TITOLO ORIGINALE: The Whale
REGIA: Darren Aronofsky
SCENEGGIATURA: Samuel D. Hunter
GENERE: drammatico, thriller
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Dopo il mezzo fallimento di Madre!, il “provocauter” Darren Aronofsky torna al cinema con un’operazione simile al suo precedente The Wrestler. Un ritrovato Brendan Fraser sotto make-up e prospettica interpreta un uomo di 272 chili che, in fin di vita, tenta di riallacciare il rapporto con la figlia diciassettenne. Il risultato è un’immersione di due ore nella mortalità umana a cui è impossibile non abbandonarsi. Un film non perfetto, ma essenziale e dotato di un grandissimo cuore.
Avete presente The Wrestler di Darren Aronofsky, quel film pluripremiato in cui un redivivo Mickey Rourke interpreta (neanche a dirlo) un wrestler ridotto in povertà, separato dalla moglie, incapace di sostenere qualsiasi rapporto umano (pure con sua figlia), che vive perciò soltanto per il brivido dello show, per l’adorazione dei fan e per l’adrenalina della lotta?
Ottimo, sappiate che il buon “provocauter” l’ha fatto di nuovo. Si intitola The Whale e, così come il suo predecessore, racconta la storia di un uomo (e di un attore) in decadenza (fisica e d’immaginario), che deve scontare una pena, pagare uno sbaglio o, più semplicemente, soffrire per le scelte (buone o cattive) che ha fatto in un passato che pare quasi una vita precedente, a cui è impossibile tornare.
Questa volta, però, non parliamo di un lottatore professionista che conduce un’esistenza futile, extra-ordinaria e viziosa, bensì quella di un professore di letteratura, di nome Charlie, che, in seguito alla perdita di una persona cara, ingrassa a dismisura, fino a raggiungere un peso di 272 chili, cosa che gli rende tutto - dall’alzarsi dal letto o raccogliere qualcosa da terra, all’aprire la porta di casa - doloroso ed infattibile. Ormai in fin di vita, Charlie decide di voler ristabilire il rapporto con Ellie, la figlia diciassettenne, che non vede da moltissimo tempo per amore di un’altra persona…
Dopo il mezzo fallimento di Madre! (uno che nemmeno due star del calibro di Jennifer Lawrence e Javier Bardem sono riusciti ad evitare), Darren Aronosfky, anche regista di Requiem for a Dream e Il cigno nero, recupera e riadotta quindi la lezione e l’idea alla base di uno dei suoi film più riusciti, apprezzati e premiati, tentando - come fece con Mickey Rourke, appunto - di riabilitare presso il grande pubblico la figura e lo stardom dello scomparso Brendan Fraser - volto eccellente del cinema commerciale a cavallo tra anni ‘90 e 2000, protagonista di veri e propri cult di largo consumo come La mummia, Viaggio al centro della Terra e Inkheart -, che qui mette tutto sé stesso in un’interpretazione fatta di make-up ed effettistica speciale, ma che richiedeva ciononostante un’espressività forte, da sprigionare in eloquenti e strazianti primi piani, oltre ad un’immedesimazione ed immersione totale nella storia e nel personaggio, ed una credibilità che pochi interpreti avrebbero raggiunto con codesti risultati.
Perché sì, a differenza di ciò a cui ci ha abituati Aronofsky e della brutalità grafica del titolo, The Whale è una pellicola nella quale il cineasta newyorkese rivela una sensibilità, una capacità di costruzione drammaturgica ed una delicatezza, per certi versi, inedite. Certo, tracce della sua poetica dissacrante, urtante e scioccante sono rintracciabili qua e là durante lo svolgersi del racconto, ma è tutto trattato e combinato in modo così equilibrato, omogeneo e sensato, che è praticamente impossibile non farsi accompagnare e travolgere dalle correnti di un film che, d’altra parte, ha molto a che vedere con l’ambiente marino.
Non a caso, infatti, per calmarsi durante le sue perenni crisi respiratorie, il nostro Charlie legge una tesina su Moby Dick di Herman Melville, nella quale l’autore, o meglio, l’autrice ragiona sulla scrittura descrittiva del romanziere interpretandola come una forma goffa e noiosa di distogliere l’attenzione del lettore dalla disgraziata ed orribile storia della sua vita. La stessa continua poi ragionando e tracciando una distinzione sostanziale tra i due protagonisti della storia: la balena bianca cacciata e il cacciatore, il capitano Ahab. Alla prima infatti non importa nulla di venire uccisa, perché in fondo si tratta solo di un “povero grosso animale”. Il secondo invece non si riterrà mai soddisfatto finché non avrà ucciso la bestia.
E sono proprio questi due personaggi, che corrispondono poi a due inclinazioni, a due filosofie di vita; a convivere e a combattersi vicendevolmente nell’anima e nel corpo di Charlie, ottimista ed umanista - talora pure ingenuamente -, eppure tormentato da istinti autolesionisti ed autodistruttivi.
Ingabbiato da un formato 4:3 che lo rende ingombrante all’interno del piano, e seguíto nelle sue difficoltà e nei suoi tentativi da una macchina cinematografica impotente, immobile, oggettiva, teatrale (del resto, stiamo parlando della trasposizione di una pièce di Samuel D. Hunter, qui impegnato come sceneggiatore), Fraser è il cuore di un’immersione di due ore nella mortalità umana. Un’immersione che avviene trattenendo il respiro ed aspettando un ritorno in superficie che non sembra arrivare mai.
Lo stesso, angusto e claustrofobico, appartamento in cui vive Charlie assume ben presto le fattezze di una prigione in cui ogni legge della natura si converte in un nemico imbattibile; in un carceriere invisibile, ma comunque onnipresente. Una sensazione a dir poco lancinante, favorita e costantemente rinforzata dalla fotografia livida e soffocante di Matthew Libatique, dalla colonna sonora tormentata e patetica di Rob Simonsen ed ovviamente dalla recitazione cristallina di un piccolo, grande cast che sa restituire al meglio il millimetrico lavoro psicologico del copione di Hunter.
A Fraser, si uniscono infatti una Sadie Sink che conferma la bravura dimostrata in Stranger Things (specie nell’ultima stagione), in un ruolo e in un personaggio non facili, spesso detestabili e dirompenti, che le potrebbero seriamente svoltare la carriera; una Hong Chau impeccabile nei panni di una figura chiaroscurale, ma dalla grande vena ironica; ed un Ty Simpkins indecifrabile.
Ebbene: The Whale è un’operazione sfacciatamente indirizzata a vincere quanti più premi possibili (oltre la Coppa Volpi)? Sì. È un film che spesso si bea di una retorica che molti potrebbero trovare proverbiale e respingente? Sì. È una pellicola semplice, forse addirittura semplicistica, in alcune sue scelte e soluzioni? Certo che sì, ma è proprio qui, in questo “focalizzarsi sulle cose essenziali, sulle cose importanti per sé”, come ripete Charlie ai suoi studenti, che il film di Aronofsky riesce, secondo chi scrive, a fare centro, a colpire e travolgere completamente tanto lo spettatore più smaliziato, quanto quello più epidermico. Ciò detto, The Whale non è però soltanto un’ipertrofia (per non dire pornografia) della commozione ed un contenitore minimalista di ottime interpretazioni, ma anche la dimostrazione che se, dietro la macchina da presa, vi è una personalità artistica e registica che - per quanto esagerata e spesso problematica - sa il fatto suo e, in particolar modo, sa ciò che vuole, nessuna A24 (che co-produce) e pretenziosità varie potranno fare breccia nel corpo e nei tessuti di un’opera, una qualsiasi. Né tantomeno, se questa, come nel caso di The Whale, dimostra un grande, grandissimo cuore.
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