TITOLO ORIGINALE: Evolution
USCITA ITALIA: 27 gennaio 2022
REGIA: Kornél Mundruczó
SCENEGGIATURA: Kata Wéber
GENERE: drammatico
Diretto da Kornél Mundruczó e scritto dalla moglie Kata Wéber, già autori di Pieces of a Woman, prodotto di nuovo con la benedizione di Martin Scorsese, Quel giorno tu sarai (in originale, il più eloquente e significativo Evolution) mette in scena un’evoluzione, uno sviluppo, una rimessa in discussione e lucida saggio-analisi dell'Olocausto attraverso il tempo, lo spazio e il contesto sociale. Un film che si apre con una delle rappresentazioni meno didascaliche, pedanti, pietistiche, melense, patetiche, sleali, e dunque con una delle migliori, più truci e coinvolgenti sintesi visive e cinematografiche della tragedia della Shoah forse degli ultimi vent’anni, riesce, in ciò in cui il precedente Pieces of a Woman aveva fallito, dando sostanza ad uno sforzo tecnico impressionante, mostrandosi continuativo nella qualità ed evitando tutti i soliti, proverbiali ed immancabili vizi delle pellicole costruite cinematograficamente attorno ad uno sforzo tecnico, come può essere la scelta di girare tutto in uno o più pianisequenza. L'esemplare più smaccato ed estremo di un cinema irrequieto, virtuoso e corporale che ci ricorda come, per spegnere il fuoco dell’odio, dell’intolleranza, del razzismo, sia necessario ritrovare una connessione fisica, di corpi e accendere il più intenso fuoco dell'amore.
Da principio, il nero, il buio, l’oscurità, segni di inconsapevolezza o di genesi(?). Poi una porta che si apre, lasciando entrare un mesto e raggelante fascio di luce in quella vastità oscura, che si rivela essere una stanza o, per meglio dire, un soffocante e sotterraneo cubo di cemento; e permettendo così allo sguardo del mezzo cinematografico di affacciarsi, di carpire, di registrare, di produrre uno strascico di realtà.
Dopodiché, dentro quella stanza, uno dopo l’altro, entrano tre uomini, che iniziano a pulire, spargere alcol, ramazzare questo piccolo spazio, con fare precipitoso e trafelato e sempre maggior foga ed intensità, quasi volessero occultare a qualcuno che sta fuori da lì, di sopra, ciò che di sudicio e sordido si è consumato lì dentro. Ad un certo punto però, da alcune crepe nei muri, gli addetti iniziano ad estrarre ciocche di capelli. Ciocche che diventano, di volta in volta, sempre più folte, sempre più lunghe, e che chi scrive ha interpretato quali sintesi visive eccellenti della malvagità, della tragedia e della morte che si è perpetrata in quella stanza. Oppure ancora in qualità di residui e testimonianze di un male intollerabile che spinge per venir fuori, che trasuda dalle pareti finanche dalle condutture e si dimostra sempre più ingombrante, praticamente impossibile da occultare.
In tal senso, di fronte a questo barlume di coscienza e consapevolezza, il trio di uomini inizia pian piano a perdere la testa, a scontrarsi con l’incredibile ed angosciante ferocia dell’essere umano, mentre, attorno a loro, la stanza inizia quasi a disfarsi, a collassare su sé stessa, sotto il peso di una tragedia che sta per venire alla luce e cambiare per sempre la natura e la storia dell’umanità.
Il tutto culmina infine nel pianto di un neonato: il prodotto di quell’infame atto umano che poi si scoprirà essere frutto di premeditazione e di intenzioni ben precise. Neonato che viene tirato fuori dalle viscere e dal grembo segreto della stanza e di quel fatto disumano e, così come la consapevolezza di quest’ultima, portato fuori, svelato, esibito a tutti - lì presenti e non. Quel neonato, che - come anticipato dal nome che campeggiava su quel buio iniziale - scopriamo essere una bambina di nome Éva, viene poi caricata su un sidecar da alcuni funzionari della Croce rossa polacca (lo si può intuire dalle uniformi, ma ci verrà specificato in seguito), che la macchina da presa segue per poi librarsi sulla veduta di quello che culturalmente ed immaginariamente intendiamo essere un campo di concentramento nazista (scopriremo poi trattarsi di Auschwitz), concentrandosi più che altro sulla quantità di strutture identiche tra loro, e lasciandoci anche solo stimare quante stanze simili esistano in questo posto ed insieme intuire, (ripetiamo) solo attraverso l’immagine, la portata del fatto di cui quella bambina e quei capelli non sono che indici funebri, gravi ed eccezionalmente corporei.
Così: con un segmento che sembra estrapolato da Va' e vedi di Klimov; con una delle rappresentazioni meno didascaliche, pedanti, pietistiche, melense, patetiche, sleali, e dunque con una delle migliori, più truci e coinvolgenti sintesi visive e cinematografiche della tragedia della Shoah forse degli ultimi vent’anni; ma anche, parafrasando Pier Maria Bocchi, con la riprova che il recente cinema d’autore [vedi La scelta di Anne] sta trattando meglio l’horror - con particolare attenzione al filone body - del cinema horrorifico propriamente detto, si apre Quel giorno tu sarai, il nuovo film diretto dall’ungherese Kornél Mundruczó e scritto dalla moglie Kata Wéber, già autori di Pieces of a Woman, prodotto di nuovo con la benedizione di Martin Scorsese.
Ed è incredibile, assurdo, quasi impensabile che, dietro una pellicola del genere, vi siano gli stessi autori di quell’opera ruffiana, pretestuosa e retorica, sia regno incontrastato di una sofferente e fastidiosa Vanessa Kirby, sia esatta dimostrazione di come mandare alle ortiche un incipit di grande cinema, per intensità e virtuosismo tecnico. Se solo non fosse che Quel giorno tu sarai, in pratica, fa quello che Pieces of a Woman avrebbe dovuto - ovvero dare una sostanza ad uno sforzo tecnico impressionante ed essere continuativo nella qualità - ed è bravo inoltre nell’evitare tutti i soliti, proverbiali ed immancabili vizi delle pellicole costruite cinematograficamente, per l’appunto, attorno ad uno sforzo tecnico come può essere la scelta di girare tutto in uno o più piani sequenza.
Scelta e approccio, questi ultimi, che Mundruczó ha dimostrato di saper padroneggiare già nel succitato Pieces of a Woman, ma che qui vanno oltre il mero esercizio spettacolare, al di là di un impegno e di una fatica opportunamente dissimulati, assumendo connotazioni teoriche ricorrenti e ben più recondite. A partire infatti dallo sceneggiatore, scrittore e giornalista Cesare Zavattini e dalla sua idea di pedinamento del reale come autosufficienza e dipendenza espressiva, da parte del mezzo cinematografico, nei confronti della realtà e dei suoi componenti autentici, Quel giorno tu sarai arriva ad affacciarsi sull’esemplare più smaccato e talora estremo di un cinema irrequieto, impacificato, sempre alla ricerca dell’atto e della presenza vitale, che fa del corpo, dei suoi equilibri, squilibri, respiri e sovraccarichi, unioni e divisioni [fondamentale, a tal proposito, l’uso del fuoricampo], le componenti essenziali e decisive di una costruzione evidentemente performativa (che qui sfiora i lidi del musical), artificiosa, finta, per l’appunto costruita, e pertanto puramente cinematografica. Aspetti, questi ultimi, che, per Mundruzcó, costituiscono l’unica e sola via per trasmettere il travaglio, la sofferenza e l’oppressione dell’animo e natura umana.
Insomma, il cineasta - assistito in fotografia da un imprevedibile Yorick Le Saux, che, in alcuni passaggi, sembra addirittura sfidare le leggi della fisica, proiettando la macchina da presa verso traiettorie impensabili - architetta tre piani sequenza (e mezzo), ognuno incentrato su una delle tre differenti generazioni di una famiglia ebrea e sul confronto di ciascuna di esse con (prima) la realtà, (poi) il ricordo ed (infine) il retaggio dell’Olocausto; ognuno avente a che fare con un genere e atmosfere ben precise (rispettivamente horror, dramma psicologico e metafisico, coming of age/musical); ognuno intitolato con il nome di uno dei tre diversi rappresentanti di queste generazioni: in ordine, la nonna Éva (una Lili Monori destabilizzante), la figlia Léna e il nipote Jonas (la rivelazione spontanea ed acerba che è Goya Rego).
Motivo, quest’ultimo, per cui crediamo fermamente che il titolo originale del film, Ev(a)olution, sia decisamente più eloquente e significativo. Quello che Mundruczó e moglie mettono in scena (ispirandosi, a detta loro, ai vissuti delle loro famiglie) è infatti niente più che un’evoluzione, uno sviluppo, una rimessa in discussione e lucida saggio-analisi dello stesso argomento attraverso il tempo, lo spazio e - specie nel caso del terzo ed ultimo capitolo - il contesto sociale.
In tal senso, dopo aver fatto i conti e aver sbattuto a muso duro con la tragedia storica nel primo segmento, già descritto pedissequamente in apertura, Quel giorno tu sarai opta per un proseguo tematico ed argomentativo apparentemente più sommesso nella graficità, non fosse per qualche dettaglio escrementizio evitabile - e non per un qualche oltraggio al pudore, bensì per un’estremizzazione, a nostro parere eccessiva, della poetica del tour di force corporeo alla base del cinema mundruzciano.
In questi termini, nel frammento dedicato alla figlia Lena - il secondo -, la parola, il ricordo, i dubbi, le sovrapposizioni, i lapsus, la diffidenza, l’identità; in poche parole la necessità di riafferrare la propria storia per capire le proprie scelte esistenziali e decifrare invano un presente sfuggente; la costante ricerca insensibile di prove di ciò che si è e di ciò che si è stati sono la summa dialogica disarmante, burrascosa, travolgente di quasi 60 anni di storia.
Viceversa, il terzo capitolo, quello con protagonista Jonas, ragiona, come sopra, sugli spettri presenti e attualissimi di un passato non ancora metabolizzato a dovere, ora reincarnato nel virus della xenofobia e della discriminazione, e sulla non accettazione mimetica delle proprie radici (basti pensare all’irrefrenabile necessità di mascherarsi da parte del protagonista).
E se, nel primo segmento, la claustrofobia di quella stanza degli orrori viene sollevata dall’uscita all’aria aperta e, al contempo, sminuita dalla constatazione di un orrore ben più esteso, nella storia di Léna, alla sovrabbondanza e divagazione del flusso di coscienza della madre, assetata di ricordi delle proprie origini e della propria essenza, corrisponde un allagamento dirompente e spropositato che travolge il presente e, con esso, la figlia. Discorso diverso è quello riguardante il segmento conclusivo, porta che riflette e conduce lo spettatore nuovamente alla realtà presente, tangibile, sensibile e al suo inquietante contesto socio-culturale, spalancato a reintegro e riproposta, quasi in un impeto nostalgico e sotto forme diverse, dei più tetri pezzi di storia.
In questo caso, attraverso un parallelismo forse fin troppo didascalico, Mundruczó e Wéber ci ricordano che, per spegnere il fuoco dell’odio, dell’intolleranza, del razzismo, basta ritrovare una connessione fisica, di corpi (la stessa privata per tutto il corso della pellicola) e accendere un fuoco più intenso. Quello dell’amore innocente, puro, incondizionato.
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