TITOLO ORIGINALE: L'Événement
USCITA ITALIA: 4 novembre 2021
REGIA: Audrey Diwan
SCENEGGIATURA: Audrey Diwan, Marcia Romano
GENERE: drammatico
PREMI: Leone d'oro al miglior film alla 78ª edizione del festival di Venezia
Vincitore del Leone d'oro al miglior film alla 78ª edizione del festival del cinema di Venezia, La scelta di Anne di Audrey Diwan traspone su schermo il romanzo autobiografico di Annie Ernaux, raccontando la Francia del 1963 e la sua morale perbenista attraverso il racconto della scelta di abortire da parte di Anne, giovane e brillante studentessa di lettere. Un'opera che colpisce per la sua capacità di fare tanto con poco e, soprattutto, con sobria e perentoria semplicità. Un film che accompagna ad un ragionamento logico e consonante e ad un uso a dir poco stimolante del mezzo cinematografico e delle sue innate e pure potenzialità espressive, una parabola ed un procedimento concettuale tipici del filone body horror. Un racconto che fa del neonato cinema di Audrey Diwan uno degli esemplari più autentici ed equilibrati, nauseanti e conturbanti, sensibili e carnali attualmente in circolazione.
Fare tanto con poco e, soprattutto, con sobria e perentoria semplicità. Così potremmo sintetizzare l’idea di cinema alla base de La scelta di Anne (in originale, L’Événement), secondo film scritto e diretto dalla sceneggiatrice e scrittrice francese Audrey Diwan, adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Annie Ernaux, recentemente premiato con il Leone d’oro alla 78ª edizione del festival di Venezia. D’altronde, è da un naturale atto meccanico, da un basilare processo biologico, da un qualcosa all’apparenza tanto semplice quanto banale, che prende il via il racconto.
Semplice, banale, naturale come può essere, almeno sulla carta, un rapporto sessuale tra un ragazzo e una ragazza. Quando però quest’ultima - nel caso di Anne, una brillante studentessa di Lettere, con il sogno dell’insegnamento - scopre di essere rimasta incinta suo malgrado, ecco che quel semplice atto si trasforma in qualcos’altro; in qualcosa che porta con sé responsabilità, angosce, conflitti e scelte (appunto) ben più complesse. Se poi questo fatto o, meglio, questo événement ha luogo nella Francia rigida, perbenista e deterministica del 1963, forse l’unica cosa veramente semplice - perché sola via legalmente possibile e socialmente accettata - è tenere il bambino.
Al tempo infatti (lo racconta bene il film della Diwan), scegliere di abortire equivaleva ad un crimine morale, ancor prima che penale, che comportava il biasimo, il rigetto e il pregiudizio incommensurabile da parte di tutta l'opinione pubblica, amici e parenti inclusi. Un vero e proprio oltraggio al pudore che si sostanziava in una condanna per il futuro, i sogni e le ambizioni di centinaia di giovani donne. O, come sagacemente sintetizzato dalla stessa Anne in una delle scene finali de L’Événement, una “malattia che colpisce solo le ragazze, trasformandole immediatamente in casalinghe”.
Scandalo, indecenza, immoralità, indignazione, timore, omertà, Francia, contesto, spazio sociale e culturale, tutti aspetti e sensazioni che Audrey Diwan e il direttore della fotografia Laurent Tangy riassumono - un po’ come fa la loro protagonista con la frase di cui sopra - in una scelta registica e fotografica che colpisce esattamente per la sua “sobria e perentoria semplicità”. Quale modo migliore di un formato Academy 4:3: di per sé ridotto e soffocante, cinematograficamente vetusto; per raccontare al meglio - a partire da un racconto privato, individuale, appunto “ridotto” come le inquadrature - un ambiente retrogrado, integralista, oppressivo, alienante, claustrofobico, talmente intollerante con coloro che sfuggono ai suoi dettami etico-morali, da spingerli finanche alla morte?
È allora partendo da un’intuizione che è innanzitutto cinematografica e poi evidentemente politica che la regista traspone sul grande schermo il racconto autobiografico di Annie Ernaux. Un’intuizione concisa a cui quest’ultima accompagna poi la decisione - pratica, efficiente e dalle precise finalità - di collocare sempre il proprio sguardo e la propria macchina da presa ad un palmo di mano dalla protagonista.
A questo scopo, la Diwan spoglia la messa in scena da tutti i possibili eccessi: la scenografia e i costumi da smaccati riferimenti temporali, la colonna sonora da melodie e passaggi emotivamente fuorvianti, il montaggio da inutili barocchismi; e si fa prendere per mano dalla sublime interpretazione di una magnetica Anamaria Vartolomei, che - proprio perché unico e solo fulcro d’interesse di una macchina da presa fissa ed assuefatta, e di un impianto cinematografico che, così come la Francia del ‘63 fa con Anne, non lascia alcuna via di fuga - per il film, è luce ed ombra, razionalità ed emozione, sicurezza ed incertezza, gioia e dolore. Insieme ed irrimediabilmente.
Il risultato finale, di fatto fedele alle intenzioni originarie di Diwan e soci, consiste pertanto nell’identificazione, nella coincidenza, nella fusione, in un sinergismo totale, di per sé autosufficiente, ma internamente dipendente, tra cinema e corpo, tra obiettivo e protagonista, tra scelta di vita e scelta tecnico-cinematografica, tra denuncia sociale e protagonista, tra Diwan e Vartolomei.
Questo ragionamento logico e consonante e questo uso a dir poco stimolante del mezzo cinematografico e delle sue innate e pure potenzialità espressive (tra cui è obbligo citare pure il lavoro meraviglioso fatto sul sonoro), la regista, in coppia con la sceneggiatrice Marcia Romano, lo fonde ad una parabola ed un procedimento concettuale tipici del filone body horror: la trasformazione e deformazione del corpo di Anne infatti vanno ben oltre i termini di una “semplice” gravidanza indesiderata, di un embrione o del seguente desiderio di aborto ed espulsione di tale corpo estraneo e sgradito, ma arrivano ad implicare e riassumere qualcosa di ancor più profondo e collettivo, come l’impotenza, la costrizione e l’impossibilità di scegliere ciò che è giusto per sé stessi, per il proprio futuro e per la propria esistenza.
Le gabbie, i tabù, le ipocrisie e tutti i lati cancerogeni di una data società - trasponibile e rintracciabile pure al di fuori dei meri confini francesi - trovano così in un corpo che cresce indomito ed incontrollato all’interno di un altro, la rappresentazione esatta della loro dolorosa essenza. E, in uno degli esemplari di cinema più autentici ed equilibrati, nauseanti e conturbanti, sensibili e carnali attualmente in circolazione; ad un cinema a cui basta prendere una posizione e sostenerla fermamente con tutto ciò di cui dispone per scioccare lo spettatore (chi l’avrebbe mai detto), tra i pochi e unici in grado di raccontare gli spazi intimi e la sessualità femminile, l’unica fonte di salvezza per coloro che, da questo stesso sistema, vengono schiacciati.
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