TITOLO ORIGINALE: L'ombra di Caravaggio
USCITA ITALIA: 3 novembre 2022
REGIA: Michele Placido
SCENEGGIATURA: Michele Placido, Fidel Signorile, Sandro Petraglia
GENERE: drammatico, storico, biografico
DURATA: 120 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Supportato da una grossa coproduzione italo-francese, Michele Placido racconta Caravaggio. Genio indiscusso, gigante insormontabile, icona immortale, ma anche uomo enigmatico, violento, schizofrenico, febbrile, tormentato, dissoluto, perverso e vizioso. Purtroppo, superata un'interessante premessa narrativa (sulla falsa riga del Dante di Pupi Avati), L'ombra di Caravaggio dimostra la vacuità della propria idea di fondo in merito all'immagine e all'immaginario del pittore lombardo. Infatti, l'impressione che resta veramente è quella di un regista settantaseienne non proprio lucidissimo che finisce per eclissarsi nel cercare di raccontare qualcosa che non sente propriamente suo, ma che anzi sembra di fatto imbarazzarlo. Lo stesso che, pertanto, quando non può ripiegare nella sicurezza della figura stereotipata dell'artista maledetto, preferisce porre tutto in sottrazione, senza mai mostrarlo nella sua nudità e verità, compiendo di fatto il più grande smacco a Caravaggio e alla sua eredità.
C’è una sequenza, ne L’ombra di Caravaggio, che testimonia ciò a cui il biopic di Michele Placido avrebbe potuto aspirare. Quello che avrebbe potuto essere, se solo fosse stato disegnato, o meglio, schizzato a partire da un’idea di fondo forte, originale, vera; da una posizione, una visione, una prospettiva certa, precisa e, ovviamente, inedita su uno degli artisti più importanti di tutta la storia umana. È anche l’unica davvero riuscita della pellicola, quella in cui questa grande coproduzione italo-francese sembrerebbe trovare una corda, una melodia, un’umanità da pizzicare, suonare e far risuonare sulla superficie delle immagini.
Stiamo parlando del segmento che ripercorre la genesi della Morte della Vergine, uno dei massimi capolavori di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, uno dei suoi quadri più emozionanti, penetranti, vividi. Quello in cui, più di tanti altri, si compie la propria idea di rappresentazione ed esprime la propria fede nella parola di Dio e nella pittura. In cui riesce a far avvicinare, come mai prima d’allora, la prosa della vita, la carnalità, la mortalità, il profano, l’allora eretico e blasfemo, con la poesia del sacro, l’immortalità, la spiritualità, il divino, recuperando il corpo di una giovane prostituta annegata, vestendola di qualche straccio e trasfigurandola così nella Vergine Maria.
Lui, che ha sempre spaventato la Chiesa per il suo metodo creativo poco ortodosso e per un’arte che incanta(va) ed insieme inquieta(va) per il suo essere truce, cupo, sanguigno, violenta, troppo reale, e vuole innanzitutto (e forse soltanto) parlare al popolo. Che alle regole pittoriche dell’epoca, quelle della prassi accademica raffaellesca, preferiva la ricerca, lo studio e la rappresentazione del vero, la transustanziazione e sublimazione di una realtà, in senso quasi proto-verista, quale luogo prescelto e prediletto di assoluta manifestazione dell’unica e sola essenza del creato, della religione, del (proprio) credo. Caravaggio, che amava dipingere e, così facendo, solo attraverso il proprio pennello, rendeva sacro, poetico, immortale il dolore dell’umanità, le piaghe della carne, i segni della miseria o, come lo definisce lui, “il dolore dell’esistere”, fondando quello che sarebbe poi passato agli annali come naturalismo e tracciando una via che tutti i pittori dopo di lui, caravaggisti e barocchi, seguiranno ciecamente. Lui, che era ed è tuttora un genio indiscusso, un gigante insormontabile, un’icona immortale, ma anche un uomo enigmatico, violento, schizofrenico, febbrile, tormentato, dissoluto, perverso e vizioso, che ciononostante, proprio grazie a questa sua forte ambiguità, è riuscito a fare suo il Cinquecento italiano e non solo.
Sono questi tutti dettagli, epiteti, aggettivi, concetti, fatti, di cui avrete letteralmente fatto indigestione una volta usciti dalla visione de L’ombra di Caravaggio. Infatti, come nella migliore tradizione del cinema didattico e didascalico di casa nostra, non si fa che elencare e ricordare costantemente cosa di grande ed incredibile, ma anche riprovevole e licenzioso, ha commesso il pittore durante la sua vita travagliata. Inoltre, come solito, ogni personaggio, non appena mette piede in scena, è tenuto a presentarsi (con tanto di nome, cognome, titolo nobiliare e qualifica), a chiamare e definire coloro a cui si riferisce nello stesso modo, e a ribadire, ancora una volta (sia mai che non si sia capito!) quanto “il maestro amava dipingere il vero” o che “solo un uomo tormentato come Michele poteva creare questo capolavoro”. Per non parlare infine del delitto dell’acerrimo rivale Ranuccio Tomassoni, le cui dinamiche vengono sciorinate e riportate di fatto ogni tre cambi di scena.
Sì, si tratterebbe di una minuzia di poco conto, se solo fosse inserita in una composizione filmica pregevole e, soprattutto, densa di contenuto, originale nei modi, coraggiosa nella rappresentazione del mito e dell’iconografia a lui riferita. Al contrario, l’idea che torna ciclicamente durante L’ombra di Caravaggio è che Placido e i co-sceneggiatori Fidel Signorile e Sandro Petraglia avessero davvero poco da dire, raccontare, azzardare nel confronto con una figura del genere, fatta eccezione forse per il pretesto narrativo che accomuna quest’ultima alla recente rappresentazione di un’altra icona italiana, ossia il Dante di Pupi Avati.
Se lì, infatti, si utilizzava la figura dell’esegeta Boccaccio e il suo viaggio da Firenze a Ravenna come occasione per ripercorrere i luoghi e i momenti della vita e dell’opera del Poeta Vate, in questo caso, veniamo introdotti nel mondo - senz’altro più magniloquente, ricco, pomposo, sfarzoso, iperprodotto di quello avatiano - di Caravaggio attraverso, appunto, la sua Ombra o, per meglio dire, la figura di questo inquisitore, interpretato da un Louis Garrel che sarebbe pure bravo, se solo la sua recitazione non venisse costantemente sciupata da un doppiaggio ai limiti dell’indecenza; che, giusto in seguito all’uccisione di Tomassoni a Campo Marzio, viene incaricato da Papa Paolo V per indagare su Caravaggio e la sua arte ancora considerata empia, amorale, sporca, problematica.
Prende dunque il via una sorta di Quarto potere de noantri, con questa Ombra torva, minacciosa, crudele, insopportabile, che inizia a fare il giro di conoscenti, colleghi, rivali, amanti, compagni del Merisi, tentando di ricostruire, pure con modi abbastanza bruschi e crudeli, i passi del pittore - quest'ultimo, ancora latitante a Napoli presso la nobile famiglia dei Colonna - durante il suo periodo romano (quello che, ricordiamo, copre la sua ultima porzione di vita, dal 1594 al 1606). Tuttavia, esattamente come nel caso di Avati con Dante, o forse pure peggio, Michele Placido non si distanzia così tanto, anzi forse retrocede allo stereotipo dell’artista maledetto, dimostrandosi in più abbastanza retrivo e democristiano nell’affrontare la sessualità dell’artista.
L’unica idea di rilettura ed attualizzazione de L'ombra di Caravaggio è dunque puerile, banale, proverbiale: Caravaggio è stato una rockstar ante-litteram, un punk-rocker strafottente, indisponente e teppista, se non addirittura un proto-rapper per l’intensità, la metrica e la mimica di alcuni suoi scambi con l’antitesi pittorica Giovanni Baglione (un Vinicio Marchioni di buona presenza) e la nemesi pro-testosterone Tomassoni (un Brenno Placido proverbiale).
Eppure, l'impressione che resta veramente è purtroppo quella di un regista settantaseienne non proprio lucidissimo (la vera Ombra), che finisce per eclissarsi nel cercare di raccontare qualcosa che non sente propriamente suo, che non ha nelle sue corde, ma che anzi sembra di fatto imbarazzarlo. Lo stesso che, pertanto, quando non può ripiegare nella sicurezza della figura pseudo-archetipica di genio ninfomane, seducente, procace, fallocentrico, paranoide, che viene inghiottito dalla propria arte; preferisce porre tutto in sottrazione, affidare al chiacchiericcio, lasciare intendere, affidare alla parola, ma mai mostrare nella sua nudità e verità.
Meglio un amplesso con l’ennesimo personaggio femminile privo di sfumature e personalità, ma semplicemente ammaliata da Michelangelo - sia esso la prostituta interpretata da una terribile ed inascoltabile Micaela Ramazzotti o la nobildonna di una Isabelle Huppert pallida e sciapissima -, che non il racconto e la messa in scena dell’omosessualità del pittore e quindi della sua relazione con Mario Minniti o Francesco Boneri, detto Cecco (qui portato in scena da un Tedua trascurabilissimo). Sia mai che qualcuno fra il pubblico si senta offeso!
Vuoti, anzi vuotissimi sono, in tal senso, il corpo, il copione, l’intreccio, così come pochissime sono le idee realmente cinematografiche de L’ombra di Caravaggio, il quale, attraverso un montaggio sconclusionato, ridondante e noioso, che lo priva peraltro di un fuoco mandatorio; si trascina pigramente di sequenza in sequenza, tra festini orgiastici e dionisiaci che neanche Eyes Wide Shut, intrighi di corte e di palazzo, discussioni artistiche e teologiche più o meno colorite, il dispotismo d’interpretazione della Chiesa romana, animalesche, quasi bestiali scene di sesso (che, depauperate di un vero discorso, diventano pura pornografia, bieca eccitazione voyeuristica), sequenze di interrogatorio ridicole, un linguaggio che alterna, senza alcuna soluzione di continuità, l'irrinunciabile romanesco da suburra ad una parlata invece più magniloquente e letteraria, zeppa di barocchismi ed orpelli, riproposizioni compilative di momenti iconici della storia caravaggesca, sfilate di guest star e personalità di spicco dell’epoca, ed una recitazione scadente o sbiadita da parte di un cast internazionale di tutto rispetto, di cui siamo già pronti a dimenticare un Riccardo Scamarcio mai propriamente credibile ed incapace di farsi mimetico per donare un’interpretazione dell’artista e non l'immagine di sé stesso che fa Caravaggio (c’è differenza!).
Fortuna vuole che il budget permetta al film di raggiungere quantomeno un adeguato e generoso livello di production design - su tutti, la fotografia pittorica, filologica e fedelissima dell’irriducibile Michele D'Attanasio, i costumi di Carlo Poggioli e le scenografie di Tonino Zera - che imbelletta e rilega il prodotto, distogliendo nel frattempo l’attenzione dello spettatore più generalista dalle sue evidenti mancanze, dal nulla pneumatico che sta vendendo. In questo modo, però, L'ombra di Caravaggio dà involontariamente credito alle parole di chi, all'epoca, disprezzava, semplificava e discriminava Caravaggio perché non lo comprendeva o voleva comprendere davvero, e segna, di conseguenza, forse il più grande sgarbo possibile nei riguardi del pittore lombardo e di ciò che, con la sua arte, ha sempre cercato di lasciare emergere.
Che poi, pur affacciandosi verso oltralpe, alzando quanto basta l’asticella delle proprie ambizioni, dandosi infine questa sua parvenza maestosa, quasi da kolossal, l’odore stantio e ammuffito del solito cinema italiano polveroso e decadente - quello imbarazzante ed imbarazzato, ormai privo di idee, incapace di emanciparsi dal predominio autarchico ed incondizionato della televisione, dai suoi modi, linguaggi e schematismi - e dell’operazione potenzialmente orfana di pubblico, è sempre lo stesso: inconfondibile, immarcescibile, profanatore dell'eternità e genialità del mito in questo autoritratto geriatrico.
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