TITOLO ORIGINALE: Ti mangio il cuore
USCITA ITALIA: 22 settembre 2022
REGIA: Pippo Mezzapesa
SCENEGGIATURA: Pippo Mezzapesa, Antonella Gaeta, Davide Serino
GENERE: drammatico
Presentato nella sezione Orizzonti alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Liberamente tratto dell'omonimo romanzo d'inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa punta tutto sulla "ruvidezza pittorica" della fotografia di Michele D'Attanasio, sullo stardom, l'intensità e sensualità di una debuttante Elodie e su un'ispirazione neanche troppo velata all'epica classica e alla tragedia shakespeariana per far breccia nel cuore dello spettatore e raccontare la mafia del Gargano ed insieme una storia di sangue, vendetta, crudeltà e passionalità; di uomini e donne avvelenati dallo stesso morbo e accomunati da un unico destino. Eppure, qualche piccola pennellata fortunata, un paio di soluzioni registiche azzeccate ed una fotografia coerente e suggestiva non bastano per sottrarre Ti mangio il cuore ad un'epidermicità che ne esaurisce istantaneamente la potenza, gli echi del proprio grido lancinante e così pure le speranze di una seconda visione.
Inizia con una sparatoria, Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa. Una sparatoria di cui prima sentiamo i colpi di proiettile, le urla, poi vediamo il sangue, che schizza e goccia sporcando e contaminando la purezza bianca, quasi accecante, di una Madonna. Ma è solo il primo atto di una tragedia che inizia perciò con la corruzione, la profanazione, e diventa bestiale nel suo secondo movimento: un branco di maiali affamati, indigenti, dal moto trafelato e vorticoso, impetuoso, selvaggio, viene richiamato a cibarsi dei cadaveri di questa carneficina. Manca però l’ultimo atto, l’ultimo elemento di questo ricamo diabolico: la vendetta.
Scopriamo infatti che, a morire, è stata una famiglia intera, i Malatesta, e che soltanto uno di loro, il piccolo Michele, è scampato a questo eccidio empio e disumano. E sarà lui, nel 1960, in quella fattoria lercia e fangosa - che è anche casa sua - dalle parti del Gargano, a giurare vendetta ai colpevoli di tutto questo, i Camporeale, quel clan che da tempo immemore è nemico giurato del suo, della sua famiglia. Stacco. 2006. Michele si è preso la propria rivalsa e ora è uno dei tre boss mafiosi che si spartiscono i traffici e gli affari del foggiano in un clima di relativa serenità (insieme a lui, di nuovo i Camporeale e i Montanari). Vive sempre nella stessa fattoria, quella in cui i suoi cari sono stati brutalmente massacrati, con la moglie-complice Teresa e i tre figli, Andrea, Paky ed Immacolata.
Tutto procede secondo i soliti ritmi campestri, finché, come se il destino bussasse alla porta dei Malatesta e chiedesse il proprio tornaconto con una risata beffarda, Andrea viene colpito dalla bellezza e si innamora perdutamente di Marilena, moglie del boss della famiglia Camporeale, al momento latitante. Un’infatuazione, che si converte inevitabilmente in una relazione (di sesso e qualcosa di più), e che potrebbe di nuovo fare del Gargano il proscenio lugubre e mortifero di un'altra sanguinosa guerra…
Come avrete forse già intuito da queste prime righe, tutto in Ti mangio il cuore rimanda ad una matrice, ad un’influenza, se non proprio ad una discendenza diretta dai poemi epici o dalla produzione tragica più classica e proverbiale.
Si pensi alla sequenza d’apertura tripartita, oppure all’intreccio, che, quantomeno nelle sue prime fasi, ricorda (e nemmeno troppo alla lontana) l’amore, finito in tragedia, tra i giovani rampolli di due famiglie eterne rivali della “bella Verona, dove la scena è collocata”. Ma anche all’afflato, al pathos, alla costruzione tensiva ed enfatica con cui Mezzapesa (coadiuvato in sceneggiatura da Antonella Gaeta e Davide Serino) tinteggia e adatta - sempre a proprio uso e consumo drammaturgico - alcuni episodi tratti dalle cronache della quarta mafia, detta anche “società”; la mafia del foggiano, quella “che ha fatto del silenzio la sua forza, pur essendo la più potente e feroce”, contenuti e raccontati, con profonda lucidità ed una scrittura pungente, inesorabile, affamata di giustizia, luce e verità, nell’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, a cui, appunto, questo film si rifà liberamente.
Episodi, come, per esempio, il quadruplice omicidio di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, o storie come quella di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica, colei che, come scrivono Bonini e Foschini, “era stata destinata a muovere un’epica di sangue. Come e più della Elena dell’Iliade. Come se in quella terra antichissima il mito avesse voluto riaffermare il suo primato arcaico, condannando gli uomini alla loro hybris”, ma anche una donna che ”era nata nel posto sbagliato, nel momento sbagliato”, istruita, forte, più complice che succube, emancipata, forse pure troppo intraprendente per un contesto indubbiamente maschilista e patriarcale.
La stessa Rosa Di Fiore, a cui si ispira evidentemente il personaggio di Marilena, interpretato da una debuttante Elodie, seducente, azzeccata, intensa nel ruolo di una Madonna profana(ta), nerissima, astuta, voluttuosa, provocante, in cerca di redenzione, di una via d'uscita o forse soltanto di affetto, puro ed incondizionato, un tipo di amore che probabilmente solo i suoi figli riuscirebbero e riusciranno a darle.
Detto ciò, più si procede nel racconto, più gli schematismi e rimandi all’opera omerica e alla tragedia classica e shakespeariana si asciugano, lasciando spazio al racconto della corruzione brutale, vendicativa (e materna) di un ragazzino puro di cuore - l’Andrea di un ottimo Francesco Patanè, nel quale convive perfettamente la dualità tracciata dal copione di Mezzapesa-Gaeta-Serino - che si ritrova a dover prendere il posto del padre, dunque, a crescere in fretta, ad incattivirsi, a diventare un boss spietato, spigolosissimo, quasi ripugnante. Una storia che, purtroppo, soffre il suo essere l’ultima arrivata in una narrazione gangsteristica e mafiosa che, specie in Italia (e nel suo panorama seriale), ha creato precedenti che è difficile da dimenticare e da non chiamare in causa.
Ciò nonostante, Ti mangio il cuore riesce comunque a distinguersi rispetto ai suoi simili grazie ad alcune pennellate e qualche tocco fortunato. E, a proposito di pennellate, quella decisiva, capace di ribaltare le sorti del film e sottrarlo all’oblio della memoria, la regala Michele D’Attanasio, che disorienta lo spettatore con una fotografia meravigliosa (che per chi scrive potrebbe benissimo valergli un altro David di Donatello); con un bianco e nero incantevole, suggestivo, particolarissimo, che ci trasporta in un’altra dimensione, in una nuova visione del Gargano, diametralmente opposta a quell'idea di meta turistica ideale ed ambita da un’Italia qui del tutto assente (diversamente dal romanzo di Bonini e Foschini). Il foggiano si trasforma quindi in una terra di uomini e donne avvelenati dallo stesso morbo, accomunati da un unico destino di sangue, vendetta, crudeltà, ed immersi, di conseguenza, nella stessa amalgama putrida e degradante, nello stesso limo (fotografico) immorale e criminoso.
In una sorta di “ruvidezza pittorica”, D’Attanasio riassume così quella carnalità e corporeità che sembrano essere l’unica moneta corrente di questo Gargano mesto, tombale e principalmente agreste, e tiene insieme pertanto i due istinti impulsivi e propulsivi; i due tipi di hybris che guidano e muovono la tragica vicenda di Andrea e Marilena e delle famiglie Malatesta, Camporeale e Montanari. Da un lato, abbiamo quindi la crudeltà, la durezza, l’asprezza della legge della vendetta, del sangue che chiama altro sangue; dall’altro, invece, la sensualità, la passionalità, finanche il romanticismo.
Unitamente alla fotografia, Ti mangio il cuore riesce a trovare un’altra chiave di grande personalità anche nella scrittura dei suoi (pochi) personaggi femminili, che diventano da subito ingranaggi e metronomi dell’intreccio criminoso che abbraccia la pellicola. E, in tal senso, è bene parlare della costruzione - di deformazione e riformulazione smaccatamente edipica - del ménage à trois, al contempo, crudele ed umanissimo, tra Marilena, Andrea e la madre di quest’ultimo, Donna Teresa, la quale diventerà il vero burattinaio luciferino delle sorti e del futuro del clan Malatesta. Nello specifico, del conflitto tra le due donne per la seduzione pro-bono o pro-vendetta del rispettivo figlio e compagno.
Per non parlare infine del cast, che è un’altra delle grandi intuizioni della pellicola di Mezzapesa (tutti volti giustissimi: non solo Elodie e Patanè, ma anche Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Lidia Vitale, Michele Placido), e del discorso, che la pellicola, purtroppo, accenna soltanto, rispetto all’umanità quasi compassionevole e comprensiva (ma non assolutoria!) che tutti questi personaggi mostrano nei pochi attimi in cui smettono la maschera, la postura, il temperamento del gangster, impostigli da decenni e decenni di sangue; da un’eredità e da un passato più simili ad una matassa inestricabile, e si mostrano per ciò che sono, o meglio, che vorrebbero essere, con i loro pensieri, i loro timori, le loro speranze. Condizione temporanea e fugace, quest’ultima, ulteriormente sottolineata e ribadita dai falsi che campeggiano alle loro spalle (vedasi la Nascita di Venere tarocca o l’Ultima Cena in miniatura), quasi Mezzapesa volesse rendere palese il loro estraniarsi, anche solo per un’istante, dalla rappresentazione canonica o, in alternativa, affermare l’inattendibilità del ruolo di cui si sono incaricati, ma anche dell’immaginario in cui noi spettatori li inscriviamo.
Eppure, questi pochi elementi (salvifici nel loro piccolo), così come un paio di soluzioni registiche azzeccate ed una fotografia coerente e suggestiva, non bastano per abrogare forse il peccato originale di Ti mangio il cuore. Che non sta tanto nella proverbialità dei suoi rimandi e richiami, quanto piuttosto nella poca brillantezza con cui essi vengono ripensati e riutilizzati da Mezzapesa nel racconto di una storia, a sua volta, eccessivamente frammentaria, imprudente e scombinata nelle intenzioni.
Nel suo essere infatti sia un crime di stampo mafioso e derivazione tragico-shakespeariana, sia un’esplorazione di una realtà ed una storia d’Italia ancora poco affrontata e rilettura a fini drammaturgici dei suoi momenti topici, ma anche parabola di maschilismo tossico e di coraggio, emancipazione e riscatto femminile, la pellicola non riesce, suo malgrado, a portare fino in fondo - e sempre nel migliore dei modi - ciascuno di questi tracciati narrativi e semantici, spesso ripiegando in sequenze allegoriche che, sì, ribadiscono la profonda connessione (anche simbolica) tra gli abitanti di questa terra, la natura e le sue creature, tuttavia abbastanza superflue, nonché in netta contraddizione con le pretese dichiaratamente realistiche dell’operazione; ma soprattutto abbandonandosi ad una epidermicità che ne esaurisce istantaneamente la potenza, gli echi del proprio grido lancinante e così pure le speranze di una seconda visione.
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