TITOLO ORIGINALE: L'Arminuta
USCITA ITALIA: 21 ottobre 2021
REGIA: Giuseppe Bonito
SCENEGGIATURA: Monica Zapelli, Donatella Di Pietrantonio
GENERE: drammatico
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2021
Il regista del divertentissimo Figli, Giuseppe Bonito, dirige l'adattamento del bestseller premio Campiello di Donatello Di Pietrantonio con risultati abbastanza amari (e non in senso positivo). L'Arminuta è un film che riesce a coniugare in sé l’emotività patetica, istintuale e talora insopportabile del drammone italiano tradizionale, un’estetica, sì, figlia della visione garroniana di un’Italia verista, cruda e primitiva, in cui i sentimenti lottano per darsi nella loro forma più pura e genuina, tuttavia fondata su un recupero del tutto pretestuoso; ed infine un lavoro di adattamento forzato, pigro ed artificioso, adatto insomma ad una prima serata su Rai 1. Una trasposizione spesso più simile a cine-teatro, adatto alle scuole o agli amanti del libro, ma che sembra essere piuttosto un L'amica geniale che non ce l'ha fatta.
C’è una sequenza de L’Arminuta di Giuseppe Bonito che potrebbe quasi farci credere di star guardando un film dal linguaggio che lavora con il visivo, i non detti e le ambiguità della messa in scena, secondo precise scelte registiche. Il riferimento è al primissimo momento della trasposizione che il regista del divertentissimo Figli produce a partire dall’omonimo ed amatissimo bestseller, vincitore del premio Campiello, di Donatella Di Pietrantonio, in cui, sullo sfondo di un Abruzzo rurale (e non solo) di metà anni ‘70, si dipana la vicenda di una ragazza di tredici anni che viene restituita alla famiglia cui non sapeva di appartenere, assumendo così il soprannome di “arminuta” - che, in dialetto abruzzese, significa letteralmente “ritornata”.
Nel suddetto segmento d’apertura, vediamo una macchina, che deduciamo essere molto costosa parcheggiare di fronte ad un casolare rustico e abbastanza fatiscente, che, con questa macchina molto costosa, ha concettualmente poco a che fare. Da questa macchina, scendono un uomo ed una bambina che, a loro volta, si avvicinano ed entrano nell’edificio. La bambina - che è poi la nostra Arminuta - è vestita in modo prezioso e raffinato, con un vestitino celeste che mette in risalto la sua folta capigliatura del forte ed inconfondibile colore rosso. Pertanto, anch’essa diventa fin da subito una sorta di termine di paragone e di contrasto con la sporcizia e la penuria che la circondano (oltre che - lo vedremo poi in seguito - con coloro che lo abitano, questo ambiente di degrado e miseria, tutti così a lei fisionomicamente diversi). La fanciulla sale poi una rampa di scale - una delle tante a cui Bonito presterà molta attenzione nella rappresentazione del film: la metafora è piuttosto chiara - e va incontro al suo destino e, con esso, alla sua vera famiglia.
Ciò che colpisce di più di tutta questa primissima sequenza è l’abilità che Bonito dimostra nell’introdurre il proprio racconto, solamente affidandosi alle immagini o, più concretamente, ad un’azzeccatissima Sofia Fiore nel ruolo protagonista, ai costumi, alla scenografia, agli oggetti di scena e ad un rigoroso lavoro sullo sguardo, sul corpo, sullo spazio che quest’ultimo occupa e su come lo occupa. Tuttavia, a passare dallo status di testo che racconta così bene senza parole, solo ed esclusivamente con la subliminalità del linguaggio audiovisivo, a quello di parafrasi, solo per il grande schermo, di una tipica fiction RAI (senza nulla togliere al valore dei suoi esponenti più autorevoli e significativi), ci si mette veramente poco.
La vera natura de L’Arminuta si potrebbe già intuire dal grado esagerato di reazione della protagonista proprio in quel primo frammento, dove uno strillo acutissimo riporta istantaneamente chi scrive ad esperienze cinematografiche a lui non proprio affini, tutte di pancia, tutte affidate a liti violente e manesche, a strilli marcati e ripetuti e ad ambizioni perlopiù pretenziose. È questa la caratteristica fondante di una pellicola che riesce a fondere in sé l’emotività patetica, istintuale e talora insopportabile del drammone italiano tradizionale, un’estetica, sì, figlia della visione garroniana di un’Italia verista, cruda, primitiva, arcaica, brutalmente ancestrale e fantastica, in cui i sentimenti lottano per darsi nella loro forma più pura e genuina (nel bene e nel male), tuttavia fondata su un recupero del tutto pretestuoso; ed infine un lavoro di adattamento forzato, pigro ed artificioso, adatto insomma ad una prima serata su Rai 1.
Si ha ben presto l’impressione di trovarsi di fronte ad una rappresentazione teatrale con tutti i crismi e le staticità del caso - dagli interni palesemente ricostruiti, di cui la macchina da presa smania nel svelare i dettagli, allo stesso stile di recitazione di gran parte degli attori protagonisti - del romanzo della Di Pietrantonio, piuttosto che ad una pellicola che avrebbe potuto tradurre le premiate parole dell’autrice in una forma più cinematicamente appetibile ed affascinante, più intellettualmente vivace e più emotivamente fluida e coinvolgente. “Avrebbe potuto”, appunto.
L’Arminuta non appassiona e avvince per come mette in scena e sa toccare la profonda emotività dell’opera da cui è tratto (di cui non riesce neppure a convogliare bene i significati), ma per il pietismo e la compassione provocati dalla recitazione della coppia di piccole attrici protagoniste (di cui bisogna citare anche la graziosa Carlotta De Leonardis), su cui l'istanza narrante calca ripetutamente, e fin troppo furbescamente, la mano.
Ed è un peccato, perché si vede che qualcosa, Bonito, la voleva dire. Basti solo riflettere sul lavoro sensibile e candidamente sessuale che compie sui corpi di alcuni dei suoi interpreti o sul tentativo di condurre un discorso sulla figura maschile - tra cui è d’obbligo menzionare anche quella offerta da un Fabrizio Ferracane di passaggio e dimenticabile, ancora una volta incastrato nel ruolo dell’arcigno di turno. Alla fine della fiera però, la sensazione che permane post-visione è quella di aver assistito niente più che ad un L'amica geniale che non ce l’ha fatta.
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