TITOLO ORIGINALE: La maschera del demonio
USCITA ITALIA: 11 agosto 1960
REGIA: Mario Bava
SCENEGGIATURA: Ennio De Concini, Mario Bava, Mario Serandrei
GENERE: orrore
Due dottori in viaggio per la Transilvania risvegliano per errore il cadavere della principessa Asa Vajda - condannata al rogo per stregoneria -, scatenando una terribile e sanguinosa maledizione. Il maestro dell’horror all’italiana Mario Bava esordisce dietro la macchina da presa con un'opera che ha fatto scuola e storia, aprendo la strada ad un’intera generazione di cineasti del calibro di Argento, Avati e Fulci. Un comparto tecnico-estetico per certi versi innovativo, ricercato e funzionale sfrutta una sceneggiatura, per contro, abbastanza debole e stereotipata per portare avanti e giustificare le proprie sperimentazioni e i propri slanci espressivi. Un piccolo gioiello di culto qualitativamente imperfetto, ma dalla valenza storica inestimabile.
XIX secolo. Transilvania. Due medici, il dottor Gorobec (John Richardson) e il dottor Kruvajan (Andrea Checchi), sono in viaggio per partecipare ad una convention accademica a Mosca. I due, in estremo ritardo e con ancora molte miglia avanti loro, chiedono al cocchiere di tagliare per il bosco, così da raggiungere più velocemente la locanda in cui passeranno la notte. Pur essendo più celere, tale scorciatoia si rivela essere anche altrettanto dissestata ed impervia e, in men che non si dica, la carrozza subisce un piccolo incidente, costringendo i viaggiatori ad una breve sosta. Per ingannare il tempo, Gorobec e Kruvajan esplorano i dintorni e si intrufolano nella vecchia cripta dei principi Vajda.
Qui, una tomba in particolare cattura l’attenzione dei due scienziati, i quali, colti da una foga di scoperta, finiscono per riportare in vita la principessa Asa. Quest’ultima - condannata qualche secolo prima dall’Inquisizione, insieme all’amante, con l’accusa di stregoneria e sepolta con inchiodata sulla faccia la maschera del demonio - darà il via alla sua personale vendetta, tentando di impadronirsi del corpo della pronipote Katja, fisicamente identica a lei.
Queste le premesse con cui, nel 1960, Mario Bava dà inizio alla sua eccezionale carriera registica, oltre che alla sua influente eredità di maestro del cinema horror italiano. Insieme a Riccardo Freda e al suo I vampiri (1957) - a cui lo stesso Bava lavora come direttore della fotografia e aiuto-regista -, La maschera del demonio è considerato, ad oggi, come il capostipite dell’horror gotico italiano e di tutta la filmografia horrorifica successiva; il film che ha permesso ad autori come Argento, Avati, Fulci, D’Amato e tanti altri di fare il proprio esordio e di realizzare i propri incubi tra gli anni ‘60 e ‘70.
Ancor prima però, all’esordio di Bava va riconosciuto soprattutto il merito di aver educato il pubblico cinematografico italiano all’arte del brivido e del terrore e di aver introdotto e reinterpretato, all’interno di un contesto produttivo e artistico come quello nostrano, elementi, simbologie, modelli e archetipi che non sono mai stati insiti nel sangue culturale del Bel Paese.
Infatti, se si ripercorrono le tappe del cinema italiano dall’avvento del sonoro in poi, è possibile rendersi conto - salvo qualche minima eccezione - della completa e più totale assenza di ogni qualsivoglia tipo di filmografia del fantastico o dell’orrore. Al tempo, mentre negli Stati Uniti il grande schermo era periodicamente invaso da extraterrestri, mostri, vampiri, lupi mannari, fantasmi, mummie, in Italia, l’orrore vero e proprio era prettamente ed unicamente legato alla realtà umana e urbana del dopoguerra. Volto perciò ad un diverso tipo di ribrezzo e raccapriccio e a diversi fini e tematiche. Tuttavia, già a partire dal 1960, con opere come quelle di Bava, inizia a farsi largo, in particolare nelle ormai defunte sale di seconda e terza visione, un immaginario horror che, pur ottenendo più successo e riconoscimenti a livello internazionale che nazionale, darà vita ad una lunga primavera di film di genere.
La maschera del demonio si colloca quindi in quella schiera di horror all’italiana di primo pelo; in quel collettivo di opere che decidono di intraprendere la classicheggiante strada del gotico, influenzati sia dalle produzioni di serie B dei mostri Universal anni ‘50, ma anche da tutta quella tradizione letteraria dell’orrore che va da Il castello di Otranto di Horace Walpole fino a Dracula di Bram Stoker.
Nella fattispecie, il film di Bava prende spunto dalla favola Vij del 1835 dello scrittore e drammaturgo russo Gogol, la quale racconta la storia di uno studente di filosofia che si ritrova a dover fronteggiare le forze del male per tre notti consecutive, mentre officia le esequie e recita le litanie accanto al cadavere maledetto di una giovane donna - tant’è che inizialmente il film si sarebbe dovuto intitolare proprio Il Vij. Tuttavia, la Galatea, casa di produzione della pellicola, ritenne insoddisfacente la prima stesura della sceneggiatura, cosicché, in seguito ad un lungo e turbolento processo di riscrittura, della storia di Gogol si mantennero soltanto l’elemento stregonesco e maledetto e l’ambientazione transilvanica e il titolo venne cambiato nell’attuale La maschera del demonio, per capitalizzare sul successo di produzioni estere come La maschera di cera, 1953 e La maschera di Frankenstein, 1957.
Cosa distingue un regista da un maestro? Sicuramente il non sapersi o volersi accontentare. A tal riguardo, così come per altrettante opere prime o esordi di grandi autori, anche La maschera del demonio presenta un quid che dimostra, fin da subito e fin dal 1960, il glorioso futuro artistico di Mario Bava.
Infatti, un qualsiasi mestierante si sarebbe limitato ad adottare un mostro di successo del cinema statunitense e riportarlo su schermo in maniera tradizionale e fedele. Il cineasta sanremese decide invece di stravolgere l’iconografia e l’eredità del vampiro, rendendo il suo mostro; la “creatura” (o le creature) de La maschera del demonio, un concentrato di elementi tipici e caratteristici del patrimonio horrorifico universale: i poteri e il passato stregonesco (con tanto di condanna al rogo), l’andatura e l’incedere zombesco, la maledizione all’apertura della tomba a mò di Tutankhamon, un leggero pizzico di slasher maniac nell’uccisione del maggiordomo. Tutto ciò concorre alla creazione di una figura fresca, vivace, innovativa ed imprevedibile su cui l’impalcatura filmica basa gran parte della propria affabulazione.
Detto ciò, l’ingegno e le capacità di un autore come Bava non si limitano certo al solo parto di un mostro(i) multiforme e sfaccettato, ma sono ravvisabili anche e soprattutto nel suo stile registico e nella messa in scena del racconto da lui firmato insieme a Ennio De Concini e Mario Serandrei. Invero, già dal suo debutto, il cineasta dimostra un’abilità impensabile e sconcertante non solo nell’arte della macchina da presa, ma pure nell’orchestrazione degli elementi tecnico-estetici. Bava riserva allo spettatore un posto privilegiato da cui assistere e partecipare alle vicende rappresentate. Questi infatti, mediante piani sequenza dalla durata medio-breve estremamente rigorosi e calibrati - poi montati a favore di un ritmo e di una tensione - si ritrova istantaneamente immerso nel ed intrigato dal racconto e dal contesto magico-fantastico illustrato e presentato dalla messa in scena.
Ciò che ne consegue è perciò una regia avvincente, fisica, concreta e viscerale che gioca con lo sguardo e i punti di vista, abbandona definitivamente le vestigia teatrali e l’impostazione statica dei classici Universal e traccia una nuova dimensione dell’orrore - il quale si converte in un qualcosa di ben più putrido, ripugnante e tangibile, arrivando ad anticipare, in alcuni momenti, la fortuna dei successivi splatter e body horror (basti pensare al prologo; nello specifico, alla scena dell’infissione della maschera).
Come se non bastasse, Bava accenna inoltre un primo parallelismo con il cinema erotico - anch'esso, al tempo, in fase germinale -, con cui la stirpe italo-horrorifica successiva avrà molto a che spartire. Infatti, oltre all’orrore in senso stretto, la pellicola fa della mitica ed imperitura interpretazione di una debuttante Barbara Steele - che, grazie a questo film diventerà una “regina del terrore” - il perno attorno a cui si impostano rappresentazione e messa in scena. In tal senso, il lavoro simbiotico di regia e fotografia (anch’essa firmata da Bava) - simile, per l’appunto, a quanto avviene nei film del ben più trionfante filone erotico - punta a fare del corpo dell’attrice un oggetto del desiderio; a donargli una fisicità, uno spessore dicotomico, una carica sessuale sempre presente e tangibile - nonostante i personaggi da lei interpretati, soprattutto quello dell’incantevole Katja, non si abbandonino quasi mai a comportamenti succinti o “sessualizzabili”.
Ancor prima che regista, Mario Bava nasce direttore della fotografia. Questa sua indole naturale e formativa è riscontrabile fin dalle prime sequenze de La maschera del demonio. Esse infatti, oltre ad essere dirette con cognizione di causa e con una caratura tecnica oltremodo profetica, denotano, prima di tutto, una grande personalità ed un altrettanto grande gusto fotografico. Pur essendo l’operatore Ubaldo Terzano il vero direttore della fotografia del film, gran parte delle scelte stilistiche sono da ricondurre alla decisione e all'esperienza di Bava con il mezzo fotografico e le sue potenzialità espressive e semantiche.
La storia vuole infatti che, al fine di competere col Dracula (1958) di Terence Fisher, i produttori chiesero al cineasta di girare il film in Technicolor (a colori). Bava non solo rigettò l’idea, ma scelse di impiegare un bianco e nero personalissimo, dall’impostazione ed espressività ricercata, per certi versi quasi agée, ma estremamente funzionale ed efficiente sia da un punto di vista di registro sia a livello pratico. Invero, un chiaroscuro suadente, sfumato e punteggiato permette al regista di giocare con le ombre, di sfruttare il buio per creare iati, di elevare le pretese e le possibilità drammaturgiche dell’intreccio. In poche parole, di favorire l'espletamento di una serie di artifici ed espedienti a sostegno di una visione illusoriamente veritiera e autentica di orrore e violenza.
In questo mosaico di perizia tecnico-estetica - a cui fanno riferimento una colonna sonora che fa da punteggiatura, una scenografia suggestiva ed una ricostruzione storica azzeccata, nonostante i mezzi limitati; estrinsecazione di una fucina artigianale che diventerà marchio di fabbrica della produzione italiana di genere all’estero -, di innovazione ed ibridazione dei caratteri e di ricercatezza espressiva, la sceneggiatura e il comparto narrativo rappresentano nient’altro che un pretesto per legittimare e dare un contesto al lavoro di sperimentazione ed innovazione svolto dalla controparte formale. Dal canto suo, la sceneggiatura imbastita dal trio Bava-De Concini-Serandrei non è nient’altro che un calderone di luoghi comuni ed archetipi della tradizione horrorifica e non solo [il bacio tra Gorobec e Katja è molto simile a quello tra Biancaneve e il principe nel finale della celeberrima fiaba dei Grimm], tuttavia privo di quel guizzo d’ingegno alla base della costruzione e della caratterizzazione visiva della creatura(e) maligna.
Ciò nonostante e in sua difesa, il racconto de La maschera del demonio presenta comunque un paio di elementi degni di nota, nonché rivelatori della deriva slasher [è il male che si insedia nella residenza dei e colpisce i protagonisti, non il contrario] sperimentata dalla successiva filmografia di Bava - per la precisione da Sei donne per l’assassino (1964) in poi - e dell’innata capacità del sanremese di costruire e permeare i propri racconti con il giusto grado di tensione e suspense. In tal senso purtroppo, dopo un inizio ed uno svolgimento a dir poco insoliti e singolari, il blocco narrativo finale della pellicola, soprattutto se rapportato ad altri capolavori del maestro, inizia a perdere di incisività, tradendo in parte l’anima dell’opera e convertendosi in una lenta ripetizione di dinamiche che non riservano alcuna sorpresa allo spettatore (onnisciente) e conducono pian piano al pressoché ovvio finale.
Capostipite, promotore, padre. Questa la triplice valenza di un film come La maschera del demonio, l’esordio di un regista che, già alla sua opera prima, riesce ad affermarsi come maestro italiano della suspense, del terrore e del mistero. Malgrado si concentri su una dimensione più fantastica dell’horror (quindi, dal sapore più classico e convenzionale) e costruisca un intreccio e personaggi oltremodo pretestuosi e fuorvianti, Bava dà vita ad una creatura che ha fatto scuola e storia, aprendo la strada ad un’intera generazione di cineasti che, grazie all’orrore, sono entrati nel firmamento registico internazionale. Una tecnica razionale, coscienziosa e meticolosa è l’elemento di maggior pregio di una perfetta macchina di tensione che, pur risultando datata, quasi ingenua, in molte sue soluzioni, riesce ad entrare, ancor oggi, nell’immaginario, nel mente e nelle viscere di chi guarda.
Da sola, la maschera del demonio, o, meglio, la sua infissione gettano le fondamenta della fortuna horror degli ultimi 50 anni, influenzando il cinema e la visione di maestri come Argento, Fulci, D’Amato, Lenzi, Burton, Rollin e Franco, nonché la piega violenta che prenderà un filone come quello degli spaghetti western (a cui aderirà anche lo stesso Bava con opere come La strada di Fort Alamo, 1964 e Roy Colt & Winchester Jack, 1970). Purtroppo snobbato dal pubblico e dalla critica nostrana all’epoca della sua uscita - in Italia manca, come affermato sopra, una cultura del fantastico -, La maschera del demonio ha macinato successi ed elogi da pubblico e critica estera, divenendo, col tempo, un piccolo gioiello di culto qualitativamente imperfetto (su questo non ci sono dubbi), ma dalla valenza storica spaventosamente e sanguinosamente inestimabile.
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