TITOLO ORIGINALE: Spiderhead
USCITA ITALIA: 17 giugno 2022
USCITA USA: 17 giugno 2022
REGIA: Joseph Kosinski
SCENEGGIATURA: Rhett Reese, Paul Wernick
GENERE: fantascienza, thriller
PIATTAFORMA: Netflix
Dopo essersi confrontato con brand e icone partorite e consolidate altrove (Tron e Tom Cruise), Joseph Kosinski adatta per Netflix una storia breve distopica di George Saunders, facendo muovere un ambiguo Chris Hemsworth ed un grigio Miles Teller in un complesso-prigione fotografata asetticamente da Claudio Miranda ed imbottita di dettagli vani dalla production designer Nancy McIlvanney. Peccato però che, nel doversi confrontare con un materiale iconograficamente inesplorato, il cineasta non riesca a rendere interessante neanche un elemento della sua composizione o un risvolto della sceneggiatura, verbosa, enfatica, estremamente letteraria, ma ciononostante psicologicamente approssimativa, di Rhett Reese e Paul Wernick. Spiderhead si riduce pertanto ad essere una maldestra copia carbone di un qualunque film sci-fi di Denis Villeneuve, un mediocre episodio di Black Mirror, o peggio, una pellicola che sembra più interessata ad inserire quante più hit anni ‘80 tra un cambio scena e l’altro, che a dar corpo e sostanza ad un racconto davvero conturbante.
Spiderhead è il vero banco di prova per Joseph Kosinski e il suo cinema. Un film che regala molte conferme a congetture e sospetti che ci hanno sempre accompagnato nella visione e nell’esplorazione della sua (ancora limitata) filmografia, che, eccezion fatta per Fire Squad (su cui non ci esprimeremo in questa disamina, perché chi scrive non ha ancora avuto il piacere di vedere), ha avuto a che fare, fino ad oggi, solo ed esclusivamente con brand riconoscibilissimi, siano essi un cult fantascientifico degli anni ‘80 come Tron, o un’istituzione “prodauttoriale” del cinema statunitense come Tom Cruise.
Ebbene, l’idea che chi scrive si è sempre fatto guardando i film di Joseph Kosinski è che, in realtà, quest’ultimo sia soltanto (e lo diciamo senza alcun intento sminuente) un ottimo shooter; un regista che si trova perfettamente a suo agio quando deve mettere in pratica la visione di qualcuno o qualcos’altro. Un buon vassallo capace di restituire la potenza e l’essenza di qualcosa già partorito e consolidato altrove, come, di nuovo, un iconico mondo sci-fi o l'idolo di un’epoca, di una cultura, di un preciso modo di pensare e fare cinema (Top Gun: Maverick è la dimostrazione eccellente di questo discorso).
Inutile dire che, nel momento in cui si ritrova a dover inventare, plasmare o comunque adattare un materiale da zero, questi rivela tutta una serie di mancanze e lacune che rendono il proprio sguardo e il proprio storytelling visivo abbastanza opachi, indolenti, blandi, anonimi, privi del benché minimo mordente.
Nel caso di Spiderhead, Kosinski adatta per Netflix una storia breve distopica di George Saunders (Escape from Spiderhead), originariamente pubblicata sul New Yorker (quest’ultimo impegnato anche nella produzione, purtroppo) che segue le orme di Jeff, un criminale che, per evitare di scontare la propria pena in un carcere tradizionale, decide di entrare a far parte di un nuovo programma sperimentale, gestito dal misterioso Steve Abnesti, che studia gli effetti di una serie di sostanze psico-regolatrici sull’organismo umano. Ciò nonostante, come si suol dire, non è tutto oro ciò che luccica e Jeff, più giorni passa all’interno di questo particolare penitenziario (nel quale i carcerati vivono in quasi totale libertà), più si rende conto che qualcos’altro, qualcosa di oscuro e sadico, si cela sotto il sorriso sornione e rassicurante del signor Abnesti. Una verità che lo porterà, appunto, a dover fuggire dal programma Spiderhead (o, se preferite, Aracnotesta).
Quello alla base del racconto di Saunders è dunque un meccanismo narrativo e tensivo, di per sé classicissimo - ovvero il mistero, la cospirazione e le bugie che si disvelano progressivamente, di twist in twist, di fronte agli occhi del protagonista e di un lettore/spettatore perfettamente allineato con il punto di vista di quest’ultimo -, che Kosinski ha già utilizzato in Oblivion e che, quantomeno a giudicare dai risultati sommariamente buoni, dovrebbe conoscere e saper gestire in modo sufficiente a coinvolgere ed appassionare chi guarda.
Peccato però che, a differenza del succitato action sci-fi dalle derive filosofiche, qui il cineasta non riesca a rendere interessante neanche un elemento della sua composizione o un risvolto della sceneggiatura - verbosa, enfatica, estremamente letteraria, ma ciononostante psicologicamente approssimativa - di Rhett Reese e Paul Wernick, e non possa inoltre contare sulla fotogenia di un attore come Tom Cruise.
Anzi, tra le altre cose, in Spiderhead, Kosinski è anche chiamato a dare nuovi vestiti ed una nuova pelle ad interpreti come Chris Hemsworth, che qui prova invano a reinventarsi e a scoprire il lato più ambiguo e conturbante della propria recitazione, assistito dallo stesso Kosinski, il quale, dal canto suo, tenta di costruire la pellicola anche su questo specifico contrasto di percezione spettatoriale; e Miles Teller, impegnato invece in una prova fatta di sottrazione e microespressioni che paga discretamente nei momenti più tensivi, meno nel racconto della sua storia d’amore (piuttosto dozzinale) con il personaggio di una funzionale Jurnee Smollett.
Questi ultimi diventano pertanto pedine da muovere all’interno di un complesso fotografato asetticamente, come la stazione sopraelevata di Oblivion, dal sodale Claudio Miranda ed imbottito di dettagli - utili a favorire una, seppur difficile, immersione nel mondo diegetico - dalla scenografa Nancy McIlvanney; e protagonisti di un intreccio che, quantomeno per i primi 40 minuti, sembra sostanziare un sotto-testo decisamente inedito e affascinante. Uno che avrebbe potuto fare di Spiderhead una versione thriller distopico-fantascientifica di Inside Out o, in altre parole, una pellicola che mette in scena sostanzialmente una perversione del nostro mondo, così dipendente dal bisogno di gioia e costanti emozioni forti (dunque, non accettando o comprendendo socialmente stati d’animo o condizioni come la tristezza, la noia, l’angoscia, la disillusione, finanche la depressione), è disposto ad accettare qualcosa, qualsiasi cosa, per essere ciechi di fronte alla mediocrità, alla brutalità, alla ripugnanza e all’orrore della (loro e nostra) contemporaneità.
Purtroppo, superata l’ora, chi scrive si è reso conto di essersi costruito, sequenza dopo sequenza, nient’altro che un gigantesco ed improponibile castello di sabbia, pronto ad essere spazzato via dalla sceneggiatura di Reese e Wernick, la quale, rimanendo fedelissima (immaginiamo) al racconto originale di Saunders, svela il piano segreto del sadico Steve Abnesti - che, al contrario, si attesta su lidi più concreti e pseudo-filosofici come il determinismo, la correzione e il controllo artificiale e permanente degli istinti umani e il giustizialismo -, e, con esso, tutta la propria superficialità, irresolutezza e pigrizia affabulatoria.
Spiderhead si limita perciò ad essere (stilisticamente) una maldestra copia carbone di un film sci-fi di Denis Villeneuve; (narrativamente) un mediocre episodio di Black Mirror che vorrebbe scatenare forti emozioni, instillare tensione e suscitare disgusto, ma che purtroppo non riesce a trovare e mantenere un tono unico, preciso e ben riconoscibile dall’inizio alla fine, barcamenandosi, con risultati abbastanza disastrosi, tra il serio e il faceto, addirittura sfociando nel ridicolo e nel trash involontario durante le fasi finali; e (in termini di puro senso) una pellicola che sembra più interessata ad inserire quante più hit anni ‘80 (The Logical Song, What a Fool Believes, More Than This, You Make My Dreams (Come True)) tra un cambio scena e l’altro, che a dar corpo e sostanza ad un racconto davvero inquietante. Sarà per il prossimo Top Gun: Maverick!
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