TITOLO ORIGINALE: The Northman
USCITA ITALIA: 21 aprile 2022
USCITA USA: 22 aprile 2022
REGIA: Robert Eggers
SCENEGGIATURA: Robert Eggers, Sjón
GENERE: azione, avventura, drammatico, storico
Dopo esser stato uno dei premonitori e promotori della new wave horror, Robert Eggers tenta, con The Northman - suo terzo lungometraggio -, di proporre il proprio mondo e il proprio sguardo agli occhi del grande pubblico, cercando dunque di adattare e far coesistere il proprio stile e la propria idea di cinema con esigenze più vaste ed universali, di far risuonare la propria voce nella grandeur produttiva del blockbuster, di "vivere senza paura" e "osservare come un"... kolossal. Il cineasta abbandona dunque i reami del horror stricto sensu e rimaneggia l’episodio dedicato al principe Amleto, contenuto all’interno del Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, che, qualche secolo più tardi, ispirerà il ben più iconico Amleto di Shakespeare. Peccato soltanto che, nonostante un’innegabile coesione e continuità di corpus, non si possa non riconoscere che quello a cui The Northman si limita è essere soltanto una summa di otto anni di lavoro. Un’opera che, più che implementare, arricchire o discutere, ribadisce, sintetizza, declina e combina quanto già e meglio è stato detto nei due film precedenti del regista.
In una delle primissime sequenze di The Northman, durante una sorta di rito propiziatorio che costringe i suoi protagonisti a retrocedere allo stadio di bestie, il giovane principe Amleth è chiamato a "vivere senza paura" e ad "osservare come un uomo", non più come un bambino. Insomma, a crescere e ad essere pronto, un giorno, a prendere il posto del padre, il re Aurvandil, onorandone sangue e discendenza. Un momento forse premonitore di una tragedia che si compirà qualche istante più tardi, una volta che padre e figlio varcheranno la soglia della caverna teatro del rito e si troveranno di fronte al congiurato Fjölnir, zio di Amleth e fratellastro del sovrano, intento a reclamare il trono e togliere la vita a coloro che potrebbero ostacolarlo in tal senso.
Re Aurvandil viene quindi ucciso sotto gli occhi del piccolo Amleth, che, dato per morto, fugge letteralmente verso un futuro intriso del colore, dell’odore e del sapore del sangue ed un destino che sarà, come lui stesso si ripete, votato a tre dogmi assoluti ed irrinunciabili: “Ti vendicherò padre. Ti salverò madre. Ti ucciderò Fjölnir”. Una missione il cui compimento - lo scopriremo - sarà molto arduo e il cui cammino non privo di svolte inaspettate.
Parimenti, se non più ardua, è la missione cinematografica che guida The Northman, terza pellicola del newyorkese, classe 1983, Robert Eggers, ritenuto da molti (e, sotto taluni aspetti, anche da chi vi scrive) un enfant prodige del contemporaneo cinema statunitense, specialmente in materia horrorifica.
Dopo esser stato infatti uno dei premonitori e promotori della new wave horror a cui stiamo assistendo tuttora, col ristretto, esoterico ed epifanico The VVitch, e averne riaffermato e ribadito la statura con The Lighthouse, un tentativo forse meno riuscito a dispetto degli echi a Dreyer, Murnau e Bergman, ma che può contare su un’ottima rilettura del mito di Proteo e Prometeo e di tutta una tradizione letteraria - da Coleridge a Poe - che vede nel mare un pericoloso amante e lo scrigno di orrori indicibili; il cineasta tenta di prestare il proprio mondo e il proprio sguardo agli occhi del grande pubblico, cercando dunque di adattare e far coesistere il proprio stile e la propria idea di cinema con esigenze più vaste ed universali, di far risuonare la propria voce nella grandeur produttiva del blockbuster, di "vivere senza paura" e "osservare come un"... kolossal.
Nel fare e per fare questo, Eggers abbandona i reami del horror stricto sensu - perché l’orrore permane, in qualche modo - e rimaneggia, con l’aiuto dello scrittore e poeta islandese Sjón, l’episodio dedicato al principe Amleto, contenuto all’interno del Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, che, qualche secolo più tardi, ispirerà nientemeno che Shakespeare per il suo ben più iconico Amleto. Non deve stupire, pertanto, la proverbialità e la scontatezza di una storia di vendetta, onore, morte, tradimento, profezie e destino che appare tale soltanto per questo suo essere archetipica e affondare le sue radici nella leggenda, e che Eggers adatta concedendosi qualche libertà, tagliando e ricucendo qualcosa, tuttavia mantenendone intatto lo spirito (nei dialoghi sontuosi) e la brutalità (nelle crude sequenze di lotta e omicidio).
Per intenderci, The Northman punta più ad essere un Conan il barbaro in salsa shakespeariana, con una spruzzata fantasy che riporta inevitabilmente alla mente La leggenda di Beowulf di Robert Zemeckis, che non alla follia plumbea di Valhalla Rising. Ciò nonostante, queste similitudini non devono farvi credere che Eggers si sia del tutto asservito (per non dire peggio) ad una macchina produttiva da 90 milioni di budget, rinunciando così a fare del film la continuazione di un discorso elevato alla massima forma in The VVitch e reso più enigmatico (e, per chi scrive, banalizzato a favore della forma), in The Lighthouse.
Entrambi i suoi predecessori ponevano, infatti, al centro delle proprie vicende l’idea di un rito di passaggio, o meglio, di un richiamo occulto, indicibile, anche sessuale, da un lato, all’emancipazione femminile e mefistofelica attraverso un ricongiungimento con il mistero della natura (e, di conseguenza, con noi stessi), dall’altro, all’alienata bramosia dell’età adulta, data da una retrocessione allo stadio animale.
The Northman, in tal senso, potrebbe essere considerato alla stregua di una summa dei discorsi già affrontati da Eggers nelle due opere precedenti. In effetti, per tutto il film, vedremo Amleth in una fase di stallo e di attesa continui, in balia delle trame che le Norne hanno intessuto per lui, secondo le quali egli dovrà affrontare Fjölnir ai piedi del vulcano Hekla, le porte di Hel [l’inferno norreno]. Solo una volta tagliato il filo del destino e rispettato il proprio giuramento, questi potrà riottenere la propria identità ed essere figlio di suo padre.
Tutto questo suo tribolare - che lo porterà dai territori dell’attuale Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale (un involontario parallelismo con l’attualità) ai paesaggi brulli, aspri e gelidi dell’Islanda - altro non sarà che un rito di passaggio che, quando arrivato alla sua conclusione, permetterà al nostro, appunto, di “vivere senza paura” ed “osservare come un uomo”. Ciò nonostante, questo discorso non sarebbe compiuto, se per rispettare ciò che altri hanno previsto per lui farlo e così abbracciare il proprio destino, quest’ultimo non fosse costretto a (ri)scoprire, in primo luogo, il proprio legame con la natura e, come sopra, sé stesso, dopodiché, proprio a retrocedere allo stadio di bestia - non a caso, dopo un’importante ellissi, lo ritroviamo vestire i panni del berserkr.
Peccato soltanto che, nonostante un’innegabile coesione e continuità di corpus, non si possa non riconoscere che quello a cui The Northman si limita è essere, appunto, soltanto una summa di otto anni di lavoro. Un’opera che, più che implementare, arricchire o discutere, ribadisce, sintetizza, declina e combina quanto già e meglio è stato detto, sia (e soprattutto) in The VVitch, sia in The Lighthouse.
E, peculiare, non si rivela essere nemmeno l’esperimento di dar forma ad un felice connubio tra pretese seriose e autoriali ed esigenze commerciali di democratizzazione e leggibilità del prodotto, del suo racconto e dei suoi significati. Infatti, dietro l’allure di grande odissea che mette in scena eventi mitologici, vuole parlare il linguaggio dell’epica e dare vita ad una leggenda che si muove per archetipi e valori atavici ed ancestrali, questa volta, mostrando addirittura la divinità, The Northman nasconde una sostanziosità che è molto meno sontuosa e monumentale di quanto vorrebbe farci credere.
Anzi, quello che Eggers riserva al proprio pubblico è più che altro un film che tenta di riparare le sue evidenti lacune, con una messa in scena al solito rigorosa ed elegante che colpisce - malgrado una concezione action abbastanza farraginosa - per l’uso quasi rituale di carrellate, panoramiche e primi piani, e per come reimmagina la notte, un eccelso lavoro filologico di studio e ricostruzione di usi e costumi, delle superstizioni e delle tribalità vichinghe, un production design sorprendente, ed un casting sopraffino (senz’altro il suo aspetto più curato),
Una pellicola, insomma, che, salvo i diversi segmenti onirici e visionari (nel senso di visioni), si accontenta fin troppo del mero aspetto vendicativo, tralasciando tutta una serie di spunti - vedi la femminilità come sopravvivenza o il dramma della guerra che riecheggia certo cinema di Šepit'ko e Klimov - che avrebbero potuto farne un degno, oltre che più interessante e approfondito, tentativo di rilettura e non soltanto un’idea talora abbastanza puerile ed assordante di blockbuster d’autore, dove a contare (aprioristicamente) sembra essere più il nome di chi sta dietro la macchina da presa, rispetto e a discapito di ciò che, viceversa, le sta di fronte.
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