TITOLO ORIGINALE: The Land of Dreams
USCITA ITALIA: 10 novembre 2022
REGIA: Nicola Abbatangelo
SCENEGGIATURA: Nicola Abbatangelo e Davide Orsini
GENERE: drammatico, musicale, sentimentale, fantastico
DURATA: 120 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Musical italiano con cast internazionale, The Land of Dreams è l'esordio alla regia cinematografica di Nicola Abbatangelo, che, insieme a Davide Orsini, racconta i sogni di una sguattera della New York degli anni '20 col sogno di diventare una cantante di successo, che un giorno incontra un giovane di bell'aspetto, ma dalla storia oscura che, come per magia, rende quel sogno realtà. The Land of Dreams segue alla lettera il canovaccio di un cinema italiano che affronta il genere con incertezza, poca convinzione e complessi d'inferiorità, adagiandosi sui modelli statunitensi e non comprendendo le regole intrinseche di ciò che si sta andando a girare e produrre. Il risultato è un racconto afono e privo di alcun tipo di conflitto, ma solo di smancerie ed atteggiamenti e passi affettati, che, diversamente da quanto professa, lui per primo, non osa sognare.
Osa sognare, canta qualcuno in The Land of Dreams di Nicola Abbatangelo. Va bene, osiamo e sogniamo un cinema italiano che, una volta per tutte, affronti il genere con carattere, personalità, spirito d’iniziativa ed intraprendenza, in modi nuovi, secondo vie che nessuno ha esplorato prima d’ora o quantomeno partendo e raggiungendo assiomi assodati secondo però itinerari nuovi, nostri. Davvero nostri.
Desideriamo quindi un cinema italiano che faccia intrattenimento per il grande pubblico, cinema spettacolare, cinema fantastico, cinema favolistico, senza complessi d’inferiorità od omologazioni che, alla fine, non danno mai vita a qualcosa di competitivo, né a qualcosa che può realmente ambire ad un vero respiro internazionale, aderendo perciò agli standard di chi, questo tipo di produzioni, è più bravo a concepirle e a portarle a termine, semplicemente perché sono decenni che le fa.
Purtroppo, l’esordio alla regia cinematografica del termolese classe 1988 segue alla perfezione il canovaccio del cinema che assolutamente non vorremmo più vedere in Italia. Quello che si nasconde dietro le spalle degli altri, o meglio, che sale sulle spalle dei giganti, facendosi però, a sua volta, irrimediabilmente più piccolo. E i giganti a cui si ispira e che entrano prepotentemente nella visione di The Land of Dreams (che arriva a cinque anni di distanza da Ammore e malavita dei Manetti Bros., un film che dimostrò alle platee e ai player nazionali che un musical italiano era ed è ancora possibile) sono tanti, tantissimi, forse addirittura troppi. Probabilmente, se provaste a dire il titolo di un musical, uno qualsiasi, ne troverete senz’altro qualcosa, magari una lacrima, magari qualcosa di più, all’interno di questo film, nella composizione delle inquadrature, nelle scenografie, nei costumi, nel design degli effetti, nei risvolti del racconto.
È dunque dietro le fiabe Disney più note e celebrate; dietro testi storici del musical statunitense come Cantando sotto la pioggia, West Side Story, Chicago, Moulin Rouge, ed altri invece più recenti come The Greatest Showman; o ancora dietro film come 1917 nei pochi segmenti ambientati tra le trincee francesi della prima guerra mondiale, o La leggenda del pianista sull'oceano per le analessi, con ispirazioni pittoriche di evidente estrazione impressionista, ambientate sulla nave su cui gli emigranti italiani si imbarcano in direzione della cosiddetta terra dei sogni e delle possibilità; ed infine dietro una certa estetica gotico-burtoniana in tutti quei segmenti invece più onirici, immaginifici, fantastici ed irrealistici; che si eclissa e sminuisce la composizione di Abbatangelo.
Ma forse questa pudicizia, questa incertezza registica è possibile prevederla già dai titoli di testa, ancor prima che lo schermo viene riempito delle immagini della devastazione della Francia del 1918, nel momento in cui, prima di quello dell'autore, compare il nome del compositore della colonna sonora, Fabrizio Mancinelli. Che si tratti di un tentativo di dissimulare la paternità (e le responsabilità) del progetto?
Credeteci o meno, una cosa è certa: la musica - onnipresente, implacabile, soffocante, ostinata, pervasiva, forse troppo tronfia e pomposa per le immagini che deve accompagnare - è la vera, se non proprio l’unica e sola regia, di The Land of Dreams; la tenutaria dei ritmi (inesistenti e languidi), della magia (precotta, slavata, taroccata, zuccherosa), del racconto (eufemisticamente proverbiale), della caratterizzazione e del tratteggiamento emotivo dei personaggi, del cuore del mondo diegetico (un collage decalcomanico di estetiche ed influenze artificioso, appiattito da una CGI inetta).
Che poi la regia di Abbatangelo non sarebbe nemmeno propriamente sbagliata, malfatta od inadeguata, anzi talora si inerpica in travelling visibilmente artificiosi, a metà tra Zemeckis e Luhrmann, sopra i tetti di una New York dei Roaring Twenties, volteggi acrobatici e piani sequenza dinamici, peccato che ciò che inquadra e comprende all’interno dello sguardo della propria macchina da presa sia tremendamente antiquato, compassato, esangue, fiacco, rigido, inerte, raffreddato.
Smunta e cadaverica a là Tim Burton è infatti, innanzitutto, la protagonista, alias la solita Cenerentola col sogno di cantare, interpretata da una Caterina Shulha apatica ed opaca. Giustissimo come volto ma fin troppo ordinario è viceversa il giovane favoloso che strega la giovane di belle speranze, portato su schermo da George Blagden (così come ordinario, prevedibile ed integrato confusamente nell'economia del racconto è il suo dono-maledizione-figurativizzazione di stress post-traumatico di materializzare i sogni del prossimo). Decisamente a disagio sono infine i tre espatriati italiani, il circense Stefano Fresi, il mafioso ipertruccato Edoardo Pesce e lo scagnozzo con segreto (intuibile) Paolo Calabresi.
Attenzione, qui non si sta discutendo, né si vuole discutere sul tenore o sulla qualità espressiva delle interpretazioni (anche se il doppiaggio italiano non aiuta certo l’immersione), ma, durante la visione, è di fatto impossibile non soffrire la più totale inadeguatezza delle stesse ad un genere vitale, dinamico e funambolico come il musical, che tra l'altro richiede ineccepibili doti canore e di danza. Va bene puntare ed accorpare nomi nostrani ad attori internazionali come si faceva nella belle époque del cinema italiano, ma era forse troppo chiedere un manipolo di attori e di figuranti che quantomeno avessero quel poco di esperienza atletica e di capacità motoria da permettere alle coreografie di poter essere un minimo più creative, vitali, sorprendenti? Per non parlare infine del cantato che, tralasciando l’eccessiva didascalismo e la pochissima inventiva nella scrittura dei testi - che, a loro volta, compromettono l’effettiva memorabilità dei pezzi -, sembra sempre fuori sincrono con le composizioni e le basi di Mancinelli.
Ma forse pretendiamo troppo da un film afono e privo di alcun tipo di conflitto, ma solo di smancerie ed atteggiamenti e passi affettati, che, diversamente da quanto professa, lui per primo, non osa sognare, e che, credendo - come gli emigranti italiani - che il modo (e il mondo americano) sia la terra in cui tutto è possibile, si scontra, suo malgrado, con un’amara disillusione.
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