TITOLO ORIGINALE: Io sono l'abisso
USCITA ITALIA: 27 ottobre 2022
REGIA: Donato Carrisi
SCENEGGIATURA: Donato Carrisi
GENERE: thriller
DURATA: 126 min
Tre anni dopo il flop de L'uomo del labirinto, Donato Carrisi torna al cinema con un altro thriller tratto da uno dei suoi romanzi. Io sono l'abisso sembrerebbe un ritorno sui propri passi, alla compostezza ed impegno discorsivo de La ragazza nella nebbia, solo con un'ampiezza e complessità maggiori. Tuttavia, a fronte di un inevitabile confronto - per elementi diegetici ed estetici, oltre che per fini tematici - con la serie Dahmer, nulla della critica alla società civile, alla sua indifferenza, al suo qualunquismo, alle sue ipocrisie e ai suoi rifiuti (umani) sembra aver grande importanza e compiutezza filmica all'interno di un'opera formalmente ridondante e banale, altalenante nel lavoro con gli attori, scriteriata nel montaggio, incapace di dirigere l'azione, ma soprattutto caotica e sconclusionata, oppressa dalle potenzialità e dal desiderio di portare qualcosa di nuovo (ma non di originale!) nell’omologato e desertificato panorama cinematografico italiano, trascinata a fondo, nell’abisso delle sue stesse ambizioni.
Di Donato Carrisi, tutto si può dire tranne che non sia estremamente ambizioso. Ma, com’è risaputo, ad una grande ambizione può corrispondere un grande genio (quello tipico di un maestro, o meglio, di un futuro tale), ma anche (e più frequentemente) una grandissima ingenuità. Quella stessa ambizione che, nel caso del prima drammaturgo, poi giallista e romanziere, ed oggi regista cinematografico dei suoi stessi intrighi thriller, con La ragazza nella nebbia - sua opera prima - lasciava intravedere qualcosa di promettente, di rinfrancante, di relativamente nuovo per il cinema italiano, oltre la coltre (nebbiosa, appunto) di una recitazione non sempre credibile e di un finale che lasciava più dubbi che certezze; e che invece, con il successivo (e secondo) L’uomo del labirinto, si tramutava nello scacco definitivo ad un delirio tanto affascinante quanto problematico, nevrastenico, lisergico, improbabile e caotico nei suoi molteplici finali, in evidente debito verso Bava, Argento e Lynch. Quello stesso flusso cinematografico allucinogeno, incontenibile, inquietante che forse, unito al flop di critica e pubblico che ne è conseguito, ha spaventato e intimorito Carrisi a tal punto da costringerlo ad un passo indietro.
Pur non rinunciando all’ambizione promettente, senz’altro unica nel panorama italiano(!) attuale, eppure ingenua, incosciente ed avventata, che lo contraddistingue; ad una naïveté da esordiente (il che è inaccettabile per uno che, nel cinema, o anche solo nelle logiche e nel mondo dell’immagine, ci sta ormai da più di vent’anni, da quando scriveva soggetti e sceneggiature per la televisione), ma che, al tempo stesso, provoca anche molta tenerezza in chi scrive - così come tenera e abbastanza insensata è la scelta, per suo stesso volere, di non rivelare i nomi degli attori coinvolti in sede di campagna marketing -; con Io sono l’abisso, suo terzo film, anch’esso tratto, come sempre, da uno dei suoi più recenti bestseller, Carrisi sembra tornare sui propri passi o, più precisamente, a La ragazza nella nebbia. Dunque: ad un’Italia del nord est umettata, fredda, torbida, nuvolosa, fosca, da noir nordico e provinciale, più che da palude della Louisiana o da metropoli viziosa e perversa; ad un thriller più reale, concreto, psicologico, meno etereo e narcotizzante; ad un racconto che utilizza una storia true crime o che comunque è ispirato a fatti realmente accaduti, per parlare in realtà di qualcos’altro.
In quel film, l’ispirazione veniva dal delitto di Avetrana, mediante cui Carrisi intendeva trattare il tema della società dell’informazione, della spettacolarizzazione e dell’interesse morboso nei confronti del fatto di cronaca e della capitalizzazione mediatica delle tragedie. Qui, si intende invece compiere un discorso più ampio, più collettivo e collettivistico, più umano nel senso socio-politico del termine, puntando il dito contro la società civile, la sua indifferenza, il suo qualunquismo, le sue ipocrisie e i suoi rifiuti (umani), nei quali, come didascalicamente spiega fin da subito il serial killer protagonista, alias “l’uomo che pulisce”, si celano segreti indicibili, la vera natura delle persone, di tutti noi; l’antidoto alle loro e nostre continue bugie, finzioni e falsificazioni.
Ma la maledizione è di nuovo pronta a colpire. Laddove infatti l’opera prima di Donato Carrisi era arrivata lunga, era uscita subito dopo Omicidio all’italiana e Chi m’ha visto?, due pellicole che mettevano al centro lo stesso tema, solo in tono di commedia e parodia; nel caso di Io sono l’abisso, il paragone inevitabile è con Dahmer, la serie tv Netflix che ha letteralmente monopolizzato il dibattito pubblico nelle ultime settimane, e dalla cui storia vera - appunto quella celeberrima del cannibale di Milwaukee - il cineasta di Martina Franca, criminologo di formazione, sottrae ben più di un’intuizione, anche solo nel look che assume quando va a caccia di una nuova potenziale vittima, nel modus operandi e nel background familiare e psichiatrico.
E questo confronto non fa che acuirsi man mano che ci si addentra nel film, soprattutto una volta constatate la superficialità e la poca personalità con cui Carrisi tratteggia e sviluppa quello che sembrerebbe essere il vero cuore, il vero discorso del suo racconto. Sembrerebbe a partire dal fatto che, ad accoglierci, a schermo nero, addirittura prima che le immagini e i loghi di produttori e distributori inizino a comparire su schermo, è proprio la voce dello stesso regista, il quale ci avverte(?), informa(?), ragguaglia(?), istruisce(?) sulla situazione dei serial killer attualmente in circolazione nel nostro paese, a cui si aggiunge e contribuisce la drammatica circostanza e congiuntura del femminicidio (una piaga apparentemente incurabile per l'Italia), e allora sulla natura autentica, cronachistica, comprovata, reale o pseudo-tale di ciò che stiamo per vedere.
A conti fatti, e una volta arrivati ai titoli di coda, però, nulla di quanto abbiamo appena scritto pare avere grande utilità, senso e compiutezza nell’economia di Io sono l’abisso. Anzi, sembra quasi che questo sottotesto di critica socio-politica sia stato l’ultimo problema di Donato Carrisi durante l’intera lavorazione del film. Nient’altro che una pleonastica e cattedratica complicazione all’interno di un'opera che, per quanto riguarda il suo lato più prettamente thriller, è un continuo ed irrisolvibile ossimoro. Una contraddizione confusionaria e confondente, tant’è che sembra il lavoro di due mani, sensibilità e registi diametralmente opposti.
L’unico punto fermo è l’innegabile ispirazione (ben più delle altre volte) al giallo, al thriller argentiano: da un non-luogo frutto di una mescolanza (qui molto meno affascinante che in Argento) di elementi, stimoli, immaginari, simboli, atmosfere, in cui la polizia serve a poco o nulla, dove a contare qualcosa, a mostrare un briciolo di umanità, sono soltanto il killer, il detective improvvisato e le vittime (o simili); alla tipica intuizione risolutrice a partire da un dettaglio insignificante, o ancora all’interesse prioritario verso le ragioni, il vissuto e il rimosso dell’assassino. C’è pure la piscina lurida, ripugnante, risucchiante di Phenomena ed una Sara Ciocca che ricorda indubbiamente la giovane Jennifer Connelly!
Eppure, al di là di questo, ciò che resta è ben poco. Ovvero un’apologia dell’intermittenza e dell’altalenanza. Un film davvero privo di ogni slancio, di una tensione e sospensione persistenti (e non in due-tre sequenze quantomeno funzionali), di una cifra propria ben definita. Uno in balia delle soluzioni visive auto-compiaciute ed ossessive che Carrisi vorrebbe spacciare per scelte stilistiche, queste ultime, a loro volta, a servizio della metafora più banale tra tutte quelle a disposizione. Il riferimento è all’acqua che sancisce la nascita del mostro, che continua a gocciolare e a farsi sentire per due ore abbondanti di racconto, che rimanda inevitabilmente all’abisso verso i quali i personaggi e noi spettatori saremo chiamati durante la visione, e su cui, come anticipato, verte tutta la costruzione fotografica e di messa in scena firmata da Carrisi insieme a Claudio Cofrancesco, con inquadrature oblique o basculanti a dir poco nauseabonde (nel senso fisiologico del termine).
E ancora, un intrigo che si affida e crede ciecamente nelle immagini e nel mostrare, che sa raccontare molto solo attraverso un gesto, un piccolo elemento visivo, un dettaglio impercettibile, ma che, al contempo - sintomo di un Carrisi che, a dispetto di ciò che pensa (o pensava) a riguardo, forse ancora non ha capito che cinema e letteratura sono due cose diverse -, sottovaluta queste stesse inquadrature, la complessità che si cela dietro il racconto per immagini, le sue regole iconografiche e logiche intrinseche, oltre che le numerose sottigliezze del lavoro con gli attori.
Ragion per cui il serial killer infantile, schizofrenico, metodico al limite dell’autismo - figlio non solo di Jeffrey Dahmer, ma anche del proto-Deadpool di Ryan Reynolds, del Francis Dolarhyde di Manhunter e del Patrick Bateman di American Psycho, e versione concretamente mostruosa della maschera Checco Zalone - interpretato da un Gabriel Montesi non sempre convincente (ma non certo per sua responsabilità) finisce per non inquietare più di tanto, quanto piuttosto per suscitare una specie di compassione mista ad una sorda irrisione, specie nei suoi eccessi e stilizzazioni attoriali controproducenti; mentre la cacciatrice dolente ma (solo idealmente) cazzuta, portata su schermo da una Michela Cescon ai limiti dell’assurdo, che in teoria dovrebbe essere il nostro gancio, la nostra eroina all’interno della pellicola; non si scosta più di tanto dalla pazzia (ingiustamente ed ipocritamente) affibbiatale nella diegesi.
Tuttavia, i più grandi delitti di Io sono l'abisso sono ben altri e riguardano innanzitutto lo storytelling impiegato da Carrisi che, diversamente dalla fiducia talora riposta nelle immagini, si abbandona ad un uso criminoso del voice-off, a momenti di puro e semplice didascalismo, e a dialoghi che tradiscono tutta la loro matrice letteraria.
In tal senso, torna quindi il bipolarismo compositivo di cui sopra: laddove infatti le variazioni (utili o meno) rispetto al romanzo e il lavoro di sottrazione su cui, almeno all’inizio, il regista sembra basa la caratterizzazione del proprio killer protagonista, sembrano scelte che denotano una conoscenza dell’immagine e delle sue possibilità e peculiarità, non lo dimostrano, al contrario, l’eccesso di dettagli e la quantità di informazioni che il film getta addosso - alcune in maniera visiva e subliminale, altre in modo più evidente e pedante - allo spettatore letteralmente ad ogni cambio sequenza, nel tentativo di restituire così la circolarità del male ed insieme la costruzione matematica di un intreccio thriller tripartito, la cui complessità ed interconnessione può funzionare per la carta stampata, ma non certo per il grande schermo.
Questo, unito al montaggio davvero scriteriato di Massimo Quaglia e alla disarmante incapacità, da parte di Carrisi, di sporcarsi proverbialmente le mani, di rendere non solo memorabili dal punto di vista dell’azione e della violenza (che, di nuovo, a dispetto di ciò che dice, è tutto fuorché “pornografia”, se diretta in maniera coscienziosa e corretta), ma anche e soprattutto leggibili alcuni snodi chiave della propria personalissima indagine, concorre al rischio di una plausibile rottura di quel patto non-dichiarato tra rappresentazione e spettatore; ad aver perso già qualche spettatore ben prima che la vicenda entri nel vivo.
Il pericolo è proprio questo per una pellicola che, al di là delle note positive sopra elencate, (per chi non ha letto prima il libro) apparirà soprattutto caotica e sconclusionata, oppressa dalle potenzialità e dal desiderio di portare qualcosa di nuovo (ma non di originale!) nell’omologato e desertificato panorama cinematografico italiano, trascinata a fondo, nell’abisso delle sue stesse ambizioni. Le stesse ambizioni che, se solo non fossimo in Italia (dove il concetto di flop commerciale non esiste), potrebbero ridurre addirittura le speranze di un altro ritorno di Carrisi sul grande schermo.
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