TITOLO ORIGINALE: Lockdown all'italiana
USCITA ITALIA: 15 ottobre 2020
REGIA: Enrico Vanzina
SCENEGGIATURA: Enrico Vanzina, Paola Minaccioni
GENERE: commedia
Una moglie e un fidanzato scoprono che i rispettivi partner hanno una tresca e decidono di cacciarli di casa. Questa scoperta coincide, purtroppo o per fortuna, con l’annuncio del lockdown su tutto il territorio nazionale, il quale li costringerà a passare molto tempo assieme. Enrico Vanzina, al suo primo approccio con il mondo della regia, firma una (non) commedia così prevedibile e scontata da poter essere racchiusa in un trailer di 60 secondi. Un pastone noioso, ipocrita e arrogante che, volendo equipararsi alla satira impegnata, finisce per essere soltanto una raccolta irrispettosa di battute imbarazzanti e antiquate.
8 marzo 2020. L’Italia intera entra in pieno lockdown, in seguito all’esplosione di casi di coronavirus su tutto il territorio nazionale. La dichiarazione dello stato d’emergenza, da parte del presidente del consiglio Giuseppe Conte, coglie tutti un po’ impreparati e, tra inquietudini, preoccupazioni ed incertezze, questo obbligo di quarantena suona un po’ come una decisione drastica, volta a risolvere - o fare da palliativo - ad una situazione, già di per sé, abbastanza preoccupante. In questo contesto allarmante, quasi distopico, la risposta della popolazione è molto variegata: c’è chi riscopre hobby e passioni, chi reinventa sé stesso e la propria professione, chi passa tutto il tempo sui social, chi effettua costantemente videochiamate con amici e conoscenti e chi mangia a non finire. Purtroppo però, c’è anche chi vive la tragedia, la malattia e la morte in prima persona: medici, infermieri, volontari, vedovi, figli, nipoti, segnati indelebilmente da un dramma che, sfortunatamente e realisticamente, non può risolversi con dirette su Instagram, “andrà tutto bene” e canzoni cantate e suonate dal balcone di casa propria. Un lutto ed una disgrazia collettiva che coinvolge anche Giovanni (Ezio Greggio), Mariella (Paola Minaccioni), Tamara (Martina Stella) e Walter (Ricky Memphis), protagonisti di Lockdown all’italiana, primo approccio alla regia da parte dello sceneggiatore Enrico Vanzina - fratello del più famoso Carlo, con cui ha firmato grandi classici della commedia all’italiana come Sapore di mare (1983), Vacanze di Natale (1983) e Yuppies (1986).
Scritto e prodotto in tempo record (poco più di cinque mesi), l’opera di Vanzina è stata immediatamente linciata e soggetta ad un ciclone di controversie e critiche - partendo dall’annuncio e reveal della locandina volutamente posticcia e “pecoreccia”, sino ad arrivare al trailer ufficiale (che, ad oggi, conta quasi 10.000 dislike a fronte di soli 1300 mi piace) e alle numerose dichiarazioni in merito e risposte al malcontento generatosi, da parte degli stessi Enrico Vanzina ed Ezio Greggio. Ma non siamo qui per parlare del passato e dei vari <<Un film per non dimenticare>>, << [...] una grande responsabilità>> e <<mi sono ispirato a Chaplin e Carnage>> del primo e <<Le critiche sono state fatte da 4 imbecilli>> del secondo. Siamo qui per parlare della realtà dei fatti e stilare un verdetto su questa pellicola - chiacchierata, discussa e odiata -, che apre (in anticipo) l’annuale ed immancabile tornata di cinepanettoni - che, quest’anno, vedrà forse in Un Natale su Marte di Neri Parenti, con protagonista la sempreverde coppia Boldi-De Sica, uno dei suoi picchi massimi. Personalmente, sono dell’idea che, per poter parlare male di qualunque cosa (non necessariamente di un film o un’opera d’arte), si debba innanzitutto vederla/sperimentarla/viverla in prima persona. Pertanto, ritengo inutile prendersela con un film qualsiasi - in questo caso con Lockdown all’italiana-, basandosi soltanto su un trailer o una locandina promozionale. Bisogna prima vedere ciò di cui si sta parlando e poi esprimere le proprie remore o giudizi a riguardo.
Nonostante questa doverosa premessa, mai come questa volta, mi sono trovato così tanto d’accordo con gli indignati, i “criticoni” e gli offesi che vedevano questo film come il male incarnato. Non voglio addolcirvi la pillola: Lockdown all’italiana è forse una delle peggiori esperienze che abbia mai avuto il dispiacere di vivere in una sala cinematografica; un film - perdonatemi il termine - vecchio, scritto da un’altrettanto vecchia gloria della commedia all’italiana che crede di essere ancora sulla cresta dell’onda, quando, in realtà, ha ormai toccato il fondo (dell’oceano). Vedere il trailer di Lockdown all’italiana equivale alla visione del film intero, in quanto un solo minuto basta a delineare le forme e i paradigmi secondo cui si sviluppano attuazione e racconto della pellicola. Titoli di testa anonimi, nonché indicativi della qualità generale della produzione - accompagnati da un sottofondo che farebbe invidia ai migliori ”temi da ascensore” -, uniti ad una citazione di Jacques Prévert (<<Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro che per dare l’esempio>>) che si pone come palese dichiarazione d’intenti, sono il biglietto da visita di un’impalcatura filmica imbarazzante e scialba che vorrebbe essere molte cose, esaurendosi infine in un nulla di fatto.
Un Enrico Vanzina, come illustrato sopra, al suo primo approccio con il mondo della regia, non provoca che rimpianto nei confronti del lavoro - neanche troppo pregevole ed eccezionale - del fratello Carlo, confezionando una prova dilettantistica e priva di alcun tipo di appeal o mordente. Una macchina da presa statica ed ingessata (oserei dire “prostatica”) dà vita a sequenze - spesso composte da una singola, immobile inquadratura totale che, in certi casi, può durare anche interi minuti - dalla messa in scena amatoriale e ridondante e finalità tutt’altro che nobili o poetiche. Una traslazione visiva basilare e svogliata di un racconto già di per sé scontato ed antiquato ed un’oggettificazione erotico-sessuale reiterata ed indelicata di una Martina Stella interpretativamente fastidiosa sono i fini principali di una regia interamente focalizzata sulla valorizzazione scenica ed espressiva di un ensemble attoriale costantemente diviso fra imbarazzo e spreco di potenziale - composto e completato da un Ezio Greggio che veste i panni di un traditore seriale come se stesse conducendo una puntata di Striscia la notizia ed una Paola Minaccioni e Ricky Memphis ispirati e innatamente divertenti, purtroppo penalizzati da gag e battute veramente agghiaccianti.
Sullo sfondo di uno dei momenti più critici e traumatici della nostra storia, si sviluppa una classica storia di tradimento - da sempre, leitmotiv narrativo dei fratelli Vanzina - che coinvolge due coppie romane. Giovanni (Greggio) è un avvocato e, sposato con l'annoiata e materiale Mariella (Minaccioni), la tradisce con Tamara (Stella), una donna più giovane e attraente ma “periferica”, fidanzata, a sua volta, con Walter (Memphis), taxista sereno e placido. Proprio nel momento in cui entrambi i partner scoprono questa tresca tra l’avvocato e la borgatara, scoppia il lockdown in tutto il paese, costringendo tutti e quattro a convivere, almeno fino alla fine della quarantena. Nonostante un soggetto vagamente interessante e aperto a numerosi spunti di riflessione e a risvolti di trama emotivi o, quanto meno, riflessivi, la sceneggiatura di Enrico Vanzina e Paola Minaccioni opta per lo sviluppo più classico, facile e prevedibile. Gag ripetute fino allo sfinimento e battute elementari e comprensibili anche per l’italiano medio - target di riferimento del film -, basate su giochi di parole, assonanze e volgarità varie (per capirci, un umorismo “da sabato sera con gli amici”) sono la base fondante un film (non) comico che, pur provandoci e riprovandoci, riesce a far ridere soltanto in rare occasioni. Tuttavia, questa risata non è dovuta tanto alla genialità e brillantezza della scrittura, quanto piuttosto alla sopracitata comicità innata del duo Memphis-Minaccioni.
Dimmi che non è vero che io devo rimanere chiusa qui dentro con te.
Mariella (Paola Minaccioni)
Se i difetti si esaurissero alla sola mediocrità del comparto comico, non sarebbe neanche un problema - un’altra commedia italiana scadente da aggiungere alla lista. Sfortunatamente, Lockdown all’italiana non si ferma qui, esagerando e sovrastimandosi. La sceneggiatura di Vanzina non si accontenta del semplice e puerile divertimento del pubblico, volendo essere, allo stesso tempo, satira, commedia impegnata ed esponente di un filone, quello della commedia all’italiana, ormai trapassato - che non rivedrà certo la luce grazie all’approssimativo lavoro del cineasta romano. Lockdown all’italiana sbaglia però la forma, alternando sequenze dalla comicità eccessivamente puerile e rozza, a momenti che vorrebbero indurre nello spettatore una riflessione sulla disgrazia in corso, ma che si convertono ben presto in un qualcosa di ipocrita ed immorale. Semplicemente disgustoso. Non fraintendetemi, la commedia e la satira spesso sono molto più efficaci dei drammi nel trasmettere violenze e disagi e stimolare riflessioni sia sulla contemporaneità sia su ciò che fu (basti pensare ai magnifici Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e La vita è bella (1997) di Roberto Benigni). Ciò che fa la differenza sono le modalità e la perizia con cui suddette osservazioni vengono presentate al pubblico: nel caso di Lockdown all’italiana, attraverso monologhi teatrali e amletici che - trattando tematiche come perdita del posto di lavoro, lutti familiari e crisi economica e sociale - vorrebbero essere sentiti e commoventi, ma che, qualche sequenza più tardi, perdono ogni briciolo di integrità, scontrandosi con “battute” sgradevoli come <<Vorrei morire dall’imbarazzo!/No, di morti ce ne sono già stati abbastanza>>.
Come se non bastasse, Vanzina ha anche la pretesa di accostarsi ed equipararsi a grandi geni e simboli della commedia all’italiana come Alberto Sordi e Vittorio Gassman - mediante riproposizioni di film che hanno fatto la storia del filone, in una sorta di retrospettiva auto-compiacente - e, per sua stessa ammissione, a perle del cinema comico come il succitato capolavoro di Charlie Chaplin e Carnage (2011) di Roman Polański. Ripeto, se i difetti si fossero fermati alla mediocrità delle battute e delle gag, il film sarebbe stato soltanto l’ultimo di una lunga serie di fallimenti. Lockdown all’italiana si configura invece come un prodotto noioso, ipocrita e arrogante che si riduce ad una raccolta di luoghi comuni. Un film che vorrebbe parlare del presente, ma lo fa nel modo più antiquato e sbagliato possibile. Tra attori che fanno finta di scrivere su una tastiera, sequenze inutili ed altre rivolte solamente a compiacere il gradimento testosteronico del pubblico maschile, la pellicola riesce però a trasmettere perfettamente il desiderio di uscita e fine lockdown da parte dei protagonisti. Infatti, così come questi attendono il 4 maggio (termine dello stato di quarantena), anche lo spettatore non vede l’ora che giunga tal giorno, poiché questo implicherebbe automaticamente la fine del film. Che fortunatamente arriva.