TITOLO ORIGINALE: The Little Things
USCITA ITALIA: 5 marzo 2021
USCITA USA: 29 gennaio 2021
REGIA: John Lee Hancock
SCENEGGIATURA: John Lee Hancock
GENERE: thriller, poliziesco, drammatico, noir
Un ex-detective della omicidi di Los Angeles collabora con il nuovo ispettore capo della sezione per catturare un serial killer di prostitute che ha condizionato e condizionerà profondamente carriera e vita privata di entrambi.
John Lee Hancock (Saving Mr. Banks, The Founder) continua la sua avventura nel thriller poliziesco, dirigendo un noir che fonda gran parte delle proprie speranze di riuscita sul tris di interpretazioni principali. Sfortunatamente, eccezion fatta per un Jared Leto salvifico e, purtroppo, risicato, questo triello interpretativo non riesce a riabilitare le sorti di un intreccio intorpidito ed indolente, puntellato da rari momenti di effettivo ed efficace guizzo tensivo e narrativo, che spesso si abbandona allo stereotipo, al parallelismo becero o alla citazione (per non dire scopiazzatura). Un film (fin troppo lungo) che tenta a tutti i costi di “essere come gli altri” ma che non ci crede quasi mai e, quando sembra farlo, non lo fa mai abbastanza.
Los Angeles, 1990 (ma potrebbero benissimo essere i giorni nostri, non fosse per la tecnologia). L’ex-detective della omicidi, ora vice sceriffo della contea di Kern, Joe “Deke” Deacon viene inviato dal suo superiore al distretto di polizia metropolitano - da cui fu cacciato anni prima - per ritirare alcune prove forensi, vitali ai fini di un processo che si terrà di lì a breve. Tuttavia, una volta arrivato, scopre che non potrà averle immediatamente, in quanto il capo della polizia, nonché suo amico di lunga data ed ex-collega Carl Farris ne ha riordinato un riesame, e, dovendo perciò passare la notte in città, si aggrega al sopralluogo sulla scena dell’ultimo delitto di un misterioso e violento omicida seriale.
Così facendo, Joe fa la conoscenza del nuovo detective capo della omicidi, tal Jim “Jimmy” Baxter, e dà un aiuto significativo alle indagini, rendendosi conto che il modus operandi dell’assassino è molto simile a quello di un serial killer che l’allora investigatore non era riuscito ad acciuffare: le vittime sono tutte prostitute pugnalate a morte ripetutamente e violentemente che, ciononostante, non sembrano aver subito alcun tipo di violenza o abuso sessuale.
Il giorno seguente, lo sceriffo di Kern informa Joe che non vi è più alcun bisogno delle prove per incriminare il sospettato e il poliziotto, per tutta risposta (e ancora turbato dalla nottata appena trascorsa), decide di iniziare a collaborare realmente e proficuamente con il detective Baxter, al fine di catturare il colpevole e porre fine al caso una volta per tutte.
Questa, in breve, la sinossi di Fino all’ultimo indizio (il titolo originale è un ben più adeguato The Little Things), drama-thriller dalle tinte noir, recentemente candidato ai Golden Globes per la categoria di miglior attore non protagonista. E non sbagliereste di una virgola se, già alla lettura di queste poche righe di incipit, avanzaste l'ipotesi di trovarvi di fronte ad un soggetto come tanti altri; ad una trama che non presenta alcun elemento di distinzione o novità rispetto alla miriade di prodotti che caratterizzano il panorama moderno e contemporaneo del genere o che potreste trovare nel catalogo di un qualsiasi servizio streaming [il film esce a noleggio sulle maggiori piattaforme on demand].
Malgrado ciò, sarebbe riduttivo decretare il fallimento di un prodotto come questo solamente sulla base dell’assunto “è uguale a tanti altri” (anche se è proprio questo il perno e il focus della nostra discussione e riflessione a riguardo). Scopriamo quindi sotto quali aspetti Fino all’ultimo indizio mostra il fianco alla concorrenza, rivelandosi per di più carente e deludente, e in quali termini riesce invece a sfangarla e a far centro. Più o meno.
La pellicola è la settima regia della variegata e multiforme carriera di John Lee Hancock e il suo secondo approccio al filone thriller-poliziesco dopo il buon Highwaymen - L’ultima imboscata (2019). Il suo è forse l'esempio emblematico del regista mestierante che, negli anni, riesce a inanellare lavori che, seppur non proprio eccezionali o chissà quanto rivoluzionari, lasciano comunque un segno del proprio passaggio e un buon ricordo nella mente del pubblico. Unitamente a ciò, la filmografia di Hancock integra un fattore di spaziamento tra i generi che rappresenta una sua personale croce e delizia.
Infatti, partendo dallo sportivo Un sogno, una vittoria (2002) e dal western di guerra Alamo - Gli ultimi eroi (2004), passando per il grande trionfo “academico” The Blind Side (2009) con Sandra Bullock, fino ad arrivare alla produzione più o meno recente con i biografici Saving Mr. Banks (2013) e The Founder (2016) ed, infine, i thriller-polizieschi sopracitati, i progetti di Hancock, da un lato, si rivelano essere quasi sempre dei successi al botteghino, dall’altro, non lasciano affatto trasparire la presenza di una mano e di un occhio ben precisi e delineati dietro la macchina da presa. In tal senso, Fino all’ultimo indizio e la sua regia non rappresentano tanto l’eccezione, quanto piuttosto la normalità che conferma la regola concernente una direzione ed una orchestrazione (del comparto tecnico-estetico) pienamente e totalmente asservite all’intreccio e ai suoi fini emotivo-sensazionali.
Una costruzione visiva - quella messa in gioco quivi da Hancock - trasparente ed immediata, silenziosa e laconica, ma comunque sensibile ad influenze e stimoli che diventano riferimento e citazione [da A prova di morte di Tarantino e Duel di Spielberg nelle sequenze iniziali a Seven di Fincher in quelle conclusive] che, nonostante ciò (ma solo in alcuni casi), riesce a condurre un egregio lavoro di conduzione degli attori e di analisi della loro fisicità ed espressività, e ad inserire qualche escamotage d’introduzione o transizione ingegnoso ed inaspettato. Momenti ispirati o inventivi, questi ultimi, tuttavia così marginali e risicati nell’economia complessiva della messa in scena, da impedirci di classificarli e giudicarli come elementi costitutivi e caratterizzanti tanto lo stile del regista quanto quello dell’intera produzione.
Detto ciò, è quantomeno evidente come né la tecnicalità né tantomeno lo stile siano gli ingredienti su cui Fino all’ultimo indizio fonda la propria forza di affabulazione e legittimazione agli occhi del pubblico. Di conseguenza, è bene fare un passo indietro, “dare un’occhiata alle facce” e constatare quale dovrebbe essere la scintilla vera e propria, atta a persuadere prima e ad immergere poi lo spettatore nel film e nel suo racconto. In tal senso, la risposta più immediata, ma anche la più corretta, ci porta sulla via del tris di interpretazioni principali, sulle cui spalle (e volti) si costruiscono non solo la campagna pubblicitaria del prodotto, ma, anche e soprattutto, le speranze di riuscita e riabilitazione di un cast di soli caratteristi intrinsecamente scarso e, di conseguenza, oscurato e limitato in termini espressivi; e, più generalmente, di un film che può contare su poco altro di realmente valido.
Questo triello interpretativo è conteso da un Denzel Washington disarmonico, ambiguo, talvolta inquietante, nei panni del detective Deacon, un Rami Malek - fresco di vittoria agli Oscars per l’interpretazione di Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody - mai completamente convincente o immedesimato nel personaggio dell’altro detective (quello giovane ed inizialmente fiducioso) ed un Jared Leto scavato e malsano, praticamente salvifico - per non dire unicamente valido - e, purtroppo, risicato nel ruolo di Albert Sparma, il principale sospettato degli omicidi. Come potete ben vedere, lo stile e la tecnica non saranno certo pregevoli, ma, in fin dei conti, non lo sono neppure le interpretazioni - malgrado questa loro importanza considerevole ai fini dell’opera e della sua relativa presentabilità. Pertanto, durante la visione (e con particolare riferimento alla prova di Malek, la più debole del trio), si ha quasi l’impressione che nessuno degli attori creda veramente e a fondo in ciò che sta recitando o in colui/colei di cui sta vestendo i panni (vedi l’esperto forense, ridotto a macchietta irritante).
Questa mancata comprensione ed assente ingresso, da parte degli interpreti, nell’interiorità ed intrinsecità dei personaggi e nelle espressioni e sviluppi del discorso è la conseguenza sintomatica di una sceneggiatura - firmata dallo stesso Hancock - intorpidita ed indolente, puntellata da rari momenti di effettivo ed efficace guizzo tensivo e narrativo. Eccezion fatta per le comparsate dell’Albert Sparma di Leto - ironiche e sagaci nei confronti del genere e dei suoi leit motiv; riuscite più per la bravura dell’attore che per una vera capacità di scrittura -, il racconto di Fino all’ultimo indizio procede per inerzia, tentando di delineare (seppur in modo goffo e sconclusionato) il rapporto tra i due detective e le loro rispettive psicologia e nevrosi, ma cadendo in fallo quando si tratta di atmosfere e di credibilità delle vicende.
Seppur strutturalmente convenzionale e calibrato - con tanto di flashback saltuari, doppio twist finale e quel senso di incompiutezza ed irresoluzione tipico del noir -, quella che si dà agli occhi del pubblico è una storia che vorrebbe conformarsi e soddisfare (per non dire scopiazzare) gli standard attuali del proprio filone di appartenenza e appetire un pubblico quanto più esteso, ma che, purtroppo, non presenta alcun elemento sui generis, veramente distintivo o propriamente marcato. Semplificando, la tensione è rara e la sua mancanza tangibile; i personaggi sono spesso appena accennati, quando non affidati a stereotipi o parallelismi proverbiali per nulla entusiasmanti; la sensazione che regna sovrana durante la visione è invece quella di star guardando un film (fin troppo lungo) che tenta a tutti i costi di “essere come gli altri” ma che non ci/si crede quasi mai e, quando sembra farlo, non lo fa mai abbastanza.
Rimanendo in ambito thriller-crime, possiamo affermare con certezza che ormai si è arrivati ad un punto in cui la realtà effettiva e viscerale, la ricostruzione documentaria di fatti realmente accaduti e la cronaca riportata con l’ausilio di fonti, materiali d’epoca e testimonianze dirette di sopravvissuti o esperti riescono a catturare ed affabulare gli spettatori meglio e con maggior guizzo di qualsivoglia messinscena. Il vero, da sempre materiale d’ispirazione della finzione, riacquisisce quindi la propria dimensione primordiale e fondativa, superando, surclassando e vincendo quella stessa finzione che si fa e si è fatta bella alle sue spalle. Assistiamo quindi alla nascita di docu-serie e documentari che, pur adottando forme e modelli propri del linguaggio visuale e del racconto cinematografico-televisivo, mantengono e vogliono mantenere un sentimento tra il conturbante e l’eccitante, favorito dal loro stretto ed esclusivo rapporto con storia e testimonianza, prede e predatori, vita e morte.
Giunti a questo punto, vi starete però chiedendo cosa c’entri questa riflessione con la pellicola di Hancock. Per capirlo, vi basterà sostituire a “vero” anche solo l’ultima produzione docu-seriale true crime di Netflix - dunque titoli come Making a Murderer, SanPa o Night Stalker - e a “finzione” questo Fino all’ultimo indizio. Così facendo, avrete, da una parte, delle produzioni cliniche e metodiche a livello drammaturgico, tese e taglienti, pur trattando vicende su cui spesso sono già calati i titoli di coda; dall’altra, una pellicola insapore, passiva, decadente - di nome e di fatto - ed interminabile che, all’infuori di una fotografia ispirata e di qualche momento d’alta suspense, non fa desiderare altro che arrivino, questi beneamati titoli di coda.
E, in questo caso, non è questione di “dettagli che ti fregano”, per (semi)citare il film. Qui, i difetti sono evidenti. Forse anche troppo. Tornate alle basi e recuperatevi Zodiac di Fincher, che è meglio!
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