TITOLO ORIGINALE: Mrs. Harris Goes to Paris
USCITA ITALIA: 17 novembre 2022
USCITA USA: 15 luglio 2022
REGIA: Anthony Fabian
SCENEGGIATURA: Carroll Cartwright, Anthony Fabian, Keith Thompson, Olivia Hetreed
GENERE: drammatico, commedia
DURATA: 116 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Il britannico Anthony Fabian traspone per il grande schermo il romanzo di Paul Gallico su un'anziana donna delle pulizie inglese che si imbarca su un aereo per la Francia per comprare un abito tanto sognato di Christian Dior. Dopo Il filo nascosto, Lesley Manville torna a splendere in un film sul mondo della haute couture (qui più favolistico, da cartolina, divertissement âgée) di cui soddisfano le interpretazioni di un cast anglo-francese, le ambientazioni elegiache e i magnifici costumi filologici di Jenny Beavan. Non soddisfa e appare confuso e contraddittorio, invece, il tentativo di fondere l'alta moda e un discorso di stampo marxista.
L’abito (non) fa il monaco. È nelle possibili variazioni di questo semplice proverbio che si può riassumere La signora Harris va a Parigi, l’adattamento che il britannico Anthony Fabian trae dall’omonimo romanzo di Paul Gallico, già trasposto per il piccolo schermo da Anthony Shaw nel 1992, con la complicità attoriale della compianta Angela Lansbury.
La protagonista di questa traduzione cinematografica è invece una vivace e spiritosa Lesley Manville, che, cinque anni dopo l’exploit ne Il filo nascosto, torna a rubare la scena in un altro film, certo diametralmente opposto per intenti e riuscita da quest’ultimo, ma ambientato nel mondo della haute couture del secondo dopoguerra. Un mondo, quello raccontato da Gallico e rappresentato da Fabian, molto meno fallocentrico, ossessivo, spietato e crudo di quello presieduto dal Reynolds Woodcock di un magnifico Daniel Day Lewis, anzi virato sui toni della fiaba dai buoni sentimenti, della cartolina d’atmosfera, di un film fieramente (rivolto ad un pubblico) âgée, di un racconto volutamente rassicurante e privo di oscurità o grandi conflitti, che riafferma e sottolinea che “i sogni son desideri”, specie “in momenti come questi” (il Covid?).
Vuole vincere e, forse per alcuni, riesce effettivamente a vincere facile La signora Harris va a Parigi. In primis, attraverso un cast anglo-francese di grandi nomi, come Isabelle Huppert e Jason Isaacs, che mettono tutto il loro cuore e la loro buona grazia per portare a casa qualcosa di più del compitino che sembrerebbe prefigurare la sceneggiatura naif, indulgente ed autocompiaciuta di Carroll Cartwright, Keith Thompson, Olivia Hetreed e lo stesso Fabian. Poi, mediante un’ambientazione che è di fatto la sintesi da esportazione - incorniciata e saporita dalla fisarmonica persistente ed elegiaca della colonna sonora di Rael Jones - di cosa e come il cinema, negli anni, ha visto, immaginato, letto, riletto, proposto e riproposto la capitale francese, da Un americano a Parigi a Cenerentola a Parigi, da Il favoloso mondo di Amelie [a cui il film di Fabian si rifà più che esplicitamente nella scrittura semplicistica e bonaria dei suoi personaggi, specie della protagonista, e nel retrogusto zuccheroso delle vicende narrate e dei suoi messaggi più epidermici] a Midnight in Paris, da Before Sunset a Ratatouille. E infine, grazie ai meravigliosi costumi del premio Oscar Jenny Beavan (Camera con vista, Mad Max: Fury Road, Crudelia), che ricostruisce fedelmente i fasti del primo decennio di vita della casa di alta moda Christian Dior.
D’altronde, è proprio per comprarsi un abito firmato Dior che la signora Harris - donna delle pulizie modesta, ma gentile e dal grande cuore, capace di far felice e confortare chiunque ne abbia bisogno, una sorta di Mary Poppins del pulito, non ancora ripresasi dalla perdita (in guerra) del marito - decide di recarsi a Parigi ed esaudire così uno dei suoi più grandi sogni. Di questo parla sostanzialmente sia il libro di Paul Gallico, sia il film di Anthony Fabian, il quale, ciononostante, nel voler aggiungere qualcos’altro, qualcosa di più “nobile” e “rilevante” alla patina di frivolo, ben educato e senz’altro delizioso divertissement della domenica pomeriggio con un target ben definito, di esercizio cinematografico corretto, ma indolente, oltre che leggermente prolisso, o, altrimenti, di costosissimo spot al brand Dior (cosa che di fatto si conferma essere), pecca di tracotanza e crolla sotto il peso di un’evidente incertezza politica, che diventa a sua volta semplice e pedante didascalismo.
È chiaro, pertanto, quello che il cineasta e co-sceneggiatore avrebbe voluto ottenere con questa semplice storia, oltre alla fascinazione per alcuni splendidi abiti ed interpretazioni aggraziate: dar vita ad un insolito matrimonio tra il mondo dell’alta moda e discorsi di stampo socio-marxista, dunque al racconto di un desiderio piccolo-borghese che diventa espressione ed intercetta un sentire proletario in una società ancora evidentemente classista e discriminatoria; ma anche e soprattutto comporre una storia di emancipazione e autodeterminazione del singolo (per la precisione, di una donna assurdamente definita “nuova”) che si converte nel desiderio di molti, o meglio, molte. Ad una storia che, in questo senso, arrivi anche ad evidenziare l’importanza e il ruolo che la femminilità ha avuto non solo nelle passerelle e sotto i riflettori, ma anche dietro le quinte, per il destino e la fortuna di una grande firma come Dior.
Purtroppo, se in quest’ultimo caso bastano anche solo le prove di un cast affiatato per compiere al meglio delle possibilità quanto preposto, non sono tuttavia sufficienti un paio di citazioni da L'essere e il nulla di Sartre (saggio di ontologia fenomenologica in cui l’autore afferma che l'esistenza dell'individuo precede l'essenza e che il libero arbitrio esiste) o qualche chilo di immondizia sparsa per le note strade parigine, per offuscare la materialità (pure economica), l’edonismo e la brama di eccellente stampo capitalista che guida, sospinge, pervade e compra tutto il racconto, pertanto passibile di incoerenza e cerchiobottismo. Un peccato veniale, quest’ultimo, facilmente estinguibile con un’eventuale riflessione sui significati altri di un qualsiasi capo di alta moda, su cosa può rappresentare, sul perché - oltre alla dimensione più favolistica, vagheggiante e vanesia - una donna vorrebbe averlo, e quindi sul valore comunicativo connaturale e sugli effetti di questo nella negoziazione sociale.
Ma Fabian & co. si fermano ben prima: all’abito come meta da raggiungere, come motivo di felicità, come convalida affettuosa e patetica delle proprie virtù. All’abito in sé e per sé, che non farà certo il monaco, ma lo rende senz’altro più felice.
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