TITOLO ORIGINALE: Esterno notte parte 1
USCITA ITALIA: 18 maggio 2022
REGIA: Marco Bellocchio
SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino
GENERE: storico, drammatico, biografico
Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2022
A diciannove anni di distanza da Buongiorno, notte, Marco Bellocchio torna a parlare del rapimento di Aldo Moro con Esterno notte, il suo primo, vero approccio al mondo della serialità televisiva. Complesso, tortuoso, intricato, Imponente ma non barocco, solenne ma non austero, magistrale ed intellettuale, tuttavia devoto in maniera irreprensibile all’arte dello storytelling, al ritmo della narrazione, alla godibilità dell’intreccio, Esterno notte è la summa di un’opera decennale di metabolizzazione di un trauma, di ricerca del senso di un’epoca, di racconto e esorcizzazione dei fantasmi che ancora oggi infestano la nostra penisola e la sua memoria storica. L'affresco lucidissimo, pregno di identità e gusto per la messa in scena, misurato in tutte le sue diverse componenti, di estrazione borgesiana e figliolanza sciasciana; di un’Italia buia, shakespeariana, psicotica, delirante, messa in croce per volere di pochi (non) eletti, sacrificata sull’altare della dignità, morta ancora prima di aver esalato l’ultimo respiro.
L'interno buio di un appartamento in via Montalcini a Roma. Da fuori la porta, la voce di quello che deduciamo essere un agente immobiliare che sta elencando a qualcuno tutte le specificità e specialità dell'abitazione che eventualmente acquisterà.
Tuttavia, tra i motivi per cui questo appartamento dovrebbe ritenersi speciale, anzi straordinario, egli si dimentica, come ovvio che sia, il più importante. Quello che deve ancora essere. Quello che sarà. Ovvero l'entrata, tra quelle stesse mura, della storia con la S maiuscola, quella che riguarderà e riguarda tutti indistintamente ancora oggi. Pochi giorni dopo, infatti, quelle stesse mura saranno il carcere del deputato e presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro.
Così si apriva Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, film del 2003, presentato in concorso alla 60ª edizione del festival di Venezia, nel quale il cineasta piacentino affrontava e si confrontava con uno degli snodi cruciali della storia italiana; osservava dallo spioncino di un appartamento del quartiere portuense il districarsi degli eventi e del nostro futuro, dando carne e spirito ad un racconto di fantasmi onirico, trasognato, soffocato e soffocante.
Un'opera che ribaltava il punto di vista, le aspettative e le consuetudini del testo storicamente, moralmente e politicamente impegnato, con il solito approccio bellocchiano, dunque anarchico nei confronti del mezzo ed intellettuale del linguaggio cinematografico. Nient’altro che un pretesto per raccontare le gabbie di un'ideologia diventata autoreferenziale, meramente simbolica ed immaginativa, di una missione più simile ad un favore alla classe dirigente dell’epoca, oltre che di un retaggio familiare e sociale legato a valori che non hanno poi dato seguito ad alcuna concretezza.
In Buongiorno, notte non vi erano colori, schieramenti o conflitti, ma solo uomini, prigionieri, soli, repressi, ciechi, che solo nel sogno e nell'immaginazione potrebbero sottrarsi ad un destino che è già scritto, come raccontava bene Bellocchio in un finale magistrale che, dietro il lento incedere di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd e il sorriso laconico di Roberto Herlitzka, nascondeva, al contrario, una critica sottile, indiretta e graffiante verso l'Italia che sarebbe venuta ed è tuttora. Un’Italia che, con Moro, ha perso la sua innocenza e ogni speranza di luce e dignità, sprofondando invece in un buio ossimorico e contraddittorio.
Oggi, quasi diciannove anni dopo quel grandissimo film, il regista torna a quei giorni del marzo 1978 con Esterno notte. Un ritorno che però, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, non è sinonimo di ristagno, ridondanza, pleonasmo, quanto piuttosto di cambiamento, sperimentazione, dinamismo artistico, creativo, linguistico. Il che non è proprio scontato per un maestro del cinema affermato che quest’anno compie la bellezza di 83 anni.
Con Esterno notte, ci troviamo di fronte, infatti, al primo, vero approccio di Marco Bellocchio al mondo della serialità televisiva. Nella fattispecie, a sei puntate che, dopo un passaggio integrale alla 75ª edizione del festival di Cannes, esce nelle sale italiane diviso in due parti [la recensione che state leggendo si riferisce solo alla prima, pertanto ai primi tre episodi], per poi venire trasmesso, nell’autunno 2022, in prima serata su Rai1.
“Un controcampo di Buongiorno, notte”, così lo ha definito il regista in una recente intervista. Tuttavia, pur non essendo nessuno per contraddire le parole del proprio creatore, crediamo che Esterno notte sia, in connivenza e complicità con il cambio di formato e tutto ciò che ne consegue (tra cui i proverbiali cliffhanger), un ampliamento, un parcellizzazione, una decuplicazione, un approfondimento dello sguardo, della visione, degli orizzonti narrativi e delle ambizioni di quella magnifica pellicola.
Ma è anche vero che, nonostante il suo stretto legame con quest’ultima, questa nuova emanazione seriale e serializzata del dramma storico-politico bellocchiano, oltre a rifarsi esplicitamente all’importante precedente - di passaggio in sala dell’alta fiction italiana - rappresentato da La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, circoli più che altro nelle vicinanze del dramma e della satira politica di Sorrentino (Il divo per le tematiche, Loro per il tipo di operazione commerciale, The Young Pope/The New Pope quali matrici attenuate di uno degli episodi). D’altronde, tra i produttori, figura la stessa The Apartment, che ha dato alla luce gli ultimi lavori del regista premio Oscar, e uno degli sceneggiatori è Stefano Bises, a sua volta co-sceneggiatore di The New Pope.
Per far sì che Esterno notte risultasse più di una riproposizione - solo diluita - dei temi, della poetica e dell’atmosfera di Buongiorno, notte (cosa che sarebbe stata alquanto controproducente, visto che il paragone sarebbe stato con un’opera che, tra i pregi, conta proprio l’essere sintetico, agilissimo, quasi disadorno), Marco Bellocchio sceglie quindi la strada migliore, ovvero quella della moltiplicazione dei punti di vista rispetto allo stesso evento - il rapimento e detenzione di Aldo Moro -, tuttavia al di fuori, all’esterno del claustrofobico appartamento a matrioska del film del 2003, vedendo davvero quegli scontri di piazza lì sintetizzati a fuochi di capodanno. In quell’esterno in cui la notte era arrivata già prima che il leader della DC venisse rapito. In quell’esterno a cui Moro tornava nell’epilogo immaginario e soffice, ma apparente ed ingannevole di quella pellicola.
Un epilogo ed una camminata, quella del Moro di Roberto Herlitzka che, quantomeno a giudicare dal primissimo segmento di Esterno notte, sembra essere proseguita fino ad un ospedale romano, tra le cui corsie fanno la loro apparizione gli amici e compagni di partito Giulio Andreotti (allora Presidente del Consiglio), Francesco Cossiga (Ministro dell’interno) e Benigno Zaccagnini (Segretario della Democrazia Cristiana), che Bellocchio mostra ansiosi, timorosi, preoccupati (e non per i motivi che potreste credere), simili, per certi versi, ad avvoltoi pronti ad accanirsi su un cadavere prima simbolico e metaforico, poi carnale e sensibile.
Un prologo da cui prende poi il via un lungo flashback che, almeno basandosi su queste tre puntate, permette alla serie di mostrare quella che per chi scrive è la sua vera natura e la sua indole più pura.
Difatti, subito dopo la continuazione seriale di qualcosa iniziato altrove, la ricostruzione pluri-puntuale di un evento cruciale della storia italiana e la descrizione di un preciso contesto storico, politico e culturale, Esterno notte parte 1 è probabilmente uno dei migliori, più brillanti e solidi esercizi di scrittura e caratterizzazione che Bellocchio abbia mai firmato.
Il primo capitolo, il più parco e moderato dei tre, figlio de Il traditore, è quello dedicato - neanche a dirlo - ad Aldo Moro, finalizzato a creare le premesse narrative ed emotive di quelli a venire. D’altronde, parco, moderato, pacato, estraneo a populismi e sensazionalismi, anzi, aperto ad instaurare un dialogo e a trovare il proverbiale “compromesso” con il partito comunista (cosa per molti inaccettabile all’interno di una sovrana Democrazia Cristiana, e semplicemente inammissibile per gli “amici americani”), è lo stesso presidente della DC, interpretato, di nuovo, da Fabrizio Gifuni, qui davvero in stato di grazia, con qualcosa di Gian Maria Volonté negli occhi e nel processo mimetico col personaggio che è chiamato ad interpretare.
Questi si muove per una Roma limacciosa, fumosa, livida, in attesa dell’inevitabile; è un uomo senza sonno, scrupoloso e routinario. Il padre amorevole, premuroso e prudente di due figli, di un partito ingordo di potere(, gelati e cioccolatini) e politicamente tronfio, e di una nazione, forse più avanti dei propri politici, che egli osserva, preoccupato, ferirsi a vicenda. Un fedele che trova nella preghiera un limbo conveniente ed accogliente che lo possa salvare dalla realtà nuda e cruda. Un personaggio a cui Bellocchio, che, come solito e come tanti altri, parla del passato per parlare di ciò che verrà e ciò che è ora; affida divinazioni ammonitrici e presagi pungenti (due volte raccomanda alla figlia di “lavarsi le mani”). Un’anima (politica) persa - per citare il titolo del film di Dino Risi di cui scorgiamo la locandina - che cadrà vittima dell’indifferenza di un’intera, insaziabile, malsana classe dirigente, di cui dovrà portare, suo malgrado, la croce. Un uomo umile, come ci racconta l'arredamento della sua abitazione.
Ebbene sì, malgrado il titolo, Esterno notte trova negli interni intimi e privati, in quegli unici posti in cui è possibile leggere e decifrare davvero l’animo dissimulatore del politico o dell’uomo di potere in genere; un importante mezzo espressivo, uno specchio diretto e non mediato che parla, anche attraverso il curatissimo lavoro scenografico di Andrea Castorina, del carattere, della tempra morale e della personalità diretta e non mediata dei propri inquilini.
In tal senso, se la casa di Moro, come sopra, è uno spazio umile, semplice e sobrio, da piccolo-medio borghese qualunque, quella del ministro Francesco Cossiga, qui interpretato da un Fausto Russo Alesi allucinato, protagonista della seconda puntata, è bambinesca, tronfia, priva della benché minima misura. Un po’ come lui, insomma.
L’allora Ministro dell’interno, Bellocchio lo scrive e ne mette in scena la parabola in modo a dir poco esilarante, irriverente, in alcuni punti, addirittura sorrentiniano. Egli è qui alla stregua di un burattino infantile, sciocco, ridicolo, sprovveduto, credulone, superstizioso, arrendevole, nevrotico, affetto da un evidente complesso di inferiorità, dato anzitutto da una vita matrimoniale e sessuale inesistente. Un fantoccio che fa i comodi dei suoi stessi amici di partito e colleghi di governo, oltre che degli americani (fenomenale e provocatorio, in tal senso, il personaggio del consulente americano). Un uomo, la cui unica credibilità era data dal suo rapporto pseudo-paterno con Moro, ora (nel marzo 1978, dopo il rapimento del presidente) ridotto a figura inesistente, fantasmatica, infima, presa in giro da membri di gabinetto che, in sua presenza, parlano in modo artificioso e costruito, come fossero personaggi usciti direttamente dalle pagine di Tex Willer, e in sua assenza, invece, si tolgono la maschera e danno inizio alle vere trattative.
È però nel terzo episodio, quello incentrato su Papa Paolo VI, che Bellocchio torna compiutamente alla forza dirompente, dissacrante e anarchica dei suoi esordi, sferrando attacchi talmente audaci nei confronti di un’istituzione intoccabile come il Vaticano che ci stupisce e stimola, al contempo, l’idea che questo Esterno notte possa finire, prima o poi, in prima serata su Rai1.
In questo terzo e ultimo capitolo, infatti, un Toni Servillo mai così prudente e dosato interpreta un pontefice che arriva ad ammettere di non ritornare poi così santo, nonostante tutti glielo ripetano ogni singolo giorno. Un vicario impotente, incapace di parlare davvero ai propri fedeli, di mostrare empatia, calore umano e spirituale, fervore religioso, di evangelizzare e convincere chi non crede, poiché legato ad una maschera secolare, artificiosa e formale che non riesce a tradire. Un uomo che dovrebbe essere la massima guida spirituale, morale e religiosa, ma che ciononostante è costretto, più o meno volontariamente, al qui e ora, ai dolori del corpo, al lato materiale delle cose e del mondo (o, per meglio dire, al denaro, usato però per scopi nobili). Il che fa sì che egli non possa reggere tra le braccia neanche il più piccolo e leggero dei crocifissi.
A latere, sfilano infine il vorace, macchiettistico e ambiguo Giulio Andreotti di un Fabrizio Contri che si annulla completamente dietro l’inequivocabile e precisa che riesce a creare del personaggio, l’Eleonora Moro di una Margherita Buy ancora appartata, silenziosa ed eloquente allo stesso tempo, e il trascurabile, poiché perlopiù assente, Benigno Zaccagnini interpretato da Gigio Alberti.
Complesso, tortuoso, intricato, Imponente ma non barocco, solenne ma non austero, magistrale ed intellettuale, tuttavia devoto in maniera irreprensibile all’arte dello storytelling, al ritmo della narrazione, alla godibilità dell’intreccio: già solo dalla sua prima parte si intravede il valore e la caratura di Esterno notte di Marco Bellocchio.
La summa di un’opera decennale di metabolizzazione di un trauma, di ricerca del senso di un’epoca, di racconto e esorcizzazione dei fantasmi che ancora oggi infestano la nostra penisola e la sua memoria storica. Un affresco lucidissimo, pregno di identità e gusto per la messa in scena, misurato in tutte le sue diverse componenti, di estrazione borgesiana e figliolanza sciasciana.
L’evoluzione e ampliamento, appunto, di un discorso iniziato diciannove anni fa, ma anche la dimostrazione dell’importanza e della necessità di una voce unica e forse irripetibile all’interno dell’odierno panorama cinematografico italiano. Di un traditore del senso comune, delle morali e ideologie cieche e autoreferenziali che continuano a mostrarsi, seppur in forme più infantili, ma ugualmente pericolose, nel nostro tessuto sociale. Di un uomo che, proprio come il suo Moro, non ha mai avuto paura del cambiamento, del progresso, delle mutazioni del linguaggio, che anzi ha sempre abbracciato e adattato al proprio stile, alla propria poetica, al proprio sguardo inquieto, metodico, ipnotico. Dalla rabbia ingenua ed innocente della contestazione sino alla maturità di un’Italia buia, shakespeariana, psicotica, delirante, messa in croce per volere di pochi (non) eletti, sacrificata sull’altare della dignità, morta ancora prima di aver esalato l’ultimo respiro.
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