TITOLO ORIGINALE: Occhiali neri
USCITA ITALIA: 24 febbraio 2022
REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento, Franco Ferrini
GENERE: thriller, poliziesco, giallo
Dieci anni dopo il disastroso Dracula 3D, il maestro del brivido italiano Dario Argento torna dietro la macchina da presa di un nuovo giallo che vede per protagonista una escort di alto bordo che dovrà sfuggire alla furia di un serial killer vendicativo. Ripartendo dal meraviglioso L'eclisse di Michelangelo Antonioni e dal suo Tenebre, un Argento inedito, mai così personale, dimesso e tenero mette in scena una propria personalissima ed esistenziale esigenza di rimediazione della propria posizione (geografica e artistica) all’interno di un genere, di uno spazio e di un cinema che non solo conosceva, ma che ha pure contribuito a designare ed insieme sovvertire a modo proprio. Mai film di Argento è stato e sarà così divisivo come Occhiali neri. Così tanto che si potrebbe pure pensare che il vero, eccezionale e sconcertante mistero della pellicola sia di fatto questa sua capacità di scindere i propri spettatori sulla base dell’approccio, delle volontà e delle aspettative che ciascuno di loro si pone e si porrà, ancor prima di entrare in sala. In una perfetta metafora del presente, il film di Argento fa (ri)scoprire il brivido di dover scegliere da che parte stare.
La zona dell’Eur con i suoi caratteristici monoliti di cemento, i palazzoni. Quei pini marittimi così fuori luogo...
Questa zona di Roma, Diana, escort di alto bordo spigliata e spregiudicata, la conosce bene. E la conosce altrettanto bene anche Dario Argento, che, tra quelle strade e quei palazzi, ha girato Tenebre, uno dei suoi film più belli.
Eppure, a ritornarci e percorrerle in auto, quelle vie, Diana si rende conto che forse ha perso il senso dell’orientamento, i propri punti di riferimento. Anche le persone che incontra e vede intente, sui balconi o per strada, ad osservare fervidamente qualcosa che sembra provenire dal cielo (saranno gli alieni?), le sono sconosciute.
Spaesata. Alienata. Frastornata. Persa. Estranea. Come, d’altronde, lo è pure Dario Argento. Spaesato. Alienato. Frastornato. Perso. Estraneo. E - aggiungerei - del tutto distaccato e disconnesso dalla realtà che lo circonda, dalla romanica giungla urbana (come sempre ha rappresentato la sua città natale) e dai suoi abitanti, fissi a guardare… cosa? Un’eclisse.
L’eclisse. “Una scommessa folle: presentandoci dei personaggi "inattivi", alla deriva in paesaggi vuoti, il regista ci invita a scoprire le tempeste che si agitano all'interno dei personaggi” scriveva Alain Resnais a proposito della pellicola omonima di Michelangelo Antonioni, capitolo conclusivo della sua trilogia esistenziale, anch’esso ambientato nel silenzio di quelle architetture siderali e razionaliste, tra le quali si faceva largo un’irrazionale razionale, un’assurdo spiegabile soltanto se disposti ad andare oltre, più in là.
Un’eclisse di sentimenti, quella del film di Antonioni, a cui è del tutto imparagonabile l’eclisse dei sensi, della percezione fenomenica che colpisce la nostra Diana in Occhiali neri, l’ultimo brivido del maestro (italiano del brivido) Dario Argento, che torna dietro la macchina da presa a distanza di dieci anni dal disastroso ed inqualificabile (all’unanimità, signor giudice) Dracula 3D - lì si trattava dell’eclisse di una carriera invece. Diciamo quindi che la paura era tanta per il ritorno di un “vecchio del cinema”, la cui carriera, specie solcate le porte del millennio, è stata segnata quasi esclusivamente da mezzi, se non completi disastri [i titoli li conosciamo: Non ho sonno, Il cartaio, La terza madre, Giallo e il già citato Dracula 3D].
Prima di continuare però, raccomandiamo a tutti color che sperassero di ritrovare, in Occhiali neri, il guizzo e la genialità del firmatario di Suspiria, Profondo rosso, Inferno, Tenebre, Phenomena, di scendere subito, altrimenti potreste farvi più male di quanto pensiate. Per tutti gli altri, state nei paraggi, magari scoprirete un Argento inedito, mai così personale, dimesso e tenero. Non di carne (nonostante non manchi affatto), ma di spirito (e no, non ha a che fare con qualche rito esoterico o presenza fantasmatica).
Difatti, con Occhiali neri, Argento sembra quasi seguire i passi di un altro gigante del calibro di Clint Eastwood, il quale, nel suo ultimissimo Cry Macho, fa pace con un fantasma del proprio passato (il romanzo omonimo di N. Richard Nash), dando vita, insieme al sodale Nick Schenk, ad un racconto-non racconto, al contempo disperato e confortante, attraverso cui il cineasta - anche in seguito alla delusione dell’esperienza trumpiana - problematizza e mette in discussione tutte le proprie convinzioni ideologiche e politiche, ancor prima che cinematografiche. Un film, Cry Macho, in cui il conflitto, la tensione e la narrazione vengono messi praticamente in secondo piano, a favore dei singoli momenti, delle pause, degli intervalli, dei dialoghi che muovono ed animano i personaggi in questo viaggio apparentemente banale e pleonastico.
Una visione, quest’ultima, della quale Argento si appropria in Occhiali neri per raccontare una propria personalissima ed esistenziale esigenza di rimediazione. A differenza di Eastwood però, i fantasmi con cui il maestro capitolino deve qui fare i conti sono ben più di uno, anzi sono un intero periodo della propria filmografia, del quale egli stesso, in uno slancio di inaspettata umiltà, ma grande consapevolezza, riconosce i limiti.
In tal senso, attraverso le disavventure di Diana (una Ilenia Pastorelli col giusto fisic du role, ma non sempre in forma smagliante) - che, nel fuggire dalle mire di un violento serial killer di prostitute, rimane coinvolta in un gravissimo incidente automobilistico, nel quale perdono la vita i genitori di un bambino cinese, Chin (che prenderà poi in custodia), e in cui lei stessa perde l’uso della vista -, Argento (il cui l’alter ego, come scrive sapientemente Pier Maria Bocchi, è proprio la stessa Diana) si priva di uno dei tratti caratteristici del proprio cinema - e del cinema thriller in genere, dal fondamentale (Ti piace) Hitchcock(?) in giù -, ovvero la molteplicità e arbitrarietà dello sguardo.
Se non proprio alle proverbiali soggettive dal punto di vista dell’assassino, pensate soltanto alle volte in cui il capitolino si è divertito a posizionare, pure ad inizio film o nella prima sequenza di omicidio (il caso di Profondo rosso è il più eclatante, in questo senso), un dettaglio difficile da cogliere, ma che, una volta intercettato, fornisce già un tassello chiave, quando non la vera e propria soluzione all’enigma posto in essere. Un dettaglio che il nostro occhio potrà (e spesso vorrà) vedere o meno, ma a cui è sempre e comunque legata una possibilità, un’intenzionalità, un'ambiguità.
Ebbene, nel privare la propria protagonista del dono della vista, abbandonandosi pertanto al nero - tratteggiato, a sua volta, dalle numerose e costanti dissolvenze a nero, che regalano al film un’atmosfera plumbea, allucinata, irreale -, così come fece ne Il gatto a nove code o nel succitato Tenebre; Argento pone in secondo piano l’intrigo, l’intreccio thriller e i risvolti narrativi (tra i più ridicoli, scontati e puerili della sua filmografia), al fine di riflettere, rivedere, rimisurare e rimisurarsi, riscoprire, rimediare e ridefinire, attraverso una peculiare ricomposizione spaziale, di immaginario e riferimenti - la protagonista e il regista, in sincrono, ripercorrono infatti una sorta di galleria di luoghi, oggetti, idoli e temi dell’universo argentiano -, la propria posizione all’interno di un genere, di uno spazio e di un cinema che non solo conosceva(!) tanto bene (così come la zona dell’Eur), ma che ha pure contribuito a designare ed insieme sovvertire a modo proprio.
Tuttavia, questo cammino di pacificazione redentrice e problematica, sensibile a quell’assurdo spiegabile di cui sopra, ma anche ad una leggera ed inedita punta di tenerezza, dolcezza e patetismo che si risolve infine in un’inquietudine esistenziale; Argento, non lo può affrontare da solo. Ecco allora che, allo stesso modo di Diana - che necessita del bastone per non vedenti, di un cane accompagnatore (un più che probabile rimando allo scimpanzé di Phenomena), di Chin e di Rita, interpretata da una Asia Argento accogliente e consolante, che, nel film (e non solo), è casa, calore, amore e comprensione -, Occhiali neri ha bisogno, più di ogni altra cosa, della fotografia puntuale e funzionale di Matteo Cocco e delle ottime musiche di Arnaud Rebotini per concedere al pubblico qualcosa in cui credere e in cui sperare, ovviamente, invano.
Mai infatti - è bene ribadirlo - film di Argento è stato e sarà così divisivo come questo. Così tanto che si potrebbe pure pensare che il vero, eccezionale e sconcertante mistero della pellicola sia di fatto questa sua capacità di scindere i propri spettatori - tra calorosi estimatori e veementi oppositori - sulla base dell’approccio, delle volontà e delle aspettative che ciascuno di loro si pone e si porrà, ancor prima di entrare in sala.
Allora, per chi vorrà, Occhiali neri regalerà non tanto il brivido della tensione, ma farà (ri)scoprire a tutti il brivido di dover decidere da che parte stare. E, con tutte le accortezze del caso, direi che non esiste parabola del presente più esatta di questa.
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