TITOLO ORIGINALE: Bones & All
REGIA: Luca Guadagnino
SCENEGGIATURA: David Kajganich
GENERE: sentimentale, orrore
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Per il suo sesto lungometraggio, il regista di Chiamami col tuo nome e Suspiria Luca Guadagnino adatta il romanzo teen-horror di Camille DeAngelis che racconta la storia di due giovani cannibali alla ricerca di sé stessi e dell'amore in un'America desolata ed immobile. Bones & All è l’ennesimo, piccolo gioiellino della filmografia di un regista che, a differenza di altri suoi colleghi, espatria ma non stravolge completamente il proprio stile, bensì prende i generi tipici, indiscussi, genetici del tessuto cinematografico estero, in questo caso statunitense, per plasmarli, sfruttarli, reinterpretarli, stravolgerli, combinarli secondo le proprie esigenze e ossessioni, secondo la propria sensibilità e i temi a lui più cari, proseguendo i discorsi già introdotti altrove. Un Timothée Chalamet mai così sensuale e la rivelazione Taylor Russell risplendono in un film forse complesso dei due predecessori, ma che, ciononostante, consacra nuovamente il valore di Guadagnino e del proprio cinema quali pacieri e cantori lirici e romantici della prosa del corpo, della carne, del genere, e della poesia dell’amore e di un cinema d’autore mai pretenzioso od autocompiaciuto, ma sempre vero, vorace, appassionante.
Il cinema di Luca Guadagnino ha sempre avuto a che fare con i corpi, in diverse declinazioni e più o meno in profondità. Un corpo morto da documentare e svelare in The Protagonists. Uno che conosce ed esplora la propria erogeneità e il proprio sesso nel (da lui) ripudiato Melissa P. Uno sociale che viene infranto e due nuovi che riscoprono la loro vera natura in Io sono l’amore. Un corpo invadente, estroverso, ambiguo, mortifero che si insinua, assedia, provoca, riaccendendo vecchie passioni in A Bigger Splash. Ma anche un corpo desiderato, apollineo, impossibile, che porta ad una scoperta del proprio in Chiamami col tuo nome. Uno mutevole e camaleontico nell’interpretazione di tre personaggi (quello di Tilda Swinton), di cui uno vecchio, avvizzito, stregonesco, retrivo, da sradicare e disintegrare per lasciare posto ad uno completamente nuovo in Suspiria. Tanti corpi spaesati - nel senso etimologico del termine - che scoprono di essere semplicemente chi sono, teenager, e di esserlo nell’amicizia, nei primi amori, nel caos e nelle angosce che contraddistingue questo periodo della vita, nella serie We Are Who We Are. Per arrivare infine all'ultimissimo Bones & All, sesto lungometraggio del regista palermitano, adattamento dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis (inedito in Italia), presentato in concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Una pellicola, quest’ultima, con cui Guadagnino intende (e forse potrebbe addirittura) prendersi una rivincita per le delusioni ricevute negli anni in cui i già citati A Bigger Splash e Suspiria - quest’ultimo, soprattutto, immeritatamente snobbato nel 2018 - erano in competizione al Lido. Ma anche un'opera per dimostrare, una volta ancora, la sua invidiabile internazionalità; il suo essere, con tutta probabilità, il regista italiano più cosmopolita e versatile che ci sia e, paradossalmente, un outsider, un emarginato, un caso più unico che raro del nostro cinema. Ed è forse proprio questo il motivo per cui è rimasto così stregato e affascinato da una storia come Bones & All.
La storia di due diseredati, di due individui che vivono ai margini della società, ripudiati, allontanati, discriminati, non-visti. Maren e Lee. Lei, una ragazza del Maryland abbandonata dal padre. Lui, un vagabondo dai sentimenti profondi, che compensa un fisico esile ed asciuttissimo di soli 63 kili “con una grande strafottenza”. Nulla di loro due, a parte un aspetto trasandato tra il pre-grunge e il post-funk, farebbe pensare a qualcosa di più di una coppia di ragazzi problematici, nel pieno della loro adolescenza.
Peccato che qualcosa di più invece c’è: entrambi infatti hanno sviluppato, fin da piccolissimi, una strana propensione al cannibalismo; un richiamo insopprimibile, di origine indefinita, che li costringe - talora loro malgrado - a cibarsi della prima persona che incontrano, sia essa una babysitter indifesa, un'attraente e curata compagna di scuola, un’anziana signora o una bambina innocente.
Per una serie di coincidenze, i due finiranno per incontrarsi e decideranno di intraprendere un viaggio - una alla ricerca delle proprie origini, l’altro forse per scappare da qualcosa del suo passato - attraverso l’America rurale degli anni ‘80, sulle note dei Duran Duran, dei Joy Division, dei New Order, dei Kiss “quando hanno smesso di truccarsi”.
Se Chiamami col tuo nome, come ricordato sopra, raccontava il desiderio, la ricerca, la venerazione, l’estasi, il dolore della bellezza, di un corpo che godeva, di un adolescente che scopriva la sua vera natura, il suo primo vero amore, in Bones & All, Guadagnino torna, sì, al romanzo di formazione, alle prime volte e ai primi amori, ad una giovinezza vorace, alla scoperta di sé e del proprio corpo, facendo però intersecare tutto questo, per certi versi, con una dialettica tipica della mitologia superomistica e rendendo - quasi si trattasse di un perfetto controcampo della trasposizione di Aciman - la percezione, l’attrazione e il desiderio verso l’altro, verso la carne, il suo sapore, il suo odore, un problema, un disagio, una gabbia, una discriminante, una responsabilità, un bisogno che rende schiavi, outsider, diversi, orfani di contatto, amore, di una vita vissuta pienamente; oppure ancora un richiamo difficile da mettere a tacere, dalle origini sconosciute, eppure istintivo, naturale, innato.
In tal senso, a partire dal romanzo di DeAngelis, la sceneggiatura di David Kajganich (che tenta il colpo grosso e torna a lavorare col regista dopo i due tentativi veneziani) rilegge in chiave horrorifica il tema della dipendenza che diventa motivo di biasimo, uno stigma, una ragione valida per essere espulsi dalla società civile, per essere emarginati, cannibalizzati, considerati alla stregua di derelitti senza grandi possibilità o prospettive. Stiamo parlando di una vera e propria maledizione - che presenta ben più di un’attinenza, per esempio, col dramma dell’AIDS, malattia di cui tutti, anche i più insospettabili, potevano essere infetti - che ci priva della nostra esistenza, della nostra identità. Che ci rende mostri ai nostri occhi e a quelli degli altri - qualora questi non preferissero distogliere lo sguardo.
Tra Ohio, Indiana, Kentucky, Missouri, Iowa, Minnesota, Maryland e Nebraska, una versione ancor più desolata, scorticata, trasandata e desertificata dell’America reaganiana - che Guadagnino guarda, immagina, inquadra e ripropone con impressionante originalità ed impassibile eleganza, senza mai scadere nella cartolina sbiadita o nello sdoganato revival nostalgico - accoglie, o meglio, fa da proscenio immobile, inerte ed immutabile, pronto ad essere riempito di sentimento, alle vicende dei nostri due cannibali, un po’ Bonny e Clyde, un po’ La rabbia giovane, interpretati da Timothée Chalamet, la cui recitazione (ormai è quasi una regola) quando diretto dal cineasta palermitano - quest’ultimo, chiaramente e morbosamente ossessionato dal corpo dell’attore -, raggiunge un livello superiore, un'alterità tutta sua, una sensibilità, una delicatezza, una sensualità ed un eroticità diverse, ignote, neanche immaginabili per altri obiettivi e altri occhi; e dalla rivelazione Taylor Russell, quest'ultima un volto interessante, nuovo, fresco, imperfetto, che Guadagnino rende imprescindibile minimo comune denominatore della propria visione e del proprio discorso.
Alla ricerca di sé stessi e forse di qualcosa di più simile all’amore, i due si imbatteranno inoltre in loschi figuri e personalità borderline, portate su schermo da un Mark Rylance perverso, inquietante, ingobbito, ma anche insospettabilmente tenero, grazie a cui il cineasta ottiene e realizza il proprio Gollum (non a caso, Tolkien e Lo hobbit sono esplicitamente citati), e da un Michael Stuhlbarg ed una Chloë Sevigny incisivi, nonostante il ridotto screentime.
Incontreranno dunque la faccia di un’altra America, una grottesca, ridicola, violenta, adulta, che tenta di cibarsi di loro, di prosciugarli, di fagocitarli; ma anche lo specchio possibile di un futuro che potrebbe essere il loro, qualora dovessero finire preda del loro vizio, della loro dipendenza, della loro passione. Qualora non accettassero sé stessi e l’altro, di conseguenza. Qualora non riconoscessero nella carne qualcos'altro al di là di un mezzo per una sopravvivenza sbiadita ed amara, di una facile via di fuga da una fame impellente ed assordante, di una banale espressione della propria malattia. Vale a dire la condivisione di uno stesso malessere, la più alta manifestazione dell’amore, la massima forma di liberazione da una condizione implacabile.
Malgrado una componente thriller forse troppo schematica e proverbiale ed un montaggio ottimo, tuttavia prolisso sul finale, Bones & All è, lo stesso, l’ennesimo, piccolo gioiellino della filmografia di un regista che, a differenza di altri suoi colleghi, espatria ma non stravolge completamente il proprio stile, bensì prende i generi tipici, indiscussi, genetici del tessuto cinematografico estero, in questo caso statunitense, per plasmarli, sfruttarli, reinterpretarli, stravolgerli, combinarli secondo le proprie esigenze e ossessioni, secondo la propria sensibilità e i temi a lui più cari, proseguendo, come già scritto sopra, i discorsi già introdotti altrove.
La ricerca di sé, della propria vera identità, componente essenziale del teen drama, viene pertanto riletta e fusa fortunatamente con l’horror, con l’inquietante, il morboso, il veniale, e il risultato finale è un film che riesce benissimo a destreggiarsi, ad alternare e a far convivere assieme antinomie, contrari, contraddizioni apparenti. Contraddittori, d'altronde, lo sono pure i suoi protagonisti: così giovani e belli, eppure così vicini alla morte.
C’è posto per l’amore nel mondo dei mostri? Secondo Guadagnino, sì e anche secondo il suo film, spinto verso la scoperta di luoghi, alchimie, sentimenti nuovi dell’animo umano, verso la rappresentazione dell’irrappresentabile. Un’opera forse meno riuscita e complessa di Chiamami col tuo nome e Suspiria che, ciononostante, consacra nuovamente il valore del cineasta e del proprio cinema quali pacieri e cantori lirici e romantici della prosa del corpo, della carne, del genere, e della poesia dell’amore e di un cinema d’autore mai pretenzioso od autocompiaciuto, ma sempre vero, vorace, appassionante.
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