TITOLO ORIGINALE: Guillermo Del Toro's Pinocchio
USCITA ITALIA: 4 dicembre 2022
USCITA USA: 4 dicembre 2022
REGIA: Guillermo Del Toro, Mark Gustafson
SCENEGGIATURA: Guillermo del Toro, Patrick McHale
GENERE: animazione, fantastico
DURATA: 121 min
PIATTAFORMA: Netflix
La dissidenza in tutte le sue forme, i suoi livelli e le sue modalità, la morte che scandisce e tripartisce un racconto cristologico, diventando artificio (non-)vitale, l'accettazione della nostra fallibilità ed imperfezione, ed infine l'alchimia di anime altresì detta amicizia sono gli strati di cui si compone il Pinocchio di Guillermo Del Toro, un film complesso, sostanzioso, meraviglioso, incantevole, emozionante. La summa della sua filmografia. Un autentico capolavoro.
Tutti i migliori racconti celano la chiave per accedere al loro significato più vero e profondo, al loro cuore, nelle primissime pagine, nei loro istanti primigeni, nelle sequenze iniziali. E, in questo, il Pinocchio di Guillermo Del Toro non fa eccezione: nel suo prologo, infatti, il cineasta messicano compie una sintesi visiva e semantica di tutto ciò che andremo a scoprire e vedere successivamente.
Definire meravigliosa, grandiosa, strabiliante, eccezionale, incantevole, emozionante, l’ultima, l’ennesima (dopo l’adattamento noir fedele e classicissimo di William Lindsay Gresham nel recente La fiera delle illusioni - Nightmare Alley) follia di una voce preziosissima ed irripetibile nel panorama moderno; di un uomo e di una personalità fortunatamente ingombranti - di nome e di fatto -; dell’oggi unico e solo, incontrastato signore del fantastico; di “un bambino che ama i mostri”; di un febbrile geek che è riuscito a fare delle sue passioni e, spesso (specie da bambino) delle sue evasioni, la sua vita - come dimostra la sua casa-Wunderkammer a Thousand Oaks in California, oppure il suo altrettanto Gabinetto delle Curiosità su Netflix -; di un collezionista compulsivo di suggestioni, emozioni, storie che poi trasforma, plasma, ridefinisce, fa proprie e mette al servizio delle sue creazioni, altro non sarebbe che un uso eufemistico e, alla lunga, abbastanza sterile di questi aggettivi. Ecco perché, nelle righe che seguono, tenteremo di usarne il meno possibile, anche se talvolta saranno a dir poco inevitabili.
Dicevamo: il prologo del Pinocchio di Guillermo Del Toro contiene al suo interno tutti gli strati di senso e significato che accompagneranno noi spettatori lungo quella che è, in primis, riscoperta della fiaba pedagogica e moralista, datata 1883, del fiorentino Carlo Collodi. Strati come, ad esempio, il più evidente ed epidermico, disvelato proprio dall’intrinseca esistenza di questo proemio, inesistente nella controparte cartacea.
Parliamo dunque dell’infedeltà, del dissenso, dell’eterodossia, che è forse il tema cardinale del film e appunto la principale ragione creativa ed esistenziale di tutta la visione deltoresca rispetto al testo collodiano. Difatti, come lui stesso ha affermato, il suo Pinocchio (non a caso, nel titolo è inclusa anche la specificazione attributiva “di Guillermo Del Toro”) è appunto un inno alla disobbedienza in termini esistenziali, artistici e, ça va sans dire, politici, di cui Pinocchio è il portabandiera eccellente e, di conseguenza, è anche l'emanazione della voce e della verità del regista.
Il romanzo di formazione morale e moralistico come tutti lo conosciamo non viene quindi soltanto ampliato (all’inizio e pure alla fine), ma anche contestualizzato storicamente (siamo in piena Italia fascista) e, così facendo, inquadrato in una continuità e in un universo filmografico più ampi [Pinocchio si configura, in tal senso, come ideale terzo capitolo del trittico storico deltoresco, composto da La spina del diavolo e Il labirinto del fauno, e il suo protagonista non è che un discepolo ed un compagno filmico di Carlos e Ofelia] e, inoltre, riletto da tutt’altra prospettiva. Tutto il film vede invero il burattino costantemente tentato, invitato od obbligato a “credere-obbedire-combattere”, come intimano i faccioni di Mussolini che campeggiano sui muri del suo "paese natio"; ad aderire a diversi, ma in fondo simili ed indistinguibili modelli, ovviamente paternalistici, che a loro volta rispondono ad un’ideologia dominante, la quale vuole fare di Pinocchio il burattino che di fatto è, vale a dire un magnifico mezzo di propaganda.
Un‘ideologia che è specificatamente fascista giusto per una questione di intensità e affermazione del messaggio, poiché, come già si diceva ne La spina del diavolo, è il frutto di una storia ben più ampia. E la storia, come ci ricorda sottilmente la targa affissa all’entrata della scuola dove Pinocchio “dovrebbe” andare, “è maestra di vita”. Ciò detto, non è forse un caso allora che quel messaggio sia posto al di fuori di un edificio, che, al pari del circo (o meglio, una versione in miniatura de La fiera delle illusioni) e della rivisitazione del Paese dei Balocchi, si rivela solo un altro santuario intitolato a quegli stessi ideali.
Ideali che, come sempre accade fin dagli albori del cinema di Del Toro, sono il fondamento di un mondo e di una società fallocratica, spinta all’über-virilizzazione, ultraconservatrice ed ultracattolica (un tarlo che assedia l’autore sin dall'infanzia), in profonda idiosincrasia con il diverso, lo sconosciuto, l’abietto (si pensi alla reazione di Geppetto appena vede Pinocchio: quello di Del Toro non è infatti quello straordinario e scintillante della tradizione Disney, né tantomeno quello pregiatissimo e barocco dell’adattamento di Matteo Garrone). Diverso, abietto, finanche orrorifico, che, pure qui, diventa portatore inconsapevole della morale fiabesca del testo.
Un’ideologia, insomma, di cui l’istanza narrante si prende costantemente gioco, affidando ai momenti del (ahinoi) celebre saluto romano la massima carica comica della pellicola e alla rappresentazione del burattinaio-burattino Mussolini il tratto di satira e denuncia più evidente ed esilarante, efficace anche per gli spettatori più piccoli. Un’ideologia che infine possiamo definire anche guerresca, bellica; una che uccide ed annienta.
Eccoci dunque arrivati al secondo strato di Pinocchio di cui si può già scorgere qualche avvisaglia in quel prologo eretico, coerentemente disobbediente e divergente rispetto a tutto quello che la tradizione pretenderebbe o lo spettatore si aspetterebbe: la morte che diventa artificio (non-)vitale.
L'ultima fatica di Del Toro è infatti pervasa, sin dalle primissime scene, da un’atmosfera ed un destino mortiferi. E questo, a partire dal fantasma della guerra che si impossessa della dimensione del gioco infantile [la soggettiva ondulante sull’altalena che va ad inquadrare i caccia che volano alto nel cielo, con il loro inquietante rombo], al taglio dell’albero, passando per la creazione di un crocefisso per la chiesa del paese, che sta a rappresentare fondamentalmente la morte di un essere umano, come e meglio(!) di Pinocchio (che resusciterà ben tre volte), che molti discriminavano e che è morto per ciò in cui credeva, ribellandosi all’ideologia allora dominante, per poi essere fatto (a differenza del burattino) idolo di un’altra dottrina - una tra le più diffuse, parimenti reazionaria, intollerante e perbenista -; fino ad arrivare alla morte vera e propria di Carlo, che è, nella carne, il primo, vero figlio (non- e anti-canonico) di Geppetto, e, nelle intenzioni, la rappresentazione dello spirito di (Carlo) Collodi all’interno della visione deltoresca.
È allora proprio dalla morte d(e)i Carlo - provocata tanto dall’illusoria perfezione di quell’ideologia cristiana, quanto dell’indottrinamento alla bellezza, come sinonimo di impeccabilità, del padre Geppetto - che prende vita Pinocchio, burattino e film: due entità diverse che, non-vitali, andranno alla ricerca del vero senso dell'esistenza, circolarmente inteso ed anticipato già all’inizio della loro avventura. Parliamo, appunto, della morte o, in altre parole, forse migliori, dell’accettazione della nostra mortalità.
In più, con Pinocchio e la sua creazione quale corpo finzionale e creatura filmica - vedasi le intensissime ed espressionistiche immagini di Geppetto che convulsamente, sopraffatto emotivamente dalla perdita del figlio, si mette a costruirne un’imitazione in grado quantomeno di palliarne l’assenza - Guillermo Del Toro compie una delle più lucide e sincere dichiarazioni d’intenti della sua smagliante carriera, rivelando allo spettatore che creare è un atto intrinsecamente egoistico. Un atto necessario innanzitutto per chi crea, al fine di soddisfare le proprie pulsioni (oppure, nel caso del messicano, di assecondare le proprie ossessioni). Il frutto di un momento di hybris, di onnipotenza, di tracotanza.
Ne consegue, nello specifico deltoresco, l’idea di creazione quale atto di intrusione, di appropriazione e di rimaneggiamento secondo la propria sensibilità, dunque la sensibilità di un agente esterno (com’è, d’altronde, Sebastian il Grillo rispetto alla storia di Pinocchio), di un qualcosa di già esistente. Oppure ancora di creazione quale condizione di prigionia autoimposta, perché “tutte le cose belle richiedono pazienza”, come dimostra la lavorazione di questo stesso film, durata nove anni, o più famosamente i numerosi tentativi del cineasta di portare sul grande (o piccolo? Magari con Netflix?) schermo la sua personale trasposizione di Alle montagne della follia del suo nume H. P. Lovecraft. Tentativi scontratisi però, costantemente, incessantemente, con la reticenza di praticamente qualsiasi studio di produzione.
Per tornare tuttavia sui nostri passi: la morte - con l'aiuto del suo agente migliore, ma pure più crudele, ossia il tempo, che non casualmente è pure tra le specificità del mezzo cinematografico - è l'elemento che scandisce e tripartisce il racconto di Pinocchio. Un racconto che, come anticipato sopra, diventa proprio per questo un vero e proprio cammino di matrice e beffardo e dissacrante superamento cristologico (torniamo quindi all’esordio deltoresco di Cronos), al cui epilogo attende la risposta ad una domanda che il regista messicano si pone già dai tempi del primo Hellboy: “cos’è che fa di un uomo un uomo?”.
Un’umanità che diventa tale (e diventa morale favolistica) solo (di nuovo) attraverso un ribaltamento del punto di vista collodiano: Pinocchio non diventa "un bambino vero" rispettando le regole, ma infrangendole, e, così facendo, accetta la propria mortalità, il riconoscimento della propria fallibilità e dell’imperfezione intrinseca ad ogni creatura cosiddetta umana, ottiene la consapevolezza che “quel che accade accade e infine ce ne andiamo”.
Una frase, questa, la cui gravità e senso risuonano nella caduta della pigna che inizialmente era stata individuata come assoluta perfezione, e che sigla per di più la chiusura del sipario su una visione - accentuata dall’imprecisione e dall’innaturalezza dell’animazione in stop-motion - che prevede che, a crescere umanamente, sia sì Pinocchio, ma [e questa è l’ultima delle rivoluzioni apportate all’originale collodiano] pure Geppetto, rappresentante dell’egocentrismo ed individualismo di cui sopra, al quale si contrappone, vitalmente ed idealmente, la condivisione e comunione dei momenti della propria vita, la familiarità acquisita, la fratellanza, la solidarietà. In una parola sola, l’amicizia, vaticinata anch’essa dall’ontologia del cinema, che è l’unica forma d’arte che deve sempre e comunque contare su una collettività, su un lavoro di squadra e di concerto, su una connivenza reciproca, su un’alchimia di anime, per un fine più grande.
La magia, il fantastico, il favolistico, in Pinocchio, non sono dati allora soltanto dal burattino che prende vita, ma si trovano più che altro nella combinazione di un’umanità artistica che intride tutto ciò che tocca di questa insopprimibile joie de vivre, di un contagioso fervore creativo.
Non a caso, ci troviamo di fronte alla prima co-regia della lunga carriera filmica di Del Toro, che firma la pellicola insieme a Mark Gustafson. Per non parlare poi dello stellare cast di doppiatori originali, con nomi del calibro di Ewan McGregor (che risentiamo cantare per la prima volta dai tempi di Moulin Rouge!), Ron Perlman, John Turturro, Finn Wolfhard, Cate Blanchett, Tim Blake Nelson, Christoph Waltz e Tilda Swinton.
Dopodiché, come non citare, tra i componenti di questa “umanità”, le designer Desiree Ong, Jessica Ann Moretti, Joe Kortum, Alexandra Friedman e Merve Caydere e il loro lavoro meticoloso ed iper dettagliato; il team di animatori capeggiato da Ludovic Berardo e Tim Allen; Ken Schretzmann e il suo montaggio precisissimo, dal sapore molto classico; o ancora, Alexandre Desplat e le sue incantevoli musiche, che, come in tutti i film del messicano per cui ha lavorato, rappresentano sempre quel rimando calibratissimo alla dimensione fiabesca, quella colonna vertebrale che sostiene e dà respiro ed emotività alla visione di Del Toro. Che, se non il suo film migliore o la summa del suo intero lavoro (ancor più di quanto visto ne La forma dell’acqua), con Pinocchio ha dato vita senz'altro ad un frammento inestimabile di cinema o, come si dice in questi casi, ad un autentico capolavoro che - questo sì - potrebbe realmente diventare immortale.
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Ringraziamo: Emanuele Rauco e il suo Beautiful Freak - Le fiabe nere di Guillermo Del Toro, edito da Bakemono Lab, dalla cui lettura provengono molti degli spunti e riflessioni contenute nell'articolo.