TITOLO ORIGINALE: Close
USCITA ITALIA: 4 gennaio 2023
REGIA: Lukas Dhont
SCENEGGIATURA: Lukas Dhont, Angelo Tijssens
GENERE: drammatico
DURATA: 104 min
Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 75º Festival di Cannes
Vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria al 75º Festival di Cannes, Close è la seconda regia del belga Lukas Dhont, a quattro anni dall'esordio fortunato, controverso e folgorante di Girl. Come quel film, quest'ultimo racconta di uno sguardo altrui, esterno, discriminatorio, che si insinua nell’interiorità, scava nell’intimità e arriva finanche a distruggere, disorientare e angosciare completamente chi non rientra nei suoi schemi corrosivi o, meglio, chi addirittura li surclassa, li infrange, li fa straripare. La storia di un legame sopra e al di là di ogni classificazione, che Dhont tratta con una formidabile scrittura per immagini emotiva ed emotigena, con la sua invidiabile capacità di sintesi visiva di sensazioni e sentimenti, e con una chiarezza ed un controllo assoluto su ciò che inquadra. Peccato che, a cotanta potenza emozionale, egli non riesca ad accorpare una sintesi semantica e figurativa altrettanto brillante ed interessante, e che pertanto si abbia continuamente l’idea di star guardando niente più che un compitino a modo, pulito, mai eccessivamente sgraziato o problematico, privo però di un suo sguardo.
Close non è solo il titolo della seconda esperienza alla regia di un lungometraggio per il belga Lukas Dhont, dopo il (per molti, ma non del tutto per chi vi scrive) folgorante esordio di Girl, la storia di Lara, un'adolescente MtF col sogno di diventare, un giorno, un'etoile della danza classica, ma anche e soprattutto un discorso su un corpo impossibile da definire, da accettare e riconoscere pienamente, e su uno sguardo altrui, uno sguardo sociale, che è, al contempo, affascinato e discriminatorio nei riguardi di questa profonda ambiguità ed androginia fisica, angosciato ed angosciante per la protagonista, il suo processo di transizione, così come la sua stabilità emotiva e psichica.
Ma è anche una distanza, Close, una posizione, una statura ben precisa della macchina da presa, dell’occhio registico, della sua umanità all’interno dello spazio filmico e della rappresentazione. La vicinanza, il contatto, il coinvolgimento totale di Lukas Dhont nelle (sinora poche) storie che racconta. Una posizione che non è certo il primo a ricoprire, né tantomeno ad inaugurare, ma che egli soddisfa, occupa, sostanzia, con una dote che pochissimi oggi possono vantare. Ossia una formidabile scrittura per immagini emotiva ed emotigena, una capacità di sintesi visiva di sensazioni e sentimenti, una chiarezza ed un controllo assoluto su ciò che inquadra e ciò su cui pone il proprio obiettivo, tali da permettere allo spettatore di essere sempre a conoscenza del termometro interiore dei personaggi, anche solo con un loro gesto, una minima variazione espressiva, uno sguardo lì piuttosto che là, un atteggiamento ben preciso; e di percepire ed immaginare ogni singolo pensiero passi per la loro mente.
Una virtù ed un’attitudine, quest’ultime, preziosissime per una voce autoriale che sembra ormai propensa a raccontare un certo tipo di storie, una determinata categoria di personaggi, sensibilità ben definite, una porzione ben chiara del tessuto umano.
Quella stessa abilità che, in Close, Dhont pone al completo servizio di una vicenda che tratta essa per prima di distanze, divari, avvicinamenti ed allontanamenti, e delle conseguenze che queste (all’apparenza) semplicissime decisioni di posizione, di localizzazione nello spazio (e, quindi, di disposizione rappresentativa) comportino nelle vite delle persone, di come esse la impattino, in meglio e in peggio.
Le vite di Close sono innanzitutto quelle di Léo e Rémy, due ragazzini di tredici anni legati da un rapporto che va al di là di qualsiasi definizione si voglia o possa trovare. Più dell’amicizia, più della fratellanza, più dell’amore: una connessione simbiotica, fatta di complicità ed intimità assoluta, pura, smaliziata, di ritualità imprescindibili, un legame necessario tra due animi candidissimi (forse pure troppo), tuttavia caratterialmente antitetici, un contatto vitale, come vitale sono i giochi d’immaginazione e finzione, le corse tra i campi, le pedalate in bicicletta o una storia confortante prima di andare a dormire. Finché uno dei due - il più ingenuo, estroverso, irriflessivo e sognatore - non decide di rifuggire, di rinunciare anche solo per un po’ a quella connessione per via di quello che gli altri pensano o potrebbero pensare.
Torniamo allora a quello che, a questo punto, è chiaramente uno dei nodi centrali della poetica in-the-making di Lukas Dhont, ovvero il modo in cui il giudizio degli altri, di un corpo e di un retroterra sociale chiuso (appunto), retrogrado, fallocentrico, estremamente tossico, seppur in maniera magari inconscia ed indiretta, espresso eccellentemente attraverso semplici sguardi, si insinui nell’interiorità, scavi nell’intimità e arrivi finanche a distruggere, disorientare e angosciare completamente chi non rientra nei suoi schemi corrosivi, o meglio, chi addirittura li surclassa, li infrange, li fa straripare.
Laddove allora, in Girl, si poneva l’accento sulla fascinazione insieme morbosa, rubata, segreta, subdola, ma pure indubbiamente nociva ed umiliante dello sguardo del mondo al di fuori della propria cameretta, qui questo corpo osservato, bollato, schernito, si sdoppia e si rompe a metà, eppure la formula viene decisamente semplificata.
Difatti, pur ribadendo e avvalorando i grandi punti di forza del suo esordio, tra cui, oltre all’estremo controllo della messa in scena e di ogni sua singola variabile (i silenzi, il ritmo, la cadenza, il dinamismo emotivo, la costruzione drammaturgica, pure i fluidi corporei sembrano programmati), è d’obbligo citare il sublime lavoro di direzione e di lavoro con interpreti di fatto esordienti e non professionisti (com’è qui il caso di Eden Dambrine, il cui sguardo è uno dei più seduttivi, intensi e penetranti che abbiamo visto negli ultimi anni, e dell’altrettanto meraviglioso Gustav de Waele); Close rappresenta, per chi scrive, un leggero passo indietro da parte di Dhont rispetto all’opera che lo fece conoscere al mondo.
E non solo ed esclusivamente perché, a cotanta chiarezza e potenza sentimentale, questi non riesca ad accorpare una sintesi semantica e figurativa altrettanto brillante ed interessante (vedasi il raffronto tra il ciclo della crescita e della raccolta agricola e naturale e la condizione esistenziale di uno dei personaggi), oppure per la proverbialità controproducente di un intreccio che vorrebbe pure sorprendere e scioccare, o ancora per la prolissità narrativa e la ripetitività di situazioni (tutti problemi già riscontrati in Girl), ma anche e soprattutto perché, al di là dell’invidiabile padronanza del mezzo che fa di Close un’opera comunque apprezzabile, permane continuamente - alla stregua della presenza impalpabile e fantasmatica di una certa figura da un certo punto in poi (resa eccellentemente da Dhont e dal direttore della fotografia Frank van den Eeden mediante la scelta dei piani e dei punti macchina) - l’idea di star guardando niente più che un compitino a modo, pulito, mai eccessivamente sgraziato o problematico.
Un testo che segue dunque regole, fissità, convenzioni tipiche del “cinema d’autore” in quanto genere e che i suoi obiettivi li centra pure (a Cannes, un premio, l’ha pure vinto), ma che ci sentiremmo di definire tutt’al più scolastico (pure in termini di possibili utilizzi futuri) e schematico, quando non - ahinoi - volgarmente ricattatorio. Un film modulare, da cineforum, su temi sempreverdi, già visti e stravisti, a cui però manca uno sguardo ed una cifra ben circoscritti, capaci non solo di andare oltre la transitorietà e l'effimerità e visceralità dell’emozione, prolungando banalmente all’infinito la parabola e la storia di Close, ma pure di canalizzare e restituire un talento presente, ma sin troppo lontano per essere compreso nella sua interezza.
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