TITOLO ORIGINALE: Lightyear
USCITA ITALIA: 15 giugno 2022
USCITA USA: 17 giugno 2022
REGIA: Angus MacLane
SCENEGGIATURA: Jason Headley, Angus MacLane
GENERE: animazione, commedia, fantascienza, avventura
Dopo due anni e tre film usciti direttamente in streaming su Disney+, la Pixar torna a vedere la luce del grande schermo con Lightyear di Angus MacLane, lo stesso film che, nel 1995, folgorò il piccolo Andy a tal punto da desiderare, a tutti i costi, l'action figure del suo protagonista. Soprassedendo su una natura editoriale, frutto di una pretestuosità inutile ed irrealistica, Lightyear si mostra come un ottovolante fatto del ricettario e dell’immaginario sci-fi degli ultimi settant’anni. Il che non sarebbe di certo un male, se solo non stessimo parlando di un film di quella Pixar che, dagli anni ‘90 in poi, si è distinta per utilizzare la citazione in modo inventivo, originale, ricercato. Cosa che, purtroppo, non avviene qui. Al contrario, seppur visivamente, artisticamente e tecnicamente, la pellicola riconfermi quella solidità e quell’attenzione al dettaglio che hanno sempre contraddistinto lo studio, l’essere un collage di altri mondi porta Lightyear sulla strada dell’anonimato, del già visto e dell’anestetizzato. A ridare (Una nuova) speranza al pacchetto, una caratterizzazione e scrittura pregevoli di alcuni personaggi, dei loro rapporti e delle loro dinamiche.
Si spera che Angus MacLane e soci abbiano offerto almeno un caffè alla Lucasfilm (e non solo) per avergli praticamente offerto Lightyear su un piatto d’argento.
Non solo infatti questo 26° lungometraggio d'animazione targato Disney Pixar - il primo a vedere la luce della sala dopo due anni e tre film usciti direttamente in streaming su Disney+ - è costruito sulla base di tutti i stilemi archetipici del filone fantascientifico, ma tutto ciò che è e tutto ciò che fa, è frutto di meccanismo di citazione ben preciso.
Al di là di Star Wars, che rimane comunque il suo principale punto di riferimento e nume tutelare (tanto nel design del cattivo, quanto nella colonna sonora di un Michael Giacchino che ripesca quanto composto per Rogue One), pensiamo, per esempio, a capolavori come 2001: Odissea nello spazio (con i suoi tunnel stroboscopici), a Blade Runner, a Terminator (e alla loro visione delle macchine e del rapporto di queste ultime con la civiltà umana), ad Alien (con le sue uova), a serie come Ai confini della realtà (e alle sue missioni impossibili), a cult del calibro di Ritorno al futuro(, ai suoi incontri ravvicinati e ai suoi complessi), fino ad arrivare alla più recente e scientifica deriva di Interstellar, da cui il cartone Pixar riprende l'uso drammaturgico del concetto di dilatazione temporale gravitazionale.
Ebbene, tutti questi film si riversano, riecheggiano, compongono, animano e colorano l’universo di Lightyear, che potremmo dunque definire come un ottovolante fatto del ricettario e dell’immaginario sci-fi degli ultimi settant’anni. Il che non è di certo un male. Anzi, l’opera di Angus MacLane non è certo la prima, e non sarà nemmeno l’ultima, a fare del riferimento, del gioco cinefilo e del meta-testo la propria chiave compositiva.
Ciò che fa la differenza qui è più che altro l’appartenenza del film ad un certo studio che, dagli anni ‘90 in poi, si è distinto per utilizzare la citazione in modo inventivo, originale, ricercato, sempre all’interno di un intreccio ben riconoscibile, cosa che, purtroppo, non avviene qui. Al contrario, seppur visivamente, artisticamente e tecnicamente, la pellicola riconfermi quella solidità e quell’attenzione al dettaglio che hanno sempre contraddistinto Pixar, l’essere un collage di altri mondi porta Lightyear sulla strada dell’anonimato, del già visto e dell’anestetizzato.
Dal canto suo, la sceneggiatura - scritta a quattro mani dallo stesso MacLane insieme a Jason Headley (Onward) - si limita invece ad architettare un intreccio linearissimo, capace di giustificare l’inserimento, spesso forzato, della valanga di allusioni e richiami di cui dispone, procedendo per equivoci, errori, imperizie ed inettitudini degli scapestrati e sbadati compagni di squadra di Buzz, e finendo, proprio per questo, per annullare del tutto il senso avventuroso, la tensione, l’immedesimazione, nonché, ovviamente, l'intrattenimento, il suo obiettivo primario.
Insomma, per riassumere, Lightyear - questo spin-off che racconta “La vera storia di Buzz”, ma non del giocattolo che abbiamo visto (o meglio, vedremo) nei quattro Toy Story, bensì del protagonista del film che ha ispirato tale action figure - altro non è che un giro a vuoto poco soddisfacente, che inizia ad ingranare a quaranta minuti dall’inizio, stiracchiando e sbrodolando una trama che avrebbe potuto essere risolta nei tempi di un mediometraggio e invece arriva a coprire ben un'ora e quaranta di racconto.
Nonostante una pigrizia di scrittura che, a lungo andare, diventa quasi fastidiosa, rischiando in più di annoiare terribilmente pure gli spettatori più piccoli, ovvero il pubblico a cui è espressamente rivolto; il film di Angus MacLane riesce a vedere la proverbiale luce in fondo al(lo space) tunnel, grazie, in primis, ad una sequenza [ci riferiamo al montaggio dei vari tentativi di Buzz] che permette di ravvisare e ritrovare, tra le pieghe di uno script fratello di Cars 2 e ancor meno ispirato e divertito di Onward, la luce, la delicatezza, oltre che quell’uso onnicomprensivo, quasi toccante del linguaggio audiovisivo di cui Pixar ha sempre potuto vantarsi.
Per non parlare inoltre della caratterizzazione e della scrittura (solo di alcuni) dei personaggi e dei loro rapporti e dinamiche, che, unite a qualche sotto-testo e meta-discorso, e a dispetto di quanto elencato sopra, si rivelano essere elementi sicuramente pregevoli su cui vale la pena esprimersi, giacché rendono la passeggiata nello spazio (limitatissimo) del nostro Buzz un po' meglio di come appare ad una primissima occhiata.
Per quanto riguarda i personaggi, è d’obbligo citare innanzitutto il gatto-robot Sox, un ricettacolo di innata simpatia e di quell'inventiva purtroppo assente dal resto della pellicola; la quota cuteness che farà schizzare alle stelle le quotazioni del merchandising Disney. Dopodiché, per coniugare la questione caratterizzazione con quella più discorsiva e tematica, è notevolissimo il lavoro svolto sulla compagna d'armi di Buzz, Alisha Hawthorne, la cui omosessualità è trattata nel modo più sensibile, naturale e, dunque, efficace possibile, e su sua nipote Izzy, forse una delle eroine Pixar più interessanti e articolate dai tempi di Elastigirl e Merida.
Ma - e arriviamo al nocciolo della questione meta-testuale - è soprattutto il modo in cui MacLane e Headley ripensano il personaggio di Buzz Lightyear una delle principali ragioni per cui dovreste dare almeno una chance a questo 26° Pixar.
A tal proposito, sorprende notare quanti parallelismi e punti di contatto (anche estetico-visivi) vi siano tra questo film e il coevo Top Gun: Maverick (che inconsapevolmente potrebbe star dando il via ad un nuovo filone). Entrambe le pellicole raccontano infatti l’attualizzazione e la messa in crisi di un’icona pop-culturale.
Da un lato, Pete “Maverick” Mitchell/Tom Cruise, simbolo di un’epoca lontana, e la sua missione impossibile contro il tempo e contro l’automazione del mezzo cinematografico. Dall’altro, lo Space Ranger co-protagonista di un film seminale, tuttavia quasi alieno per la Pixar di oggi. Lì, nel battesimo del 1995, icona meta-cinematografica del predominio sci-fi sulla pratica e l’industria blockbuster hollywoodiana, idealmente ed inizialmente contrapposto invece a Woody il cowboy, l’esponente della “vecchia scuola”, del genere hollywoodiano per antonomasia: il western. Qui coinvolto, viceversa, nella decostruzione del concetto tradizionale, individualista, maschilista di eroismo; in una parabola che, al contrario di quella impossibile, erculea e semi-solitaria di Maverick, sarà invece più collaborativa e amicale.
Buzz dovrà infatti imparare ad utilizzare il “noi”, piuttosto che l’"io", riconoscere il fallimento e comprendere il valore dell'amicizia. Alla fine poi, si ritorna sempre lì. Al “Hai un amico in me”. Purtroppo.
E, malgrado sia meritevole il voler andare oltre al conservatorismo family friendly di quell’animazione che soprattutto Disney ha contribuito a consolidare; immaginare che l’unica soluzione corrisponda alla comunione e completezza di un cristallo arcobaleno, nulla può esimerci dal riconoscere, oltre a quanto scritto sopra, la convenzionalità, al contrario, di un’opera la cui stessa natura editoriale (quella esplicitata nelle didascalie iniziali) è di per sé frutto di una pretestuosità inutile (non specificare nel dettaglio il legame con l’universo di Toy Story non avrebbe di fatto cambiato nulla) ed irrealistica (è a dir poco improbabile che un film del genere, in cui l’eroismo viene decostruito, possa aver folgorato Andy, al punto da desiderare, a tutti i costi, un action figure di Buzz).
Di un’opera che, a differenza di quanto sostenuto dagli stessi MacLane e Galyn Susman, crediamo non sarà e potrà mai essere né lo Star Wars, né tantomeno il Toy Story per tutti quei piccoli spettatori al loro primo, secondo, o decimo incontro (ravvicinato) con il grande schermo.
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