziché giudicare demagogicamente. Eppure, questa stessa (ma impossibile, anzi, a più riprese, lo spettatore è portato proprio a giudicare e darsi una posizione rispetto a ciò che sta vedendo) oggettività di sguardo si trasforma ben presto in un autogol per la pellicola, le sue evidenti pretese emotigene, politiche, femminili e di denuncia, ed infine pure per la sceneggiatura - scritta dallo stesso Cremonini insieme a Monica Zapelli - ed una sua auspicabile compiutezza discorsiva.
Al contrario, Profeti sembra accontentarsi del solo atto e processo mostrativo; di esibire, di far vedere, senza filtri di sorta, la violenza e il male, senza però accettarne le conseguenze, senza volere, o meglio, riuscire a trovargli una spiegazione, una sintesi, un’argomentazione decisa e decisiva, una vera e propria conclusione. Semmai è tutto il contrario: si ha come la sensazione che i titoli di coda - pur facendolo dopo quasi due ore di non sempre facilissima fruizione - compaiano troppo presto, prima di un terzo atto, invece, del tutto assente.
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