TITOLO ORIGINALE: Lacci
USCITA ITALIA: 30 settembre 2020
REGIA: Daniele Luchetti
SCENEGGIATURA: Domenico Starnone, Francesco Piccolo, Daniele Luchetti
GENERE: drammatico, sentimentale
Una storia familiare di rapporti allacciati e slacciati, di verità urlate e taciute sulla scia di un tradimento coniugale. Daniele Luchetti apre la 77esima edizione della Mostra del cinema di Venezia con un dramma all’italiana che, pur prendendo il via da un soggetto classico e ridondante, dimostra una consapevolezza disarmante nell’attuazione e nelle prove attoriali. Mediante una messa in scena prettamente teatrale, il regista dà vita ad un racconto che sa rinunciare alla necessità della parola, cogliendo in pieno l’unicità e la quotidianità della vita umana, con tutte le sue piccole e grandi crepe. Un’opera reale e realistica, frammentata e trasparente, dolente e sconfortante su rimpianto, conseguenze e infedeltà.
Presentato in concorso e film d’apertura della scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia, Lacci è l’ultima fatica di Daniele Luchetti, regista versatile ed eclettico, autore di grandi successi come Il portaborse (1991), La scuola (1995) e il recente Momenti di trascurabile felicità (2019). Adattamento filmico dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone (con cui Luchetti aveva collaborato a teatro nel ‘92 e che qui ritroviamo in qualità di co-autore della sceneggiatura), la pellicola aderisce in pieno ad uno dei leit motiv della tradizione drammatica italiana, mettendo in scena una storia di tradimento matrimoniale che, come prevedibile, si converte nella rovina di un’intera famiglia. Tuttavia, ciò che distingue Lacci da un classico drammone all’italiana, è la forma con cui Luchetti sceglie di raccontare questa storia di lealtà tradite, cuori (e piatti) infranti e peccati indelebili. A tal proposito, emblematico il titolo che, fin da subito, indirizza lo spettatore verso una dimensione e un contesto in cui è necessaria la presenza di un elemento (i lacci, per l’appunto) per tenere unite due parti che altrimenti si scioglierebbero in uno schioccar di dita. La scarpa (e i suoi lacci) diventa così metafora di una relazione che presenta delle incrinature fin dai primi minuti e che, con il proseguire degli eventi, si allenta sempre di più fino ad esplodere e crollare su sé stessa. Posto ciò, c’è da domandarsi se questa rottura sia avvenuta perché - parafrasando una linea di dialogo del film - doveva succedere oppure perché proprio suddetti lacci hanno raggiunto il loro punto di massima tensione?
Un momento gioioso di festa - tratteggiato da una macchina da presa, totalmente focalizzata su dettagli e particolari che rimandano ad un divertimento genuino e collettivo, e da un montaggio ritmato e attento - viene perturbato da una singola espressione che rivoluziona l’intera percezione spettatoriale della vicenda appena introdotta. Un Lo Cascio crucciato e pensoso si trasforma pertanto nell’emblema poetico della regia e dell’impalcatura filmica di un Luchetti estremamente introspettivo, intimo, privato, ma, soprattutto, silenzioso. La sua cinepresa si pone come testimone invisibile di un racconto corale che spesso riesce a rinunciare alla rumorosità superficialmente necessaria della parola, preferendo piuttosto l’incisività di silenzi eloquenti e dagli esiti imprevedibili e di mimica, postura, atteggiamento e gestualità trasparenti dei propri personaggi/interpreti. Il cineasta sceglie di lavorare a stretto contatto con i propri attori e la propria rappresentazione, dando vita ad una sinfonia quotidiana e vitale di corpi, voci, lacrime e risate che soltanto grazie al medium cinematografico - e alla macchina da presa, ovviamente - riesce ad essere colta nella sua unicità, espressività e bellezza intrinseca. Suddetta essenza quotidiana e vitale è, a sua volta, perfettamente racchiusa ed individuabile in ogni singolo dettaglio di questo microcosmo: dall’abbigliamento curato e palpabile alla fotografia completamente votata alla delineazione del calore (umano e non) dei diversi ambienti e, contemporaneamente, dell’interiorità dei singoli personaggi.
Per stare insieme bisogna parlare poco, è indispensabile. Tacere sì, tanto.
Aldo (Silvio Orlando)
Una potenza visiva prima e narrativa poi, quella di Lacci, che, ciò nonostante, non rinnega in alcun modo l’importanza e il valore delle parole, come dimostrato a più riprese da una scrittura fondata su veri e propri macigni verbali. Dialoghi estremamente realistici e fluidi sono portatori e messaggeri di una realtà dolorosa, fatta di cicatrici fisiche e mentali, e di un racconto vibrante e concreto su piccole crepe che, con il passare incessante - anche se apparentemente immobile - del tempo, maturano e peggiorano fino a diventare voragini che non riescono più a trattenere e trattenersi. Questa lenta decadenza - che opera cambiamenti e mutazioni emotive, prima che fisiologiche, negli stessi personaggi - è colta perfettamente da una sceneggiatura che opera una suddivisione della vicenda in due linee temporali (passato e presente) e tre punti di vista (padre, madre, figli) differenti. Tale discontinuità temporale e focale, unita ad escamotage come l’anticipazione, oltre a rendere la narrazione più intrigante e scorrevole, garantisce una partecipazione costante e attiva da parte del pubblico nei confronti degli eventi.
Il peso delle parole, così come la vivezza di quiete e gestualità sono gli aspetti cardine di una messa in scena propriamente teatrale, impostata in ambienti interni che diventano specchio, a loro volta, di un’intimità differenziata e mutevole. Tra rimandi all’euforia del vuoto malerbiana (vedi il romanzo Le pietre volanti) - che qui si converte ben presto in rimpianto - nel frammento dell’effrazione ed un discorso sulla centralità quotidiana dei mass media - che, oltre ad essere la professione del personaggio di Lo Cascio, diventano interferenza, prolungamento e didascalia di quanto rappresentato su schermo -, Lacci si dispiega in tutta la sua forza e umanità, costruendo un ritratto familiare disfunzionale ma, allo stesso tempo, intensamente veritiero.
Pur con qualche difetto ed ingenuità poetica - nello specifico, una tradizionalità fin troppo smaccata di suddetta mise-en-scène ed un finale che tradisce quell’ideale perseverato di non verbosità e trasparenza fisica, imboccando lo spettatore con un confronto fraterno eccessivamente ampolloso e prettamente letterario -, l’opera di Luchetti si configura come un dramma equilibrato e consapevole che basa gran parte della propria riuscita su un parterre attoriale di tutto rispetto ed un comparto tecnico diligente e preciso. Un Luigi Lo Cascio e Silvio Orlando arrendevoli e concilianti ed una Alba Rohrwacher e Laura Morante leonine ed impulsive sono le chiavi di volta di un film reale e autentico, dolente e sconfortante, logorato e logorante, talvolta ironico e pungente. Una storia di cocci rotti e ricomposti, di rapporti infranti e ribelli, di vite allacciate e slacciate, di sole vittime.