TITOLO ORIGINALE: Maigret
USCITA ITALIA: 15 settembre 2022
USCITA USA: 23 febbraio 2022
REGIA: Patrice Leconte
SCENEGGIATURA: Patrice Leconte, Jérôme Tonnerre
GENERE: giallo, thriller
Sembrava scritto che Gérard Depardieu dovesse, prima o poi, interpretare il celebre Jules Maigret, commissario metodico e buongustaio nato dalla penna di Georges Simenon. E, grazie a Patrice Leconte, ha avuto finalmente l'opportunità di mettersi alla prova in quello che è, a tutti gli effetti, un ritorno al grande schermo per un'icona della serialità televisiva (specie tra gli anni '70 e '80). Soprattutto per merito di un approccio renoiriano alla composizione, di una scrittura affascinante ed inedita del protagonista e di una Parigi livida, uggiosa, grigia, depressa, sintetizzata in un unico, grande mélange cupo, crepuscolare, se non addirittura sepolcrale, Maigret si rivela essere una pellicola nei cui aromi ed indolenti involuzioni è facile e piacevole perdersi. Forse slavata e fiacca nell’orchestrazione narrativa, eppure elegante e raffinata nella messa in scena, formidabile nel suo assolo attoriale, peculiare per il mondo che riesce a dipingere con l’acquerello di una visione inconfondibile.
Sembrava scritto che Gérard Depardieu dovesse interpretare, prima o poi, Jules Maigret, il celebre commissario nato dalla scrupolosa e sardonica penna del belga Georges Simenon, protagonista di settantacinque romanzi e ventotto racconti pubblicati tra il 1929 e il 1972. Egli stesso aveva più volte espresso il desiderio e la forte volontà di vestirne i panni e mantenerne viva l’eredità, cosa che, forse sì, forse no, potrebbe avere pure favorito il suo recente impegno nell’arte della cucina e del buon mangiare.
È infatti ingombrante, voluminosa, tondeggiante, onnipresente (e tra qualche riga scoprirete perché!), la sua incarnazione del personaggio in Maigret di Patrice Leconte, che finalmente riporta e ricolloca la figura del commissario del "36 Quai des Orfèvres" sul grande schermo, l'habitat delle grandi ambizioni, quello che ha abbracciato con registi quali Jean Renoir, Julien Duvivier, Maurice Tourneur e Henri Verneuil, e attori come l’indimenticato Gino Cervi; e che, tra gli anni ‘60 e ‘80, ha abbandonato a favore di quella che oggi è invece la sua dimensione più riconoscibile, la televisione, con serial storici come quelli, di produzione rigorosamente britannica, con protagonisti Rupert Davies, Richard Harris e Michael Gambon.
Maigret torna dunque in madrepatria, sì, da un punto di vista produttivo e mediale, ma anche e soprattutto di immaginario, iconografico, referenziale. Infatti, nel trasporre per il grande schermo una delle inchieste più intime e personali dell'opera simenoniana (Maigret e la giovane morta), Leconte guarda moltissimo al cinema del realismo poetico. In particolare, a quello del succitato Renoir, nonché al modo in cui questi riusciva, attraverso la composizione di immagini dal forte valore pittorico e richiamo espressionista, a raccontare la città e i propri abitanti, a tinteggiare le atmosfere dei propri film e ad avvolgere questi ultimi di un sentimento unico, indecifrabile, sfumato, proteiforme.
Quella di Maigret, nello specifico, è una Parigi livida, uggiosa, grigia, depressa, scarica di grandi contrasti e di tonalità forti, ma anzi sintetizzata in un unico, grande mélange cupo, crepuscolare, se non addirittura sepolcrale. Una città invernale, gelida, lontana dalla sua anima turistica, dall’immagine da cartolina, e più disadorna e dismessa, quasi si trattasse di un set in lento disallestimento, nel quale si sono spenti da tempo la magia, l’incanto, l’illusione, ogni forma di passata grandezza. Un insieme di strade, vicoli, scale, parchi angusti, disabitati e mortiferi, di appartamenti accoglienti e fredde ville signorili, di locali e bar del tutto alieni alla frenesia, al dinamismo, ai colori e alla joie de vivre delle istantanee dei pittori impressionisti. Un luogo attraversato da un leggera coltre di nebbia, scevro di odori inebrianti o amari, ma impregnato di un’umidità pervasiva e immutabile che dona alle orizzontalità cittadine quella fissità ed immobilità evanescenti e fantasmatiche, e alle (poche) verticalità umane, che ne percorrono le arterie e le rovine esangui, il ruolo di flaneur spettrali, tristi, pensosi, imbronciati, rarefatti, vuoti, sospesi, in attesa.
Tra questi “passeggiatori” malinconici e vuoti vi è anche lo stesso Maigret, al lavoro sul caso di omicidio di una giovane ventenne, dall’identità ignota, che lo trascinerà in fondo alle profondità della propria anima, del trauma passato di una paternità spezzata o solo desiderata e di una crisi esistenziale che, non a caso, apre e chiude il film.
Del resto, è proprio questo l'intento di Leconte, che, con un occhio da vero detective, clinico, metodico, scrupoloso, rigoroso, estremamente razionale, perfettamente accordato sul suo protagonista (eppure non sempre convincente, specie in alcune soluzioni fotografiche e scelte stilistiche); non si ferma, anzi oltrepassa la stolidità mitica ed iconica suggerita dal titolo, per condurre un’analisi, una minuziosa decostruzione, l’unica e sola investigazione che sembra realmente importargli. Che non è quella sul colpevole dell'accoltellamento di una giovane ragazza parigina nel IX arrondissement di Parigi, ma piuttosto quella sulle possibili ragioni di questa vulnerabilità, indolenza, malessere e demoralizzazione che pare essersi abbattuta su un commissario Maigret, dunque, del tutto inedito. Uno che ha paura di andare in pensione, che ha la pressione alta, che si alimenta senza grande piacere, a cui viene consigliato di non fumare più le sue amate pipe, e che soprattutto non sembra riconoscere il mondo e la città nella quale si muove flebilmente, ma di cui è, paradossalmente, pure il miglior rappresentante.
Maigret di Patrice Leconte convince e stimola pertanto nella scrittura intensa ed impeccabile del suo eroe e nell’intelligente rimodulazione dell’iconicità che egli si porta inevitabilmente appresso, mostrandosi invece più fiacco nell’effettiva drammatizzazione e traduzione per il grande schermo del ricamo giallo originariamente ideato da Simenon, che il regista, insieme a Jérôme Tonnerre, tradisce in più di un’occasione, a favore di una risoluzione ed un finale forse più cinematografici, con derivazioni pure meta-testuali, ma senz’altro meno inaspettati e tranchant di quelli della controparte cartacea.
Nondimeno, e malgrado una narrazione che si arena e si trascina da metà racconto in poi, quella imbastita e ricucita ad hoc da Leconte è “un’indagine da vino bianco” piacevole da degustare e nei cui grigi aromi è facile perdersi, forse slavata e fiacca nell’orchestrazione narrativa, eppure elegante e raffinata nella messa in scena, formidabile nel suo assolo attoriale, peculiare per il mondo che riesce a dipingere con l’acquerello di una visione inconfondibile.
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