TITOLO ORIGINALE: Le otto montagne
USCITA ITALIA: 22 dicembre 2022
REGIA: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
SCENEGGIATURA: Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
GENERE: drammatico
DURATA: 147 min
Vincitore del Premio della giuria alla 75ª edizione del festival di Cannes
Sette anni dopo l'incantesimo di Non essere cattivo, Alessandro Borghi e Luca Marinelli tornano insieme sul set e sul grande schermo ne Le otto montagne, l'adattamento dell'omonimo, amatissimo ed universale romanzo di Paolo Cognetti, davanti alla macchina da presa belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. I due traggono un adattamento estremamente fedele, ma pur sempre funzionale e congeniale al mezzo e alle esigenze cinematografiche del materiale originale che, ciononostante, trova la propria “voce” più nell’esattezza, nella statura e nella potenza (indubbiamente cinematografica) dei volti, che non nelle scelte registiche, visive e formali con cui i due autori decidono di riproporlo, quel materiale. Eppure, Le otto montagne rimane una delle pellicole più affascinanti ed avvolgenti in cui avrete il piacere di immergervi.
Alessandro Borghi e Luca Marinelli sono tra gli attori più bravi dell’ultim(issim)o cinema italiano, senz’altro i più talentuosi della loro generazione, ed insieme danno vita a qualcosa che è riduttivo, forse addirittura banale definire semplicemente “chimica”, “alchimia”, “magia”. Eppure un qualche tipo di incantesimo si compie e si dispiega di fronte agli occhi di chi guarda, nel momento stesso in cui i loro due sguardi, le loro fisicità quasi antitetiche, i loro diversissimi approcci attoriali entrano in contatto sul set e sullo schermo.
Successe nel 2015, nell’ultimo film del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, e accade oggi, sette anni dopo, nei 147 minuti de Le otto montagne, un’operazione sui generis per il panorama nostrano, in quanto si tratta dell’adattamento di un grande romanzo italiano - l’omonimo scritto da Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega e del Prix Médicis étranger - con protagonisti, appunto, due altrettanto grandi attori italiani, propugnata, tuttavia, da una produzione internazionale (Italia, Belgio, Francia) e firmata da una coppia di registi belgi, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch.
Ma non c'è poi da stupirsi: quella di Cognetti è una storia universalissima, una in cui chiunque può trovare qualcosa che gli appartiene, un proprio posto familiare; un racconto molto autentico e, soprattutto, costruito interamente sul legame profondissimo e - c’è da dirlo - difficilmente trasponibile tra due personaggi, a loro volta, ardui da tradurre su pellicola.
In tal senso, non è quindi tanto difficile immaginare cosa abbia spinto, interessato e trovato il regista di due racconti molto intimi, essenziali e commossi come Alabama Monroe e Beautiful Boy, e la sceneggiatrice del primo, nonché sua compagna di vita (qui al suo debutto dietro la macchina da presa), nelle pagine altrettanto essenziali, sobrie e pulite del romanzo. Romanzo rispetto a cui i due registi, anche autori del copione, traggono un adattamento estremamente fedele, ma per lo più funzionale e congeniale al mezzo e alle esigenze cinematografiche.
Così scrivendo, non vogliamo assolutamente dire di non aver trovato talora ridondante e superfluo il mantenimento di una certa letterarietà nell’uso del voice-over, oppure l’indulgenza dimostrata nei confronti di alcuni segmenti della storia originale, a discapito di una fluidità maggiore dell’esperienza e di una durata inferiore della pellicola.
Tuttavia, sarebbe scorretto non riconoscere che Van Groeningen e Vandermeersch siano riusciti a trovare il giusto equilibrio tra fini e mezzo, così com'è da apprezzare l’equidistanza tra affezione e attaccamento alla materia originale ed una resa più propriamente ed evidentemente cinematografica di quest’ultima che riescono, in ogni caso, a rispettare. Sarebbe però parimenti scorretto non riconoscere da cosa derivi e quanto questa resa cinematografica sia da attribuire strettamente e solamente alla coppia di firmatari della pellicola. Difatti, un po’ come i protagonisti - che di nome fanno Pietro e Bruno -, i due trovano la propria e la “voce” della loro opera soprattutto nell’esattezza, nella statura e nella potenza (indubbiamente cinematografica) dei volti, che non nelle immagini con cui decidono di raccontarla.
Allora, de Le otto montagne possiamo ammirare, lodare e godere, più che altro, della già citata tensione segnica e contrapposizione in quanto corpi filmici, di per loro straordinarie e stratificate (dal livello extradiegetico dello sguardo, dei gesti, della fisicità e della posizione nello spazio, a quello diegetico ed emotivo), fra Alessandro Borghi e Luca Marinelli, che l’istanza narrante - in una riproposizione più arthouse del divismo classico à la John Ford - raffigura ed eleva a granitiche, esoteriche ed arcaiche presenze mitiche e mitologiche, impegnate a caricarsi sulle spalle e a vestire archetipi e sentimenti smisurati, primordiali, basilari, rimanendo, al contempo, ben saldi ed aggrappati al proprio essere umani, ad una fragilità innata ed inevitabile.
O anche l’inedita misura di Filippo Timi nei panni di un personaggio onnipresente, quasi di un fuoricampo vivissimo e dinamico, ed una Elena Lietti che finalmente abbandona la consistenza eterica di alcuni dei suoi ruoli più riconoscibili. Oppure ancora, l’indubbia perfezione del casting dei due protagonisti da bambini e adolescenti rispetto alle loro controparti adulte, sia nel caso dei piccolissimi e naturalissimi Lupo Barbiero e Cristiano Sassella, sia in quello dei più fugaci Andrea Palma e Benedetto Patruno.
A convincere decisamente meno sono invece le scelte che Van Groeningen e Vandermeersch approntano - nella continuazione di una strada essenzialista, sottrattiva e sintetica, che è di Cognetti, ma pure indiscutibilmente loro - al fine di contenere ed esprimere le emozioni, il calore e il coinvolgimento che questi nomi dimostrano ed infondono nella vivificazione di questa storia, che è (finalmente) una vera storia d’amicizia, ma anche di sogni e realtà, di praticità e astrattismo, di circolarità naturale, di radici e luoghi che, per quanto si rifuggano, tornano periodicamente alle porte della mente. E ancora, di un passato che diventa futuro, di verità e scoperte che ridefiniscono un’intera esistenza, di tempo che scorre e si tenta invano di ricercare, recuperare, ripercorrere, riconsiderare, di affetti discontinui, a partire da una paternità intermittente ed ambigua che diventa origine e matrice di due personalità, atteggiamenti e filosofie di vita diametralmente opposti, di legami necessari e determinanti al pari della cordatura per affrontare il ghiaccio alle maggiori altitudini.
Se colpisce pertanto la messa in scena di una particolare svolta nella vita e nel rapporto di Pietro e Bruno con un uso mirabilissimo del secondo piano, lo stesso non si può dire del formato 4:3 che la coppia di registi, insieme al sodale direttore della fotografia Ruben Impens, sceglie come (vera) finestra di accesso alla storia e alla loro visione.
Una decisione determinata senz’altro da esigenze di tipo pratico, vista l’asperità dei luoghi di ripresa, ma anche poetico. Il 4:3 costringe infatti lo spettatore a focalizzarsi su ciò che l’istanza narrante ritiene importante - ossia, nella maggior parte dei casi, appunto, sull’intensità delle interpretazioni e sull’intreccio e scioglimento di rapporti e relazioni, che si affermano perciò come i catalizzatori della forza naturale, della ripidità, della ruvidità, dei ritmi lenti, meditabondi e compassati e dell’imprevedibilità della montagna, che torna ciclicamente anche nelle loro vite -, impedendogli quasi del tutto di vagare con lo sguardo alla ricerca di un dettaglio che esuli dal controllo della messa in scena. Cosa che potrebbe trovare riscontro nel tentativo invano, da parte di uno dei due protagonisti, di domare la propria vita e, così facendo, l’ecosistema che lo circonda. O anche in una possibile dimostrazione, attraverso la fissità artificiale e funzionale dell’occhio registico, della vivacità e vitalità delle emozioni raccontate, nonostante tutto; in altre parole, di un calore umano che riesce a far breccia e scaldare anche l’impostazione più formalista e rigida.
Tuttavia, per chi scrive, in termini meramente esperienziali e di gusto, la scelta di tale formato si rivela didascalicamente adatta a rappresentare la costrizione rumorosa, alienante, caotica, asfissiante della dimensione cittadina (bellissime le inquadrature su Giovanni/Filippo Timi all’uscita della fabbrica), mentre limita, in qualche modo, la suggestione dei panorami e dei set a cielo aperto in Val d'Ayas e nella valle del Lys.
Forse era questo l’unico modo possibile per trasporre il libro di Paolo Cognetti. Forse, scolpiti nella proverbiale beria o sepolti nel ghiacciaio dei tempi, rimarranno soltanto la commozione sincera, la magia e le barbe di Alessandro Borghi e Luca Marinelli, mentre la consistenza e il ricordo del film sfumeranno tra le nebbie, verranno seppellite sotto le prime nevi, o conservate fra le pagine di un quaderno sbiadito a migliaia di metri d’altitudine. Eppure, Le otto montagne rimane una delle pellicole più affascinanti ed avvolgenti in cui avrete il piacere di immergervi.
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