TITOLO ORIGINALE: Waiting for the Barbarians
USCITA ITALIA: 24 settembre 2020
USCITA USA: 7 agosto 2020
REGIA: Ciro Guerra
SCENEGGIATURA: J. M. Coetzee
GENERE: drammatico, storico
Un magistrato pacifico e placido, rettore di un avamposto posto ai confini dell’Impero, si scontra con il colonnello Joll e le sue barbarie, a difesa della popolazione nomade della regione. Un dramma storico che, ispirandosi prepotentemente a grandi classici del genere come Balla coi lupi e L’ultimo dei Mohicani, spreca un tris di interpretazioni ottime e intenzioni narrativo-tematiche intriganti, in nome di un’attuazione fiacca e semplicistica e di un comparto tecnico solido, ma fin troppo ingessato.
L’attesa. Un periodo temporale lungo o breve, uno stato d’animo nervoso o eccitante, un’azione volontaria o dettata da una forza e causa maggiore. L’attesa è uno stadio inevitabile nella vita di chiunque, partendo da piccoli eventi come la preparazione del caffè, l’arrivo di un autobus o di un treno, l’uscita di un film; sino ad arrivare ad altri sensibilmente più importanti come la nascita di un figlio, i risultati di un esame oppure l’arrivo di un’imponente tribù di nomadi che potrebbe rovesciare le sorti di un intero impero. Ed è proprio dall’attesa che prende il via (e il titolo) Waiting for the Barbarians, trasposizione filmica dell’omonimo romanzo di J. M. Coetzee a cura del colombiano Ciro Guerra, in lizza per il Leone d’oro nel contesto della 76esima edizione del festival del cinema di Venezia. Il libro prima e il film successivamente raccontano la storia di un magistrato pacifico e placido, prossimo al pensionamento, a capo di un avamposto militare situato ai confini dei territori imperiali. Questa zona di frontiera è la regione nativa dei cosiddetti “barbari” (termine dispregiativo utilizzato dai cittadini dell’Impero), popolazione nomade con cui avamposti come quello retto dal magistrato protagonista mantengono un tacito rapporto di non belligeranza e pacifica convivenza. Un giorno, il calmo e sereno funzionario riceve la visita del colonnello Joll che, ordini imperiali alla mano, gli comunica che ha e avrà il compito di scoprire, più o meno forzatamente, se questi cosiddetti barbari rappresentano una minaccia per la sicurezza del paese. L’arrivo del comandante e dei suoi poliziotti sarà la miccia che innescherà una rottura dell’equilibrio di pace che si era venuto a creare tra le due fazioni e l’attesa lacerante che denomina la pellicola.
Autore dello splendido El abrazo de la serpiente - candidato al premio Oscar per il miglior film straniero -, Ciro Guerra è l’occhio e la mano dietro una pellicola che tradisce aspettative e opportunità, rivelandosi nient’altro altro che un'arida e cocente delusione. Waiting for the Barbarians possedeva infatti tutti gli elementi giusti per spiccare il volo, emozionare ed intavolare una riflessione e discussione stimolanti nella mente dello spettatore: un tris di interpretazioni eloquenti e fenomenali, un ricettacolo di tematiche ed argomenti che si sarebbero prestati ad una contestualizzazione e traslazione attuale e ambientazioni liricamente suggestive. Quello che manca sono, però, una realizzazione ed uno sviluppo pungenti ed ispirati, così come un uso saggio e consapevole di cotanto sprecato potenziale.
Un Mark Rylance riflessivo, pensoso, corrucciato, stanco e arreso, un Johnny Depp che riesce fortunatamente a liberarsi dall'eredità squilibrata lasciatagli da Jack Sparrow & co. - ciò nonostante, il suo personaggio, sia a livello visivo che gestuale, è alquanto appariscente e stravagante - ed un Robert Pattinson presente ma non preponderante sono i veri e propri intermediari tra il pubblico e le intenzioni narrativo-argomentative del film. Tuttavia, tale mediazione è pesantemente afflitta da una caratterizzazione effimera e fin troppo dicotomica degli stessi. Ciò che ne consegue è un contrasto esageratamente archetipico tra bene e male che raramente incontra l’immedesimazione, l’interesse e l’empatia del pubblico. I buoni agiscono e agiranno così perché sono, per l’appunto, buoni, mentre i cattivi sono da detestare perché, neanche a farlo apposta, sono cattivi. La messa in scena e la costruzione narrativa tentano invano di rendere più “umani” questi eroi, annettendo una dimensione morbosa nel rapporto tra il magistrato e la giovane ragazza indigena che, però, trabocca in sequenze ridicolmente ed irragionevolmente grottesche (ne è un esempio il frammento del lavaggio dei piedi).
Sfortunatamente, i difetti di Waiting for the Barbarians si estendono ben oltre la mera gestione dei personaggi, intaccando ed invalidando la quasi totalità della sceneggiatura - firmata, caso più unico che raro, dallo stesso autore del romanzo adattato. Una componente tematica, come affermato sopra, interessante e dalle derive contemporanee - che, se sfruttata a dovere, avrebbe potuto elevare e far emergere l’opera di Guerra - è il centro di gravitazione dell’intero comparto narrativo del film. Seppur con queste premesse, sarebbe però sbagliato non citare l’eredità filmica a cui questa componente fa riferimento. Sto parlando di grandi successi di pubblico e critica come Mission (1986), Balla coi lupi (1990) e L’ultimo dei Mohicani (1992) o, più generalmente, di quella stirpe cinematografica (e letteraria) di eroi caucasici che scelgono di schierarsi e sacrificare la propria vita per combattere l’oppressione e tirannia imposte dalla civiltà occidentale, nei confronti di una tribù indigena nemica o estranea. Via libera dunque a grandi temi come il concetto di violenza (intesa come guerra, vendetta o giustizia), l’odio nei confronti del diverso, una riflessione sulla barbarie - è barbaro chi vive selvaggiamente o chi lo diventa in nome di un bene superiore? - e al contrasto tra razionalità e sentimentalismo, mente e corpo, ordine e umanità, civiltà e primitività. Il risultato è purtroppo tanto allettante quanto semplicistico, a causa, principalmente, di una trattazione e di una traduzione visiva stanca e priva di quel guizzo necessario a differenziare Waiting for the Barbarians rispetto a quella stessa eredità.
Una sceneggiatura che non osa e non riesce ad attualizzarsi, caratterizzata da una superficialità imperante nella delineazione e spiegazione di contesto, ruoli, motivazioni e rapporti di causa-effetto - tradotta in un finale indeciso e castrante che vorrebbe rovesciare i canoni proprio di un Mission e di un L’ultimo dei Mohicani - traccia una generale linea produttiva anche per il parallelo comparto tecnico. Una regia prevalentemente ingessata e reiterata, contraddistinta da forti reminiscenze teatrali e fondata su punti macchina ostentati e ripetuti, dà vita ad una messa in scena che guarda al passato e non si rinnova, parzialmente riabilitata da una fotografia che valorizza delle ambientazioni desertiche, ventose e polverose estremamente suggestive e concilianti per l’occhio. Chiudono il discorso un ritmo altalenante, un montaggio sfilacciato e piatto ed una colonna sonora d’atmosfera, ma profondamente dimenticabile per una pellicola maschile - per non dire maschilista -, antiquata e congelata nel tempo che sviluppa le proprie argomentazioni in modo soggettivo e banale, scontrandosi, suo malgrado, con un’attuazione trascurata, anonima e fiacca e sprecando quasi interamente le proprie potenzialità. Personalmente, i barbari li sto ancora aspettando.