TITOLO ORIGINALE: Siccità
USCITA ITALIA: 29 settembre 2022
REGIA: Paolo Virzì
SCENEGGIATURA: Francesca Archibugi, Paolo Giordano, Francesco Piccolo, Paolo Virzì
GENERE: commedia, drammatico
Presentato fuori concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Quattro anni dopo Notti magiche, ispirato e colpito dai mesi di lockdown e dall’esperienza pandemica, Paolo Virzì sceglie di chiedersi cosa potrebbe succedere nei prossimi anni, una volta passato (forse) lo spettro del Covid, per dare vita ad "una galleria di personaggi ugualmente innocenti e colpevoli, un’umanità spaventata, affannata, afflitta dall’aridità delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rabbia, che attraversa una città dal passato glorioso come Roma, che si sta sgretolando e muore di sete e sonno”. Purtroppo, al di là del suo valore di prezioso documento di un momento della nostra storia, Siccità dimostra pochissima invenzione nelle critiche che muove, nel modo in cui fa intersecare le varie storyline, nella scrittura di alcuni personaggi e nella comicità, moltissima approssimazione nella scrittura dei personaggi e delle loro storie individuali, ed un sottoutilizzo e sottovalutazione di quasi tutti gli interpreti.
Uno dei clienti che salgono sul taxi di Valerio Mastandrea in Siccità, il nuovo (instant) film di Paolo Virzì, è sudcoreano e, di nome, fa Bong Joon-ho: un modo abbastanza sciocco di citare il principale nume tutelare e punto di riferimento di una pellicola che, del cinema di questo regista premio Oscar, recupera l’idea di un contesto (in questo caso, come in Snowpiercer, post-apocalittico) che porta ad un’estremizzazione e ad un drastico inasprimento delle tensioni e del divario tra le classi più abbienti - che si arricchiscono e gongolano sempre più nelle loro ampie disponibilità - e meno abbienti - che invece sprofondano rovinosamente ed ulteriormente nella loro miseria.
È questo quello che avviene in una Roma post-pandemica in cui il Tevere si è prosciugato, vicina al collasso, afflitta dalla sete e sul punto di esplodere a causa dei divieti imposti a causa dell’emergenza. Una capitale giallognola, assolata, riarsa, così come immaginata dalla fotografia di Luca Bigazzi, nella quale si muove e strepita un coro di personaggi, vecchi e giovani, emarginati ed affermati, prede e predatori; e di storie che si sfiorano, senza mai fondersi davvero, tutte accomunate da una condizione che, al di là di ceto, sesso ed età, li lega tutti allo stesso destino e allo stesso desiderio di futuro e redenzione; alla stessa speranza.
Quattro anni dopo Notti magiche, ispirato e colpito dai mesi di lockdown e dall’esperienza pandemica, Paolo Virzì sceglie di chiedersi cosa potrebbe succedere nei prossimi anni, una volta passato (forse) lo spettro del Covid, per dare vita, come afferma lo stesso regista, ad “una galleria (distopica) di personaggi ugualmente innocenti e colpevoli, un’umanità spaventata, affannata, afflitta dall’aridità delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rabbia, che attraversa una città dal passato glorioso come Roma, che si sta sgretolando e muore di sete e sonno”.
Un’autoironica Monica Bellucci, un Silvio Orlando spaesato e perso tra Ariaferma e 28 giorni dopo, un Valerio Mastandrea cencioso ma tenerissimo, una Elena Lietti allucinata, un Tommaso Ragno impegnato in una versione radical chic e più atletica di Gianni Morandi, un Vinicio Marchioni sprecatissimo, un Diego Ribon in una trasfigurazione del “virologo televisivo”, un ambiguo Gabriel Montesi, ed un’Emanuela Fanelli “perché? Perché sono una donna?” sono solo alcuni dei volti protagonisti di un melodramma grottesco e agrodolce che si interroga sul futuro - nostro e del pianeta che abitiamo -, come tanti se ne stanno producendo ora (basti pensare al netflixiano Don’t Look Up).
Ed è forse questo, ovvero il fatto di essere un prezioso documento di un momento della storia, italiana e mondiale; una fotografia di uno stato d’animo, di un modo di fare i conti e ragionare su un evento che ci ha indubbiamente trasformati; il vero, se non proprio l'unico valore notevole di un prodotto fallimentare in termini prettamente umoristici, eccessivo, straripante, troppo ambizioso e, al contempo, troppo immaturo per lasciare il segno o anche solo suscitare qualcosa nello spettatore.
Pandemia, siccità, desertificazione, cambiamento climatico, media tradizionali e media digitali, giornalisti ed influencer, politica, globalizzazione, crisi ed orientalizzazione dell’Occidente, emancipazione del terzo mondo, immigrazione, razzismo, rabbia delle giovani generazioni, delle tante e dei tanti Greta Thunberg contro i vecchi, i loro presìdi e le loro istituzioni cannibalizzanti: di questo e molto altro vorrebbe parlare Siccità di Paolo Virzì. Ciò detto, non ci vuole certo un genio, né tantomeno un grande esperto di cinema e sceneggiatura, per prevedere l’alto rischio di banalizzazione e superficialità che comporta un soggetto così consistente ed ampio, tanto nelle dimensioni drammaturgiche, quanto in quelle satirico-argomentative.
Un rischio nel quale la pellicola di Virzì si impantana con tutte le scarpe, peccando innanzitutto di pochissima invenzione nelle critiche che muove, nel modo in cui fa intersecare le varie storyline, nella scrittura di alcuni personaggi, nella comicità; poi, di moltissima approssimazione nella scrittura dei personaggi e delle loro storie individuali, ma anche, più in generale, di un impiego maldestro ed affettato di una durata generosa (ciononostante molto ben ritmata dal montaggio di Jacopo Quadri), nonché di un sottoutilizzo e sottovalutazione di quasi tutti gli interpreti - questi ultimi, presenti, chi più, chi meno, orchestrati in maniera caotica e sconclusionata, ed inevitabilmente portati ad una sopraffazione reciproca. Cosa che ben presto scorta Siccità lungo il viale del facile ed immediato oblio.
Pochi sono infatti i momenti davvero riusciti, poche sono le prove che emergono con maggior vigore, ancor meno è l’efficacia degli sberleffi e dell’opera dissacrante che il film muove nei confronti dei potenti, così come dell’inettitudine degli strati più bassi della società.
Ecco, “nulla” è forse il termine più giusto e preciso per definire e riassumere al meglio la penetrazione e l’elemento dirompente di Siccità, specie dopo un finale riconciliatorio, buonista e abbastanza inopportuno che ci rincuora del fatto che, nonostante tutto, “il nostro non è poi un paese così brutto”.
Per quanto coraggioso o profetico si dica essere, quanto è pigro, innocuo, inconcludente ed avvizzito il cinema italiano di questa 79ª edizione del Festival del Cinema di Venezia!
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