TITOLO ORIGINALE: The Banshees of Inisherin
REGIA: Martin McDonagh
SCENEGGIATURA: Martin McDonagh
GENERE: drammatico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Cinque anni dopo aver incantato il mondo con il suo Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Martin McDonagh racconta la storia di due amici che, da un giorno all’altro, smettono di esserlo. Benedetto da una sceneggiatura al limite della perfezione, una regia elegantissima, una colonna sonora eccentrica ed una fotografia suggestiva, The Banshees of Inisherin è un grandissimo esercizio di scrittura di personaggi, nonché un film ambiziosissimo che riesce a raccontare il mondo, noi esseri umani e la nostra storia (passata, presente e futura) a partire dalla ruralità selvaggia è sospesa nel tempo di un’isoletta ad un lembo di mare dall’Irlanda. Un mezzo capolavoro.
Non è per nulla semplice, o meglio, non è proprio da tutti sviluppare o anche solo ideare un soggetto come quello di The Banshees of Inisherin. Né tantomeno fare di quello stesso soggetto un’opera che, con un sorriso amaro sulle labbra, parla del mondo, di noi esseri umani e della nostra storia - passata, presente e futura.
Cinque anni dopo aver incantato le platee dell’intero pianeta (da Venezia a Los Angeles) con il suo acre e lancinante Tre manifesti a Ebbing, Missouri, la rivelazione britannica Martin McDonagh torna sul grande schermo con la storia di due vecchi amici, Padraic - allevatore gentile, sempliciotto e un po’ tonto, interpretato da un Colin Farrell che regge sulle sue spalle il peso dell’intero film - e Colm - violinista orgoglioso e burbero, portato su schermo da un Brendan Gleeson ambiguo e indecifrabile -, che, da un giorno all’altro, smettono di esserlo, perché al secondo semplicemente “non va più a genio” l’altro. Ma è davvero così semplice? Tormentato da una frase che tutt’a un tratto cambia di colpo la propria vita quotidiana e le proprie abitudini, Padraic tenterà in tutti i modi di riuscire a ristabilire il legame con l’amico, cosa che darà il via ad una serie di risvolti non necessariamente lieti… e puliti.
Benedetto dalla suggestiva fotografia del sodale Ben Davis e dalla colonna sonora eccentrica dell’altro habitué Carter Burwell, ed immerso fra le scogliere, le stradine sterrate, i campi verdi, i porticcioli sempre in cerca di “notizie” e le rumorose locande dell’isola di Inisherin - quest’ultima, situata ad un lembo di mare da quell’altra, più grande, complessa e problematica; dall’Irlanda del 1923, quella della guerra civile tra esercito britannico e IRA -, McDonagh immagina e mette in scena un racconto in bilico tra commedia nonsense e dramma esistenziale, tra cinema e teatro, tra l’inettitudine pirandelliana, l’assurdità di Beckett e il tono tragico e mitico del Macbeth di William Shakespeare (c’è pure una delle tre streghe!), che è anche una sceneggiatura intelligentissima, arguta, ironica, originalissima, che azzecca, in maniera così efficace, il tempismo comico, da inventarne quasi uno tutto suo.
Non solo, The Banshees of Inisherin è anche un immenso esercizio - sulla falsa riga dell’esilarante 7 psicopatici - di scrittura e caratterizzazione, oltre che dei due protagonisti, di una galleria di comprimari stravaganti, singolari, bislacchi, alla deriva, slegati da un mondo che sta cambiando e che presto li travolgerà. Tra questi, ricordiamo Dominic, lo scemo del villaggio (ma che, come nella migliore tradizione shakespeariana, nota quello che agli altri sfugge) di un delizioso e divertentissimo Barry Keoghan, qui al suo miglior ruolo, e Siobhan, la sorella/madre di Padraic, interpretata da una Kerry Condon equilibrata e raggiante.
Ed è soltanto grazie a questa sceneggiatura al limite della perfezione - che McDonagh, miracolosamente riunito con il duo attoriale del suo grande esordio (In Bruges), traspone con grande eleganza e lucidità, valorizzando tanto il lato comico e ridicolo dei personaggi, quanto gli spazi arcaici, immobili, sospesi nel tempo, quasi mitici che attraversano per trovare una soluzione, una risposta o un ripiego alle loro basse aspirazioni, alle loro ansie, alle loro veneree morbosità - ché The Banshees of Inisherin si converte in un accattivante scontro filmico ed attoriale senza esclusione di colpi, ritmatissimo, puntellato da picchi di assoluta grazia, tra una regia metodica e rigorosa ed un copione invece incontenibile, e, ovviamente, tra gli stessi Farrell e Gleeson.
Uno scontro, nei cui scambi, screzi e silenzi si può percepire ed intravedere già il fantasma di un secolo, il Novecento, dominato dall’assurdità, dall’incertezza, dalla labilità dei giudizi e dei pensieri, dall’ignoranza, dalla diffidenza, dalle apparenze, dal cinismo, da un insopprimibile complesso di inferiorità, da un’ansia ampiamente maschile nei confronti dell’inevitabile, dalla necessità di lasciare il segno nella storia, dagli errati solipsismi, dalla vendetta, dalla rabbia, dagli scontri fratricidi, dal sangue, dalla morte (dell’amore, dell’amicizia, della gentilezza, della moralità, della decenza).
Ecco quindi che da una piccola e verde isola al largo (ma nemmeno troppo) dell’Islanda, Martin McDonagh amplia a dismisura, come solo i grandi cineasti sanno fare, il proprio sguardo, le proprie ambizioni e il proprio orizzonte espressivo e narrativo, arrivando e riuscendo così parlare di un’umanità lentamente diretta verso l’autodistruzione. E intanto le banshee rimangono lì, in un angolo, a guardare. Probabilmente divertite.
Clicca qui per tutte le recensioni di Venezia 79
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.