TITOLO ORIGINALE: The Son
REGIA: Florian Zeller
SCENEGGIATURA: Florian Zeller, Christopher Hampton
GENERE: drammatico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Dopo l'exploit di The Father, Florian Zeller dirige il secondo capitolo della sua trilogia, adattando un'altra delle sue pièce per il grande schermo. Hugh Jackman interpreta un padre divorziato alle prese con un figlio afflitto da una forma di depressione autolesionista. Al contrario del suo predecessore, The Son punta su un più classico, convenzionale ed estremamente prevedibile dramma da camera, i cui aspetti davvero convincenti sono la caratterizzazione non necessariamente positiva od esemplare del protagonista ed un cast stellare diretto magnificamente e in modo precisissimo. Peccato però che, superata la prima ora e mezza, nulla possa prevenire un ultimo atto sensazionalista, mediocre, vile e ricattatorio, nel quale il copione, con la connivenza di una sgraziata ed enfatica colonna sonora, banalizza tremendamente il tema della depressione giovanile, cercando la lacrima facile e gratuita a tutti i costi, attraverso mezzucci ed espedienti da vero esordiente. Un'involuzione netta e deprimente.
Quello del drammaturgo e romanziere francese Florian Zeller è stato uno degli esordi cinematografici più folgoranti e fortunati degli ultimi tempi. Vincitore di ben due premi Oscar (tra cui quello per il migliore attore protagonista ad Anthony Hopkins), The Father, adattamento di una delle sue pièce più amate e conosciute, era ed è tuttora un film che colpisce come pochi per come sa raccontare la demenza senile ed una lenta caduta nell’oblio della mente in maniera di fatto inedita, cinematograficamente consapevole e sensazionale; attraverso gli attori, una scrittura millimetrica dei dialoghi, una scenografia spaesante e semanticamente complessa, ed un montaggio responsabile principale della costruzione di senso, contenuto, sostanza del testo e dell’esperienza - anche emotigena - di visione.
The Father, in poche parole, è un film se non unico, sicuramente fuori dal comune. Un grande, primo passo che oggi si trasforma in una sorta di maledizione, di autogol, in un fardello di aspettative e responsabilità filmiche che Zeller, purtroppo, non è riuscito a soddisfare con il suo secondo (di una trilogia) The Son.
Anch’essa trasposizione di un suo testo per il teatro, la pellicola racconta la storia di Peter, padre di famiglia e dirigente di un’importante azienda newyorkese che si ritrova a dover rinsaldare il rapporto con il figlio adolescente, Nicholas - che non vede da quando ha divorziato dalla prima moglie (Kate), ricostruendo la propria vita ed una nuova famiglia insieme all’attuale compagna Beth -, nel momento in cui questi inizia a sviluppare una preoccupante forma di depressione autolesionista. Ha così inizio un dramma che, proprio come The Father, non cela minimamente la propria origine teatrale; nel quale si scommette e gioca tutto sull’espressività e sulla potenza delle interpretazioni, sulla costruzione di dinamiche e rapporti e su una scrittura dei dialoghi quanto più coinvolgente possibile.
Ciò nonostante, che The Son sia un’opera indubbiamente meno ambiziosa, complessa e atipica della precedente, lo si può intuire sin dai primi minuti. Difatti, non avendo più a che fare con la demenza e con la conseguente, lenta ed opprimente disconnessione dalla realtà, si perde (e non si sostituisce con qualcos’altro) quel discorso estremamente stimolante di continua rivoluzione delle certezze profilmiche e di disorientamento immedesimato dello spettatore.
Al contrario, Zeller punta su un più classico, convenzionale ed estremamente prevedibile dramma da camera, i cui aspetti davvero convincenti sono la caratterizzazione non necessariamente positiva od esemplare, anzi talora inetta, inopportuna, problematica, cieca, irritante, di Peter, quella, complessa, vera, chiaroscurale, di Beth, così come un cast stellare diretto magnificamente e in modo precisissimo, tra cui figurano un Hugh Jackman dedicato, eppure sempre (e fin troppo) splendente, una Laura Dern a dir poco meravigliosa, una Vanessa Kirby inedita, un ottimo Anthony Hopkins in un (quasi) cammeo, e, sopra tutti, la rivelazione Zen McGrath, che ha già di fronte a sé una bella stagione di candidature e premi.
Peccato però che, superata la prima ora e mezza, nulla di questi tre elementi possa salvare The Son dal rovinoso capitombolo di un ultimo atto sensazionalista, mediocre, vile e ricattatorio, nel quale il copione di Florian Zeller e Christopher Hampton, con la connivenza della sgraziata ed enfatica colonna sonora sgraziata ed enfatica di Hans Zimmer (autoreferenziale, impegnato nell’ennesima ed estenuante riproposizione di Time), banalizza tremendamente il tema della depressione giovanile, cercando la lacrima facile e gratuita a tutti i costi, attraverso mezzucci ed espedienti (questi sì) da vero esordiente, e mancando inoltre di quell’eleganza semplicistica, di quel cuore, di quella sincerità e di quella costruzione, che tanto abbiamo apprezzato in The Whale di Darren Aronofsky (con cui The Son ha molto a che vedere).
Ebbene sì, diversamente da quanto previsto, non è tanto il dramma con Brendan Fraser, quanto piuttosto quello di un insospettabile Florian Zeller, uno dei film più goffi, ineleganti (malgrado la vellutata fotografia di Ben Smithard) e pornografici del concorso di questa 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
L’involuzione c'è ed è netta, improvvisa, deprimente, tant'è che The Father sembra oggi quasi opera di un altro regista, di una sensibilità artistica diametralmente opposta. Invece no, più che “chiamare la famiglia e gli amici per dire loro che sono completamente amati e non soli”, The Son ci fa temere per il futuro di un regista che sembra esser stato travolto da una qualche sorta di ansia da prestazione.
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