TITOLO ORIGINALE: Esterno notte parte 2
USCITA ITALIA: 9 giugno 2022
REGIA: Marco Bellocchio
SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino
GENERE: storico, drammatico, biografico
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2022
Continua e si conclude l'odissea seriale di Marco Bellocchio sull'affaire Moro con una seconda parte in cui, come già lascia intuire la locandina, tutto prende una forma più oscura, rabbiosa, spregevole, esplicita, intensa, sfrenata, dura, reale. Il regista emiliano si discosta quasi interamente (eccezion fatta per l’ultimo episodio) dai palazzi romani del potere e ripropone un approccio all'analisi psicologica e alla scrittura dei personaggi più simile a quello di Buongiorno, notte, scavando nell’intimo domestico, nel vivo e nella vita di due punti di vista nuovamente concentrici e apparentemente opposti, che potrebbero ciononostante rivelarsi le due proverbiali facce della stessa medaglia. Meno centrati, affascinanti e sofisticati dei tre precedenti, ma comunque notevolissimi, oltre che pregni di lezioni di storytelling e picchi di assoluto cinema, gli ultimi tre episodi di Esterno notte rivelano la reale natura della miniserie: un braccio di ferro tra due registi.
I più attenti avrebbero potuto intuirlo già dalla locandina, come sarebbe stata la seconda parte di Esterno notte, il primo incontro di Marco Bellocchio con la serialità televisiva con cui questi torna, a diciannove anni dal magnifico Buongiorno, notte, sul caso Moro.
Infatti, se in quella della prima parte (qui la nostra recensione), lo stemma della Democrazia Cristiana vedeva un perfetto bilanciamento tra l’acuminatezza delle spine di una perfetta corona martirica e la dolce indulgenza di una croce di rose, nella locandina di questa Parte 2 tutto ciò che resta di quelle rose sono ormai solo i petali, ai piedi di uno stemma che svela tutta la sua violenza, asprezza, spigolosità.
Detto altrimenti, se nel primo tempo si concedeva tempo e spazio a qualche risata beffarda, ad una possibilità di satira “sorrentiniana”, ad uno scherno spesso goliardico ma altrettanto pungente; insomma, ad una perfetta armonia, come ribadito dal manifesto, tra pietas tragicomica ed irriverenza sagace, in questi ultimi tre episodi (per chi scrive, meno centrati, affascinanti e sofisticati dei tre precedenti) tutto prende una forma più oscura, rabbiosa, spregevole, esplicita, intensa, sfrenata, dura, reale. Nonostante tutto.
E, nel fare questo, Bellocchio si discosta quasi interamente (eccezion fatta per l’ultimo episodio) dai palazzi romani del potere - laico e religioso - e ripropone un approccio all'analisi psicologica e alla scrittura dei personaggi più simile a quello di Buongiorno, notte, scavando nell’intimo domestico, nel vivo e nella vita di due punti di vista nuovamente concentrici e apparentemente opposti, che potrebbero ciononostante rivelarsi le due proverbiali facce della stessa medaglia.
Due voci (femminili) che inconsapevolmente desiderano, seppur con mezzi e modi del tutto antitetici, la stessa, identica cosa. Ovvero essere ascoltati da una classe dirigente che non può, o meglio, non vuole sentire, immobile ed intransigente, ipocrita e falsa, disorientata e stordita.
Nel quarto episodio - senz’altro il più debole di tutti e sei - il regista emiliano torna a raccontare il mondo, la flebile compattezza ideologica e la graduale disillusione delle Brigate Rosse, lasciandoci scorgere alcuni dei passaggi della preparazione del celebre attentato del 16 marzo 1978 in via Fani, a Roma, e focalizzandosi, questa volta, sulle figure di Adriana Faranda (una Daniela Marra più passionale, infiammata e reattiva della Maya Sansa di Buongiorno, notte) e del compagno Valerio Morucci (un egregio Gabriel Montesi, di cui colpisce soprattutto il lavoro su corpo e voce), due dirigenti della colonna romana dei brigatisti, poi ridotti a mere staffette durante tutto il tempo del sequestro.
Come anticipato sopra, Bellocchio torna dunque a Buongiorno, notte nella forma di anarchia sciancata, deforme e disorientante della messinscena, del montaggio, delle scelte registiche e della colonna sonora, ma intende, ciononostante, anche superarlo e sintetizzarlo per quanto concerne invece la rappresentazione, qui ancor più diretta e dichiarata, delle Brigate Rosse.
Queste ultime, zoppicanti, disarmoniche e scombinate come lascia bene intendere l’istanza narrante, si comportano e parlano come fossero gangster o, alla peggio, giustizieri - e infatti questo quinto episodio ha qualcosa, nell’atmosfera, nelle brevi e metaforiche evasioni, tra apologie del fascismo, eroinomani e vagabondi, nella giungla urbana romana, nell’estetica dei poliziotteschi tipicamente settantini; di quel filone che, non a caso, prendeva ispirazione proprio dal cinema politico di Bellocchio (e non solo). Sono impegnati in un braccio di ferro di comodo, fuorviante e fuorviato con gli esponenti della Democrazia Cristiana e il governo. Guardano Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah per distrarsi un po’. Si mostrano scettici riguardo alla loro stessa rivoluzione (“la rivoluzione non vincerà”), ciechi e refrattari della realtà del paese, incapaci anche solo di immaginare il compimento di una visione che non è la loro, ma che gli è stata porta e posta dall’alto, da qualcun altro, quasi si trattasse di una lezione da imparare a memoria e ripetere a comando. Contraddittori, pertanto, nella misura in cui denunciano e si dichiarano nemici del morbo del capitalismo e delle sue idee omologative e spersonalizzanti, pur seguendone e replicandone, a loro volta, i medesimi modelli e atteggiamenti.
Emblematiche, in tal senso, l’assurda, quasi onirica, sequenza dell’autobus oppure quella - perfettamente orchestrata e ritmata da Bellocchio - in cui quattro brigatisti si incontrano segretamente in una piazza della capitale e, da difensori dei proletari e degli ultimi quali si ritengono, prima respingono con fare sbrigativo un vagabondo che gli chiede la carità e poi non fanno nulla per fermare uno scippo che avviene proprio sotto i loro occhi.
Il quinto episodio, incentrato (finalmente) su Eleonora Moro (portata su schermo da una Margherita Buy graduale nell’intensità e nell’emozione interpretativa, talora quasi evanescente) e sugli effetti, i diverbi, i dubbi, la diffidenza e le speranze che il rapimento del padre, del marito, del nonno alimenta all’interno di quella cerchia familiare vista fugacemente nel primissimo capitolo, si apre con una delle sequenze che, meglio di tante altre (e non solo di Esterno notte e dell’opera bellocchiana), sa cogliere il profondo dramma umano e il controsenso paradossale ed insolubile alla base di una figura, quella di Aldo Moro, che ha fatto del compromesso la sua cifra politica più riconoscibile.
In questo segmento d’apertura, vediamo infatti Eleonora Moro confessarsi al parroco di famiglia riguardo alla propria situazione familiare e coniugale. Nello specifico, questa non riesce a spiegarsi la ragione per cui al marito riesca benissimo scrivere discorsi accorati per il popolo italiano, di cui è diventato quasi il padre putativo (e spirituale, più dello stesso Paolo VI), e, al contrario, si dimostri freddo, impassibile, formale nei confronti dei suoi stessi figli e del suo naturale ruolo paterno.
Una lamentela, sotto forma di interrogativo, a cui il prete risponde che l’amore non deve essere inteso come uno scambio forzato da una reciprocità. Che si può amare anche se l’altro non ci ama. Un concetto, espresso tra l’altro la mattinata di quel famigerato 16 marzo, a cui Bellocchio sembra affidare un senso altro rispetto a quello del mero consiglio matrimoniale, perché proprio questa è l’idea di amore che regola e caratterizza il rapporto dello stesso Moro con gli italiani e che lo porterà poi ad essere sequestrato e rinchiuso per settimane nell’appartamento romano di via Montalcini.
Unitamente a ciò, il quinto episodio di Esterno notte, che potremmo intitolare “La lunga (od inutile) attesa”, è interessante anche e soprattutto per il modo in cui ragiona e mette in scena, assolutamente senza filtri, l’essenza tragicomica, quasi da teatro farsesco, dell’affaire Moro, con politicanti ruffiani, melliflui ed invadenti (a dir poco esilarante, l’invasione, l’assedio, la presenza pervasiva della classe politica in casa Moro, con esiti grotteschi e quasi buñueliani) che si riempiono la bocca di promesse inesaudibili, gli occhi di lacrime vuote, e il viso dei sensi di colpa di chi è complice di una subdola macchinazione. Che si trasformano in eccellenti attori al soldo e agli ordini di un regista, per la cui identità basta attendere il sesto ed ultimo episodio.
Il capitolo sei di Esterno notte ha inizio con un interessante gioco (meta cinematografico) delle scatole cinesi che, da un lato, mostra quanto (ragionevolmente) il rapimento di Aldo Moro abbia segnato l’immaginario collettivo, dall’altro, ad un livello più profondo, come la finzione, intesa come trama ordita da un regista, sia stata la sola ed unica responsabile della seguente uccisione dell’onorevole.
Un discorso che attraversa e muove l’episodio in maniera estremamente coerente, riportandoci nell’appartamento matrioska di via Montalcini, in quello sgabuzzino, anch’esso finto, dissimulato, costruito ad hoc, e facendoci assistere agli ultimi istanti di vita, all’ultima confessione dell’allora presidente della Democrazia Cristiana.
Dopo averlo visto di sfuggita, sulle pagine di qualche giornale o riprodotto su fotografie di varie dimensioni, l’Aldo Moro di un monumentale, mimetico e millimetrico Fabrizio Gifuni, impegnato nell’ennesima lezione di recitazione, riprende le redini di Esterno notte e lo fa in una delle sequenze più intense, coinvolgenti e sentite di tutta l’opera bellocchiana.
Un momento con cui il regista emiliano ci permette, mediante un utilizzo a dir poco magistrale e calibrato della finzione e del mezzo cinematografico, di assistere allo sfogo lucido e non filtrato di un Moro di cui scorgiamo, per la prima volta, tutta l’umanità, il dolore, l’angoscia, la rabbia, il risentimento, oltre che il distacco ideologico, politico e umano dalla Democrazia Cristiana e da quegli amici che gli hanno voltato le spalle.
Un segmento, quest’ultimo, che è il perfetto controcampo, una risposta più reale - e logicamente meno onirica - a quella potente visione quasi da via crucis, con Moro che porta sulle spalle la croce di un’intera classe politica e le sorti di tutta l’Italia, a cui abbiamo assistito nella Parte 1 e che, seppur passibile di didascalismo, è già storia del cinema italiano.
Un monologo, tinto del livore del tradimento, della rassegnazione ad un destino inevitabile, dell’incredulità rispetto ad una situazione grottesca, sbagliata ed infine dell’apprensione per le sorti e il futuro del popolo italiano, in cui, tra gli altri, Aldo Moro si scaglia esplicitamente contro l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti (che abbiamo già visto e vedremo dormire sereno nel suo letto), accusandolo di essere “il regista di tutto questo”.
Appunto, il concetto di regia e di finzione (morale e artistica) appaiono fondamentali in tutto e, appunto, in chiusura di Esterno notte, un racconto che è, in realtà, un braccio di ferro tra due registi.
Il primo, Marco Bellocchio, è colui che, per più di cinque ore, tenta di deformare e plasmare la realtà e le sue maschere a proprio piacimento, che apre la propria opera con una possibilità di ucronia, con Moro, vivo e vegeto su un letto d’ospedale, che riceve le visite dei suoi Giuda, mentre in sottofondo dichiara la sua volontà di dimettersi e dissociarsi da tutto ciò che è la Democrazia Cristiana e la vita politica.
Il secondo, Giulio Andreotti, è invece colui che, quell’ipotesi di ucronia, la rende del tutto vana. Che vince e annienta completamente la parentesi, lo sguardo su ciò che avrebbe potuto essere, la fantasia e la finzione di quel primo regista, che nulla può e potrà contro la realtà, l’evidenza e la finzione (morale e umana) di una classe dirigente che, sotto scroscianti applausi, celebra, quasi festeggia, la morte dell’Italia. Di quell’Italia che, con il suo (e il nostro) irridente silenzio, ha lasciato che Moro venisse ucciso, martirizzato, cannibalizzato.
Ma è ora che quel corpo e quell'uomo vengano riesumati da quella Renault 4 rossa; da quella tomba (“perché bisogna pensarci per tempo a certe cose”) in cui hanno scelto di seppellirsi, perché sì, “oggi è il tempo della responsabilità”.
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