TITOLO ORIGINALE: L'innocent
USCITA ITALIA: 19 gennaio 2023
USCITA USA: 12 ottobre 2022
REGIA: Louis Garrel
SCENEGGIATURA: Louis Garrel
GENERE: commedia
DURATA: 99 min
Presentato alla 75ª edizione del festival di Cannes
Quarta regia della jeune promesse Louis Garrel, L'innocente è la storia del superamento di un lutto raccontata sotto forma di polar familiare. Una prima, vera attestazione di maturità di questo giovane rampollo del cinema francese, del suo grande carattere, del suo gusto, del suo savoir-faire e dell'invidiabile eleganza con cui egli dà vita ad ogni ruolo e, in questo caso, a questo suo piccolo, grande mondo. Un film di personaggi, di scrittura di situazioni, di caratteri, di sentimenti e stati d’animo interiori, di alchimia e chimica tra quegli stessi personaggi e gli attori che sono chiamati ad interpretarli (Roschdy Zem e Noémie Merlant su tutti), ma anche un testo metacinematografico sulla pratica e sulla vocazione del fare cinema e del raccontare una storia.
“E iniziamo un'altra storia/E iniziamo un'altra storia/Ma questa è un'altra storia”. Risuonano, sulla skyline di Lione, le parole e la voce di Gérard Blanc e della sua ottantottina Une autre histoire. Si tratta, quest’ultima, di una sequenza di transizione, di svolta, di passaggio ad un'altra, forse la più importante e la meglio composta de L’innocente, la quarta regia della jeune promesse Louis Garrel.
In verità, questa semplicissima panoramica su una nebbiosa e fumosa Lione che sembra fuoriuscita da un polar anni ‘70 e queste precise parole di sottofondo chiariscono bene di cosa stiamo parlando. Sì, perché, ad una prima occhiata, L’innocente potrebbe pure sembrare un’altra storia, appunto, la stessa di sempre, tra intrighi, menzogne, sospetti, allusioni, tensione ed infine azione e romanticismo. E, in un certo senso, lo è, anzi essa stessa per prima si definisce in questo modo.
Eppure, quella anche scritta e (ovviamente) interpretata da Garrel “è un’altra storia”, definita e resa peculiare, oltre che assolutamente imperdibile proprio dal suo grande carattere, savoir-faire e dall'invidiabile eleganza con cui egli riesce a portare avanti e a coinvolgerci nel suo racconto. Lui, che non solo è figlio d’arte (e di che arte: nipote di un grande attore come Maurice Garrel, e figlio del regista Philippe Garrel e dell’attrice Brigitte Sy), ma anche uno dei volti più fotogenici della sua generazione e del cinema contemporaneo; uno di quei profili per cui sembra essere stato coniato il termine espressione, che definisce ed arricchisce il mezzo, la pratica e l’arte cinematografiche.
E, malgrado qualche capriccio estetico di troppo, con L'innocente, ci troviamo di fronte al primo grande punto di svolta per le ambizioni dietro la macchina da presa dell’interprete, ad una prima, vera attestazione di maturità, oltre che di un gusto tutt’altro che scontato. Lo dimostra, ad esempio, l’uso funzionale, consapevole e talora inaspettato dei rudimenti del linguaggio e della tecnica, come lo zoom, le dissolvenze, l’iris o lo split-screen, della gestione del ritmo e della tensione emotiva e drammaturgica, e ancora degli espedienti comici che mette in campo sempre al fine di raggiungere un obiettivo ben chiaro. Il quale si sostanzia, in primis, nell'indole divertita e divertente del testo, nella sua cadenza incontenibile, simile a quella delle care vecchie screwball comedies, nella speciale combinazione di generi, toni, ispirazioni, nell’unione di basso e alto, di melò, commedia e noir-thriller; ma più che altro nella composizione sottile di un sottotesto che si rivela poi essere nientemeno che il cuore della pellicola.
Una pellicola, L’innocente, che racconta fondamentalmente il superamento di un lutto, di un trauma nella vita di tal Abel Lefranc, giovane guida di un acquario, figura singolare, evidentemente complessata, diffidente, respingente, vile, inetta ed irresoluta, così come maschera comoda e confortevole - alla stregua di Michele Apicella per il suo amico, collega e grande estimatore Nanni Moretti - che Garrel si porta dietro, indossa e ripropone dai tempi del suo esordio registico (nel 2015) con Due amici.
Ad inizio film, lo incontriamo ancora sofferente, torvo e depresso per la precoce perdita della moglie, uno shock che egli riflette e traspone sulla madre, sotto forma anche di una gelosia dagli echi inequivocabilmente edipici, poiché lei, a differenza sua, dopo la scomparsa del compagno, è riuscita a rifarsi una vita, o meglio, più vite, più volte. Data infatti la sua natura esuberante, estroversa, anche un po’ sregolata, oltre che indubbiamente procace; natura, quest’ultima, che cela tuttavia un segreto ed un’interiorità da lei custoditi ermeticamente e gelosamente (non a caso Garrel decide che, ad interpretarla, debba essere la magnifica, eppure inafferrabile Anouk Grinberg), Sylvie - questo il nome della madre - ha frequentato e si è sposata con moltissimi uomini, per la maggior parte galeotti che devono ancora finire di scontare la loro pena, che ella conosce mentre tiene corsi di teatro nelle carceri.
In tal senso, quando questa decide di sposarsi per l’ennesima volta con un fu(?) delinquente, autore di colpi improbabili, tal Michel Ferrand, Abel inizia subito a sviluppare una risposta passivo-aggressiva, un risentimento, una specie di competizione virile con quest’uomo, ma anche molta, moltissima sfiducia predeterminata nella sua supposta riabilitazione sociale. E forse non ci vede poi così male, tant’è che, ad un certo punto, si ritroverà addirittura a dover prendere parte ad uno dei colpi del criminale, insieme all’amica e collega Clémence, anch’essa segnata dalla morte della moglie di Abel, senza per questo essere del tutto esente da una grande attrazione, sintonia e piacere (indubbiamente ricambiati) nei confronti del ragazzo.
Come avrete forse intuito, L’innocente è allora un film di personaggi, di scrittura di situazioni, di caratteri, di sentimenti e stati d’animo interiori, di alchimia e chimica tra quegli stessi personaggi e - va da sé - gli attori che sono chiamati ad interpretarli. In tal senso, la creatura di Garrel non delude, combinando a quelle del suo regista e della già citata Grinberg, le prove di un Roschdy Zem versatilissimo, capace di apparire gigione e temibile, di tenere unite la sua anima più melò e comica (quella di cui ha già dato prova nel recente I figli degli altri) e quella invece più gangsteristica, più da strada, da banlieu, da atmosfera metrò (si pensi a Roubaix o a Point Blank); e di una Noémie Merlant che conferma, anzi talora probabilmente intensifica l’incanto di Ritratto della giovane in fiamme, Parigi, 13 Arr. e Tár, lasciando libera uno slancio ed uno spirito comico imprevedibili.
Tutte queste minime e quasi impercettibili variazioni psicologiche dei personaggi, in particolare di Abel, e quindi la scrittura in sé e per sé, Garrel le persegue, le compone, le tinteggia e le esprime attraverso (così facendo, dimostrando di conoscere finemente) le proprietà sintetiche, ma pure il richiamo più viscerale dell’immagine e del racconto per immagini. Più semplicemente, mettendole in scena.
Parliamo perciò un'opera che, al di là di tutti i pregi finora elencati e di un montaggio magari troppo rigido e dai tagli non sempre comprensibili di determinati momenti, è in fondo un piccolo, grande racconto metatestuale sulla pratica e sulla vocazione più istintuale del fare cinema e del raccontare una storia o, per dirlo con Gérard Blanc, “un’altra storia”.
Pratica e vocazione, che, come esplicitato da tutta la sequenza delle prove e della stessa rapina, vuole dire intrattenere, persuadere, utilizzare ogni strumento a propria disposizione, ogni emozione rimossa, celata o soppressa per illudere il pubblico che la finzione che gli si sta proponendo è autentica. E, ancora, di farlo a tal punto da favorire una sovrapposizione di reale e falso, e, chissà, a rendere quella finzione necessaria, circostanziale, improbabile, l’innesco di una verità che era sempre stata lì, ad uno sguardo di distanza, e che solo il cinema permette di vedere per la prima volta.
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