TITOLO ORIGINALE: Il colibrì
USCITA ITALIA: 14 ottobre 2022
REGIA: Francesca Archibugi
SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi, Laura Paolucci, Francesco Piccolo
GENERE: drammatico
Presentato in anteprima al Toronto Film Festival e film d'apertura della Festa del Cinema di Roma 2022
Il colibrì è un libro che, a leggersi, si direbbe impossibile, anche e soprattutto per la prosa fluviale, ricchissima, anarchica ed insieme delicatissima di Sandro Veronesi. Sostenuta da un cast all-star, Francesca Archibugi tenta l'impresa, adattando per il cinema e riproponendo, attraverso un uso interessante ma non impeccabile del montaggio, il vortice joyciano, coinvolgente, sfuggente, acronico di ricordi, disgrazie, scherzi del destino, parallelismi e rifrazioni continue della vita del dottor Marco Carrera. Il risultato in sé sarebbe pure vincente, se solo non fosse per l'eccessiva fedeltà e riverenza nei confronti del testo originale, che finisce per paralizzare Il colibrì e farne così un'opera priva di personalità, pedestre e grossolana.
Il colibrì di Sandro Veronesi è un libro che, a leggersi, si direbbe impossibile da trasporre per il grande schermo, poiché la sua cifra specifica e più riconoscibile sta proprio nella prosa joyciana, fluviale, abbondante, disarmante, lucidissima (tanto nella costruzione, quanto nell’incastro e nell’integrazione mai banale di citazioni e rimandi a materiali differenti), anarchica ed insieme delicata e sensibile, con cui l’autore fiorentino riesce ad immergerci nella vita del dottor Marco Carrera, costellata di eventi inusuali, fortuite coincidenze, indicibili disgrazie, scherzi del destino, parallelismi incredibili, rifrazioni continue; gioie, miracoli, dolore e morte. Come quella di ognuno di noi, d’altronde.
Dunque, un continuo andirivieni tra i diversi periodi della vita di questo ambiguo protagonista e di chi ne incrocia la strada (nel bene e nel male), alla ricerca di un equilibrio esistenziale e del ritratto sfuggente di ciò che si è vissuto, si sta vivendo e si vivrà. Ma, anche e soprattutto, un vortice coinvolgente, spesso passibile di eccessivo autocompiacimento formale, eppure impossibile da abbandonare dopo le prime dieci, quindici pagine, che Francesca Archibugi - brillante sceneggiatrice e grande regista di sistema - tenta di adattare al cinema e riproporre allo spettatore attraverso lo “specifico” del mezzo, ovvero il montaggio (presieduto da Esmeralda Calabria), che si rivela essere forse il comparto più interessante dell’intera produzione, unitamente alla recitazione, chi più, chi meno, di un cast all-star - quest’ultimo, unica vera giustificazione del progetto.
Un ensemble su cui spiccano un Pierfrancesco Favino come sempre prometeico e mimetico quanto basta, che qui continua il suo eccezionale lavoro dialettale e linguistico; una Laura Morante affascinante, gelida e puntuta come una specie di Morticia Addams tirrenica, un Massimo Ceccherini funzionale in un ruolo già originariamente pirandelliano, una Benedetta Porcaroli limpida, trasparentissima, forse in una delle sue migliori interpretazioni (nonostante il poco screentime) e, al di là di un recitazione zoppicante, un Nanni Moretti intoccabile, il cui personaggio è ormai larger than life.
Ciò detto, seppur, come vedremo, non integralmente, l’idea dietro Il colibrì in sé è pure vincente. Per tutte le sue cospicue - ma non per questo insostenibili - due ore e dieci, infatti, la trasposizione di Francesca Archibugi rende bene l’idea di un flusso di coscienza disorganizzato, caotico, sconvolto, a cui è lo spettatore a dover trovare un senso, quasi come se stesse aprendo un cassetto od uno scrigno pieno di ricordi, pezzi della sua vita, immagini del suo passato e dovesse in qualche modo raccapezzarcisi, trovare il proverbiale bandolo dell’altrettanto proverbiale matassa.
Un film sul tempo - che si adagia e riflette sulla fissità ed immobilità di ciò che ci circonda, e che, viceversa, passa, muta, deforma, intacca, corrompe (stona e risulta poco credibile, in tal senso, il make-up prostetico applicato su Favino & co.) i volti e i corpi dei suoi testimoni, ossia di coloro che, come Marco, e come il colibrì, tentano a tutti i costi di rimanere fermi al centro delle cose e non farsi travolgere da questo scorrere inevitabile, ora agrodolce, ora amarissimo, e di quelli che, al contrario, finiscono per subirlo, per diventarne vittime - che coerentemente si affida e concentra molta attenzione sull’elemento filmico tenutario del tempo, del battito, di quel ritmo vitale, il montaggio, come sopra.
Un viaggio, Il colibrì, tra le cui pieghe e riflessi è molto facile perdersi, che spesso può risultare confusionario, ma che, purtroppo, è coinvolgente, libero e avviluppante solo a tratti, mai integralmente o definitivamente. Più volte infatti, la stessa Archibugi - assistita dietro il tavolo della sceneggiatura da Laura Paolucci e Francesco Piccolo - si sente in dovere di ricentrare, riassumere, riprendere in mano le vite interconnesse dei suoi personaggi, così da assecondare (e non sempre in maniera pulita) le necessità drammaturgiche e patetiche del proprio racconto, tradendo dunque “pro-bono-botteghino” l’anarchia compositiva del testo di Veronesi e sottraendolo infine al libero arbitrio (e alla fiducia) di chi guarda.
Perché sì, Il colibrì è un’opera che, malgrado la (da noi ben accetta) trattazione di un tema ancora tabù nel nostro paese, potrà convincere e mettere d’accordo una vasta fetta di pubblico (quanto meno, a differenza di gran parte della produzione a lui coeva, un pubblico, seppur eterogeneo e largo, ce l'ha o ce l'avrebbe), ma è pure, ahinoi, un film che, nel cercare questo consenso e trasversalità, finisce per trascurare dettagli importanti e peccare di superficialità, fallisce nel trovare un giusto equilibrio interno e rinuncia a molte opportunità di distanziarsi dai canoni del solito, irriducibile, immarcescibile, dramma da camera borghese.
Temi quanto mai delicati come la malattia mentale, l’instabilità psicologica e i disturbi comportamentali (trattati con grande compostezza e completezza nelle pagine di Veronesi) diventano così preda della recitazione caricatissima e sovrabbondante di una Kasia Smutniak diretta nella peggior maniera, di un sensazionalismo traboccante nella ricerca insistita e nella forzatura di una risposta emotiva nel pubblico, nonché di un’esasperazione fuorviante che - specie per ragioni narrative - rischia di etichettare negativamente suddetti disturbi.
Che poi questa eccessiva e dannosa polarizzazione non è che il sintomo più eclatante ed esiguo di un’impalcatura filmica informe ed incostante. Una che alterna momenti di grande ispirazione, brillantezza, di grande cinema, quello in cui tutto passa attraverso l’immediatezza, la carica semantica, la limpidezza anche solo di un'immagine, ad altri in cui domina il didascalismo più pedante e stagnante, dove tutto è e deve essere spiegato, nei minimi dettagli, con tanto di riferimenti bibliografici, esplicite citazioni e racconti verbosissimi.
Ecco delinearsi quindi il peccato originale de Il colibrì, che, proprio a partire da una fedeltà quasi incondizionata al testo originale, soffoca e rifugge ogni tipo di autodeterminazione cinematografica, ogni segno di eventuale personalità, in nome di una drammaturgia tutta volta alla pancia, all'emotività dello spettatore, istantanea e ridondante. Lo stesso, affascinante montaggio di cui sopra proviene originariamente da una scelta precisa del romanziere e non è mai controbilanciato da un discorso originale, peculiare, davvero interessante, o da una costruzione logica, sistematica, ponderata, tale da lasciar spazio ad un'elevazione vera e propria, sia in termini diegetici, che sentimentali.
È insomma nel paragone, magari scorretto, ma indubbiamente rivelatore, con la prosa di Veronesi che si consuma la parziale disfatta de Il colibrì. Nell'adattamento troppo prostrato di un grande libro, contenuto all'interno di un film, per contro, pedestre e grossolano, che, per sua fortuna, si congeda dal proprio pubblico con due gesti, nel loro piccolo, salvifici: un fischio - che lega, come un filo esclusivo ed inscindibile, per non perdersi nel buio dopo la morte (forse un omaggio, neppure troppo velato, a È stata la mano di Dio) - ed una canzone originale - davvero bellissima, scritta da Sergio Endrigo ed interpretata da un Marco Mengoni trascinante e profondamente elegiaco.
Tutto il resto, è solo caos calmo. Il battito d'ali di un colibrì che tenta, a tutti i costi, di rimanere fermo nella convenzionalità e staticità del cinema italiano.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.