TITOLO ORIGINALE: Ero in guerra ma non lo sapevo
USCITA ITALIA: 24 gennaio 2022
REGIA: Fabio Resinaro
SCENEGGIATURA: Mauro Caporiccio, Carlo Mazzotta, Fabio Resinaro
GENERE: drammatico
Il giovane co-regista di Mine, Fabio Resinaro, continua il suo viaggio negli anni di piombo - iniziato giusto l’anno scorso con il riuscito (ed omonimo) adattamento di Appunti di un venditore di donne di Giorgio Faletti - con Ero in guerra ma non lo sapevo, un'opera che si discosta dal truce e torbido poliziottesco, abbracciando l’idea di un cinema più pulito e rigoroso, dai malcelati intenti didattici e sensibilistici e dall’indubbio formato televisivo, per raccontare la storia del gioielliere, imprenditore e televenditore Pierluigi Torregiani, finito vittima dei PAC dopo essersi difeso da un gruppo di rapinatori. Nonostante qualche brillante scelta registica, l'utilizzo - forse elementare - di alcuni elementi tipici del thrilling ed ottime intuizioni nella scrittura del suo protagonista, Ero in guerra ma non lo sapevo finisce per arenarsi su una sceneggiatura ampollosa e didascalica ed un montaggio talora sovrabbondante e prolisso.
Sembra quasi un controcampo, derivato e debitore, della confessione di Andreotti ne Il divo di Paolo Sorrentino, l’inizio di Ero in guerra ma non lo sapevo di Fabio Resinaro. In questa manciata di minuti infatti, il gioielliere ed imprenditore milanese Pierluigi Torregiani spiega - in un monologo che si rivelerà poi essere solo un metaforico e sfacciato tentativo di persuasione - la sua filosofia, il suo modo d’intendere le cose, la propria famiglia, il proprio lavoro, il proprio paese (non necessariamente in questo ordine).
Per lui, nonostante i tempi difficili, il terrorismo dilagante, le incertezze e le angosce del presente (siamo nel 1979, a dieci anni da piazza Fontana, nel pieno degli anni di piombo), “tutto, alla fine, si può aggiustare”. Il meccanismo può e deve “continuare a girare… è una questione di pesi e contrappesi… io credo che il nostro compito sia quello di caricare la molla per dare l’energia necessaria a far girare il tutto… e se si scarica, dobbiamo fare lo sforzo di ricaricarla”. Il Torregiani invero è un uomo che si sente padrone del proprio tempo. Non a caso il suo studio casalingo riecheggia dei ticchettii di orologi di ogni sorta, non a caso di mestiere fa il gioielliere e l’imbonitore televisivo e - sempre - non a caso passa le sue giornate a riparare e vendere meccanismi perfetti, capaci di regalare delle vere e proprie “esperienze” a coloro che se li possono permettere.
Ad un certo punto però, il meccanismo che regola e ritma la sua esistenza - e di cui egli si è sempre sentito in controllo - si inceppa ed egli entra, suo malgrado, in un altro tipo di meccanismo: quello mediatico, quello della strategia della tensione, quello del terrorismo sovversivo e rivoluzionario che ha tinto di rosso le cronache italiane nel ventennio a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80 del Novecento. Una sera infatti, mentre si trova in un ristorante con la figlia Marisa e alcuni conoscenti, il gioielliere si ritrova vittima di un tentativo di rapina ad opera di un paio di malviventi. Nel vedere “la Marisa” - come la chiama lui - minacciata da uno dei rapinatori, questi decide di disarmarlo, dando il via ad una rissa che provoca la morte di uno di questi aggressori e di un suo amico commensale.
Da questo momento in poi, anche e soprattutto per il modo disonesto in cui la stampa copre la notizia, l’imprenditore inizierà a venire bollato dall’opinione pubblica come un giustiziere, divenendo in poco tempo uno dei target principali dei PAC, i Proletari Armati per il Comunismo, i quali vedono in lui l’emblema di una classe borghese da estirpare. Comincia così, per il Torregiani e la sua famiglia, una letterale discesa negli inferi che finirà con il suo assassinio, da parte di un drappello di terroristi, il 16 febbraio 1979.
Con Ero in guerra ma non lo sapevo, il giovane co-regista di Mine, Fabio Resinaro, continua il suo viaggio nei 70s italiani, iniziato giusto l’anno scorso con il riuscito (ed omonimo) adattamento di Appunti di un venditore di donne di Giorgio Faletti.
Questa volta però, nonostante alle spalle vi sia sempre la co-produzione della Eliseo Entertainment di Luca Barbareschi e di Rai Cinema (come si dice, squadra che vince, non si cambia), l’approccio adottato da Resinaro per trasporre sul grande schermo una vicenda come quella Torregiani: mai approfondita a dovere e tuttora agli onori della cronaca; si discosta dalla rivisitazione del truce e torbido poliziottesco alla Milano calibro 9, per abbracciare viceversa l’idea di un cinema più pulito e rigoroso, dai malcelati intenti didattici e sensibilistici e dall’indubbio formato televisivo.
Questo non significa però che ci troviamo di fronte solo ad un lezioso e pretenzioso docu-film che intende raccontare al suo pubblico una storia di grande importanza storica per questo e quest’altro motivo. Anzi, dietro una fotografia patinata da TV-movie e la maschera da agiografia celebrativa e patetica, Ero in guerra ma non lo sapevo lascia intravedere un grande spirito tensivo tipicamente thriller. Impressione, quest’ultima, supportata dall’uso - forse ridondante ed elementare - di alcuni elementi propri del thrilling (il ticchettio degli orologi, la scelta sempre funzionale delle inquadrature, un ritmo graffiante), da un paio di soluzioni registiche (come, ad esempio, l’utilizzo del tipico scatto dell’orologio) ed argomentative (vedi il discorso appena accennato sulla realtà televisiva del tempo), ma anche e soprattutto dalla scelta di scrivere il protagonista non tanto come una vittima fatalista, quanto piuttosto come un antieroe spavaldo, lascivo, egocentrico, spesso pure insopportabile.
Tuttavia, man mano che ci si avvicina ai titoli di coda, il film finisce per arenarsi su una sceneggiatura ampollosa - che si concentra fin troppo sull’uomo, sul privato e sulla famiglia, dimenticandosi di raccontare il contesto socio-politico e quell’opinione pubblica che critica sin dalle premesse, e non lasciando respirare a dovere le immagini di un Resinaro ben intenzionato, ma che risulta purtroppo costretto - e su un montaggio talora sovrabbondante.
E, purtroppo, questo svogliato arenarsi appare così manifesto, che, ad un certo punto, diventa lecito chiedersi se, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Ero in guerra ma non lo sapevo non fosse la sola messa in scena del fattaccio e la celebrazione del Torregiani uomo (ancor prima che vittima degli eventi) che conduce poi alle immancabili didascalie che riassumono gli strascichi dell'evento.
A salvare in parte la riuscita e l’affabulazione del film ci pensano un Francesco Montanari altalenante e non sempre credibile - specie per l’uso che fa del dialetto e per il modo in cui incarna le frustrazioni del suo Torregiani - ed una Laura Chiatti che supera il collega in bravura, dando vita all’unica figura sfuggente ed affascinante di un testo costantemente impegnato, come il suo protagonista, a dissimulare e dissimularsi. Nel frattempo, in conferenza stampa, Resinaro traccia un parallelismo tra il suo lavoro e l'attualità pandemica, mentre Barbareschi professa la necessità, da parte del mezzo cinematografico, di focalizzarsi su un altro tipo di linguaggio…
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