TITOLO ORIGINALE: Il buco
USCITA ITALIA: 23 settembre 2021
REGIA: Michelangelo Frammartino
SCENEGGIATURA: Michelangelo Frammartino, Giovanna Giuliani
GENERE: drammatico
PREMI: Premio Speciale della giuria alla 78ª edizione del festival del cinema di Venezia
11 anni dopo Le quattro volte, Michelangelo Frammartino torna a rappresentare, come solo lui sa fare, un altro volto della sua Calabria, al crocevia tra storia e leggenda, tra ordinario e straordinario, tra profanazione antropica ed adorazione mistico-ascetica. Il buco è un’imperdibile esperienza multi-sensoriale che ricrea una spedizione persasi nel tempo, ma che aspira pure a qualcosa di più elevato, profondo e subliminale, assorbendo completamente chi guarda in una ricostruzione, a metà tra fiction e docu fiction, che, a sua volta, riafferma il potere del grande schermo, le sue peculiarità audiovisive e tutte quelle emozioni e sensazioni che solo una visione di questo tipo può regalare.
Nell’agosto 1961, un gruppo di speleologi lascia un nord Italia travolto da un benessere ed una prosperità senza precedenti - che vedono in uno degli edifici allora più alti del mondo: il grattacielo Pirelli, poi soprannominato Pirellone; una delle loro principali incarnazioni -, recandosi all’altra estremità del paese (sempre che lo sia, lo stesso paese), più precisamente in un piccolo villaggio sulle pendici del Pollino, per immergersi ed esplorare i 700 metri di profondità dell’Abisso del Bifurto.
“Mai nessuna spedizione speleologica si era recata tanto a sud” ci tiene a precisare Il buco di Michelangelo Frammartino, film - vincitore del Premio Speciale della giuria all’ultima (la 78ª) edizione del festival del cinema di Venezia - che intende appunto raccontare o, meglio, riportare alla memoria un’impresa, per certi versi, impossibile, specie se consideriamo con quali precari e minimi strumenti venne condotta; ed ingiustamente dimenticata.
A distanza di undici anni da Le quattro volte - racconto che seguiva, con pudore e rispetto, le vicende di un vecchio pastore calabrese, dando vita ad un silenzioso lavoro sulla realtà sensibile e sulla nostra percezione di essa -, Frammartino torna a rappresentare - come solo lui sa fare - un altro volto della sua Calabria, al crocevia tra storia e leggenda, tra ordinario e straordinario, tra profanazione antropica ed adorazione mistico-ascetica.
Un’impresa impossibile da compiere, ma anche da ricreare e riproporre cinematograficamente, e pertanto fatta su misura per un regista audace, dalla visione certo antiquata, ma, proprio per questo, unica e sui generis, specie nell’attuale panorama cinematografico nazionale.
Una macchina da presa fissa - che dimostra e concretizza una grande capacità ed un peculiare gusto nella composizione del quadro - ci immette dunque in un mondo che dovrebbe essere Calabria, che dovrebbe essere Italia, ma che invece assomiglia più ad una landa sospesa nel tempo, magica, incontaminata, magnifica, fiabesca, popolata da persone che si esprimono in un linguaggio autoctono, esclusivo, talora selvaggio ed essenziale, appartenente ad un tempo remoto; una dimensione a cui è possibile accedere solo servendosi il mezzo cinematografico e del suo potere intrinseco di (ri)costruzione di spazi e mondi.
Un processo sempre e comunque artificioso, arbitrario e funzionale che tuttavia, qui, al solo contatto con questa magnifica ma parimenti ermetica Calabria degli anni ‘60 sembra annichilirsi, venir meno e darsi invece con una naturalezza insieme silente ed eclatante.
Frammartino asciuga e riduce all’essenzialità, talora quasi annullando, i dispositivi tipici e specifici del racconto e del medium cinematografico, ed elimina con forza e decisione tutto ciò a cui un soggetto del genere avrebbe condotto qualsiasi altro regista. La tensione, la celebrazione dell’impresa (basti vedere con quale semplicità espressiva decide di concluderla) ed un pieno coinvolgimento affabulatorio non sono prerogative de Il buco.
Come tanti altri abili cineasti prima di lui quindi, il calabrese risveglia e richiede una partecipazione attiva da parte del pubblico, a cui spetta il (forse) difficoltoso compito di costruire da sé un racconto, un senso, delle sensazioni ed un significato rispetto a quanto mostrato da una serie di campi e piani, con i quali il regista piega tempo e spazio a favore del proprio sguardo.
Uno sguardo, come detto sopra, desideroso di rappresentare, con fini rievocativi, e ricreare filologicamente una spedizione che si è pian piano persa nel tempo e nella memoria nazionalpopolare, ma che tende ed aspira pure a qualcosa di più elevato, profondo e subliminale.
Basti pensare anche solo l’indiscutibile dichiarazione d’intenti che Frammartino cela dietro l’elemento televisivo - l’unica finestra sull’Italia e sulla società italiana degli anni ‘60 -, dunque alla scelta, da parte dell’istanza narrante, di concentrarsi e contrapporre, alla spedizione del Pollino, una trasmissione di presentazione del Pirellone, con cui, oltre a tracciare un parallelismo (due fatiche erculee ritenute allora praticamente impossibili) ed una distinzione polemica tra le due imprese (una universalmente riconosciuta, l’altra persa nel nulla), il cineasta definisce il ruolo della macchina da presa e della propria visione nei confronti della realtà e di ciò e coloro che la compongono.
Frammartino fa dunque coincidere lo sguardo della macchina da presa con quello di un qualsiasi lavavetri del Pirellone che - come riporta il cronista nello speciale TV dedicato a quest'ultimo, qui riportato come inserto - si diverte a guardare dalle vetrate quelli che lavorano all’interno dell’edificio, tanto da non sentire la pesantezza del proprio lavoro.
È proprio questa infatti la filosofia che definisce la messa in scena de Il buco, dove il cineasta, assistito da un sensibilissimo Renato Berta in fotografia, propone una visione genuina, mai semplicistica o scontata del mondo diegetico, con una funzionale (e vedremo perché) deviazione sul racconto della vita di un pastore del luogo, nella cui esistenza ed essenza il regista penetra con un morboso interesse misto a devozione. Esattamente come il lavavetri di poco sopra.
Inoltre, ai fini dell’analisi, è bene specificare come, a differenza di coloro che teoricamente dovrebbe essere i protagonisti del racconto, gli speleologi, l’unico a cui Frammartino e Berta dedicano una serie di primi piani - rompendo così il permanente e caratteristico distacco ed una contemplazione magniloquente della forza naturale e paesaggistica - è appunto questo allevatore, il quale diventa, di conseguenza - più che un protagonista vero e proprio - il veicolo metaforico e metafisico (evidente, in tal senso, il parallelismo e la connessione che sussiste tra il suo corpo e l’Abisso del Bifurto) del senso ultimo dell’opera di Frammartino.
Come anticipato in apertura infatti, Il buco mette in scena un incontro tra leggenda e storia. La prima è personificata appunto da questo vecchio pastore, talora più simile ad un custode millenario dei segreti e forse anche dell’esistenza stessa di questa cavità sotterranea. Cavità che viene appunto profanata dalla storia e dall’uomo, suo emissario ed esecutore. Quest’ultimo, come nel mito di Prometeo, si intrufola nel luogo del meraviglioso, della creazione divina e naturale, del mistico, in questa specie di dedalo intestinale di un titano o tana di Efesto, per rubare la conoscenza (i misteri di questo Abisso, tra cui la sua profondità) e fare una scoperta unica nel suo genere.
Ad enfasi di questo profondo legame che unisce villano e cavità, tale profanazione, sottolineata anche dall’uso improprio che una coppia di speleologi fa dell’imbocco dell’Abisso (cosa che l’istanza narrante definisce come qualcosa di irrispettoso, ma anche di effimero rispetto alla grandezza della grotta), causa il progressivo decadimento fisico del guardiano che, nel momento del suo crollo psico-fisico, viene raffigurato immerso nel verde, in quella natura che ha promesso(?) di sorvegliare.
In tal senso, potremmo dunque avanzare un’ulteriore chiave interpretativa del senso de Il buco, ovvero il confronto - contestualmente al regime fenomenico e a quel tempo che Frammartino piega e dilata volontariamente - tra ordinario e straordinario, dove il primo è appunto incarnato dalla morte del vecchio pastore, mentre il secondo dalla grotta e dalla sua relativa, magnifica e magnetica immortalità.
Nel caso non condivideste questi tentativi, da parte di chi scrive, di decifrare e trovare la fine del labirinto di ostica ed apparente cripticità del film di Frammartino, potremmo definire Il buco, più semplicemente, come un’imperdibile esperienza multi-sensoriale (guardarlo con la mascherina, a nostro avviso, è un valore esperienziale aggiunto) che assorbe completamente chi guarda in una ricostruzione, a metà tra fiction e docu fiction, che riafferma (altro che Dune) il potere del grande schermo, le sue peculiarità audiovisive e tutte quelle emozioni e sensazioni che solo una visione di questo tipo può regalare.
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