TITOLO ORIGINALE: Sen to Chihiro no kamikakushi
USCITA ITALIA: 18 aprile 2003
USCITA GIAPPONE: 20 luglio 2001
REGIA: Hayao Miyazaki
SCENEGGIATURA: Hayao Miyazaki
GENERE: animazione, avventura, fantastico
PREMI:
1 PREMIO OSCAR per MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE
Hayao Mizayaki, maestro dell’animazione giapponese, dirige per Studio Ghibli uno dei film più importanti ed universalmente riconosciuti del genere. Un design grafico originale e magico di ambienti e personaggi, animazioni fluide ed un concept potentissimo e sviluppato divinamente arricchiscono un racconto di formazione che sfida ogni convenzione, narrando la storia di un’eroina che riesce nei propri scopi soltanto grazie alle proprie abilità. Unico anime nella storia ad aver vinto il premio Oscar, La città incantata è un capolavoro assoluto ed eterno che riesce ancora – a 19 anni dalla sua uscita originale – a far leva sulle emozioni e sulla fantasia di tutti, sia grandi che piccini.
Hayao Miyazaki è un genio. Scusatemi per questo inizio così diretto, ma non posso non appoggiare questa affermazione che, ripetuta ed ostentata da tutti, ormai è divenuta quasi retorica. Lo stesso, nessuna constatazione è mai stata così sentita e sincera. Padre e gotha dell’animazione giapponese, oggi come oggi la figura di Miyazaki è stata elevata al grado di vera e propria leggenda. In ogni lista e classifica dei 10, 100, 100 migliori film d’animazione, e non solo, troverete sicuramente almeno uno dei suoi film. I lungometraggi del maestro, infatti, sono così profondi, prestigiosi e pieni di temi e significati importanti da essere riconosciuti universalmente come film, non solo per bambini, ma anche e soprattutto, adatti ad un pubblico adulto. Fiabe moderne che, sì, possono intrattenere e divertire gli spettatori più piccoli, ma che portano anche alla riflessione quelli più grandicelli. Senza dubbio, la sua creazione più famosa ed amata è, come intuibile dall’argomento della recensione, La città incantata, pellicola che ha incantato e che continuerà ad incantare, ancora per moltissimo tempo, diverse generazioni di cinefili e spettatori da ogni lato del globo. Acclamato all’unanimità dalla critica, esso è considerato difatti uno dei migliori film degli anni 2000 e della storia del cinema. Tra i suoi riconoscimenti, il lungometraggio può contare anche un Orso d’oro (Festival di Berlino) e (caso finora unico nella storia degli anime) un premio Oscar come miglior film d’animazione, vinto nel 2003 – battendo pilastri dell’animazione americana come Disney (che quell’anno aveva, come candidati, Il pianeta del tesoro e Lilo & Stitch), Dreamworks (che presentava, come nomination, Spirit) e 20th Century Fox (con L’era glaciale tra le candidature). La vittoria, se comparata con i prodotti elencati qui sopra – seppur di ottima fattura -, era praticamente assicurata. Infatti, già con i suoi primi dieci minuti, La città incantata di Hayao Miyazaki disintegra completamente i suoi concorrenti. Solo per atmosfere, musiche e disegni, la pellicola di Miyazaki è inscrivibile come tra le opere filmiche maggiori degli ultimi dieci anni.
Ma di cosa parla esattamente La città incantata? La pellicola segue le vicende di Chihiro, bambina di dieci anni, che, con i suoi genitori, si sta trasferendo in un’altra città. Sulla strada per la loro nuova casa, il padre decide di prendere una scorciatoia e i tre si ritrovano di fronte a questo edificio abbandonato e misterioso, la cui entrata non è altro che un lungo tunnel. Gli adulti, presi da un desiderio innato di scoprire cosa si cela all’interno di questo luogo, si incamminano e Chihiro, suo malgrado, è costretta a seguirli per non rimanere da sola in macchina. Il trio superano un fiume in secca e sbucano in una città sfarzosa e colorata, ma altrettanto deserta. Questa cittadina è composta interamente da ristoranti e locali e, su un bancone, i genitori trovano un ricco buffet. Abbagliati da un improvviso appetito, questi iniziano ad abbuffarsi come maiali e Chihiro, dopo svariati tentativi di dissuaderli dal toccare il cibo altrui, inizia così ad esplorare da sola il luogo. Di lì a pochi passi, la bimba scopre un gigantesco complesso di bagni pubblici con l’insegna ABURAYA, collegato alla cittadina tramite un ponte. Su questo ponte, compare d’improvviso un ragazzo di nome Haku che consiglia a Chihiro e ai suoi genitori di andarsene all’istante. Tuttavia, mentre la bambina torna sui suoi passi, la città inizia a risvegliarsi, le luci ad accendersi e il centro a popolarsi di strane ombre silenziose. Chihiro ritrova i suoi genitori trasformati in maiali e si accorge che, ora che la città incantata ha ripreso vita, non riesce più ad attraversare il fiume per tornare alla macchina. La stessa inizia inoltre a rendersi conto di star diventando invisibile. In suo soccorso, arriva nuovamente Haku che le fa mangiare una bacca proveniente dal mondo degli spiriti, rendendo Chihiro nuovamente tangibile e permettendole di rimanere viva anche all’interno della città magica. Questi le spiega in più che l’unico modo per evitare di essere catturata dagli uomini di Yubaba, la potente strega che dirige il posto, è quello di trovarsi un lavoro all’interno dell’impianto termale. Inizia così l’odissea della piccola bambina all’interno di ABURAYA tra incantesimi malefici, nomi cancellati, avvenimenti ed ospiti insoliti, per un’avventura sensazionale, commovente ed immensa targata Studio Ghibli.
Hayao Miyazaki (regista visionario di pellicole ugualmente valide ed immani come Il castello errante di Howl, Il mio vicino Totoro, La principessa Mononoke e Si alza il vento), con questo La città incantata, crea indubbiamente il suo massimo capolavoro . Appena si cita il nome dell’animatore infatti è proprio questo il film che ritorna subito alla memoria – merito certamente anche della vittoria clamorosa della statuetta nel 2003. Prima ancora dell’incipit e della trama in sé, ciò che, fin da subito, colpisce l’occhio, la mente e lo stupore dello spettatore è la grazia e minuzia visiva e tecnica adoperata, da Miyazaki e dal suo team, nella produzione dell’opera, con ambientazioni dettagliate ed equilibrate in ogni loro minimo particolare, un design grafico sorprendentemente originale ed immediatamente memorabile, personaggi potentissimi ed una regia coinvolgente ed appassionante. La pellicola inizia con il classico cliché, già visto e rivisto, della famiglia che si sta trasferendo, della bambina che ripugna e sbuffa di fronte a questa situazione e dei genitori che tentano di farle vedere il lato positivo. Tuttavia, nel giro di pochissimi minuti, la costruzione filmica si ribalta inaspettatamente e la pellicola prende tutta un’altra piega, sprofondando nella fiaba, nel onirismo e nel surrealismo con questo edificio magico, improbabile, ma, allo stesso tempo, così tanto plausibile e ragionevole. Inquadrature vorticose, per non dire vertiginose, ricche di minuzie vive e dinamiche – che un qualsiasi autore di film d’animazione lascerebbe inanimate ed inespressive sul fondo – e volte principalmente all’introduzione ed esplorazione di un incredibile, immaginifico e distopico mondo, arricchiscono un racconto già di per sé inedito ed irripetibile. Prendendo liberamente ispirazione dal romanzo fantastico Il meraviglioso paese oltre la nebbia della scrittrice Sachiko Kashiwaba, il maestro Miyazaki costruisce una storia che inizialmente potrebbe suscitare qualche reminiscenza di capolavori letterari e cinematografici come Alice e il paese delle meraviglie e Il meraviglioso mago di Oz, ma che, proseguendo con la vicenda, prende pieghe sempre più inaspettate ed autentiche.
Travestendo il tutto da racconto di formazione, di crescita, da rito di passaggio, Miyazaki ha l’opportunità di trattare, come da tradizione, tematiche e questioni veramente profonde e stranamente insolite per un prodotto d’animazione – film, quelli animati, incessantemente equiparati e categorizzati, in modo banale, semplicistico e leggermente dispregiativo, a materiale destinato meramente ad un pubblico infantile e giovanile. I film di Miyazaki e, più in generale, dello Studio Ghibli sono gli esempi viventi e tangibili che questa constatazione e valutazione sia un’emerita castroneria e cecità da parte del pubblico generalista. All’interno, per esempio, della stessa (La) Città incantata vengono argomentate questioni ed assunti che difficilmente un bambino piccolo potrebbe comprendere appieno. Società, politica, ambiente, filosofia; la lista di collegamenti e riferimenti al reale, che il film conta tra le sue pieghe, sono praticamente interminabili. Il messaggio di fondo che riveste la quasi totalità dell’impianto filmico costruito da Miyazaki giunge forte e chiaro alle orecchie e agli occhi dello spettatore. I lavoratori di questo pittoresco, rigoroso e labirintico centro termale, una volta entrati in servizio, vengono privati del proprio nome da Yubaba in persona. Chihiro Ogino diventa così Sen. Il nome, se ci si ragiona, è la base della nostra persona, ci definisce, ci distingue dagli altri, è la nostra firma ed il segno del nostro passaggio nel mondo. Così facendo – praticamente cancellando e resettando da capo a fondo l’identità di una persona – la strega cattiva rende tutti uguali, omologati, quasi come fossero modelli usciti da una catena di montaggio (questo aspetto viene sottolineato dalla similitudine visiva che caratterizza i vari operai del complesso), rendendoli così dipendenti e subordinati al suo potere e alla sua figura. Questo aspetto – che, nella pellicola, emerge nei primi 30/40 minuti – è la chiave di lettura principale de La città incantata. Con questa sostituzione e cancellazione identitaria, all’apparenza neanche troppo importante ai fini del racconto, Miyazaki afferma e denuncia palesemente e a gran voce certe derive della società odierna. L’individualità, l’identità sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni, il consumismo, il servilismo, il socialismo, l’omologazione sono temi centrali del film, che Mr. Miyazaki veicola nel modo più efficace ed immediato: quello metaforico e retorico della fiaba fantasy e surreale.
Un’altra tematica estremamente cara, non solo rispetto al film di cui si sta parlando, ma anche e soprattutto, alla poetica dell’opera di Hayao Miyazaki è, senza dubbio, l’ecologismo. Ne è un esempio la famosissima scena in cui tutto lo staff del complesso aiuta Chihiro nella rimozione di detriti e rifiuti che intrappolano ed inquinano il corpo dello spirito del fiume. Analizzandolo da un punto di vista molto più superficiale e lampante, La città incantata – rifacendosi alle già citate Alice dell’opera di Carroll e Dolores de Il mago di Oz – è anche una bellissima ed emozionante storia di emancipazione femminile. All’inizio difatti Chihiro è una bambina spaventata dal mondo e dalla sua vastità (tanto da non aver neanche un po’ di quel senso di esplorazione e scoperta che caratterizza tutti i bambini), sbadata e sconsiderata. Andando avanti con il racconto, anche e specialmente a causa delle prove e degli eventi che le si parano di fronte, la bambina cresce e si evolve drasticamente, dovendo fare affidamento quasi unicamente sulle sue doti ed abilità. Elementi come l’amore e le prime cotte, tipici dei shōjo – ossia, detto terra terra, manga e anime che trattano principalmente tematiche sentimentali -, ricoprono una porzione assai minore nell’economia del racconto, andando a fare soltanto da contorno e complemento ad una femminilità crescente e concreta con cui facilmente ci si immedesima ed identifica. Riferendomi, per un momento, alla versione italiana del film, l’unica nota negativa è rintracciabile – come avviene solitamente per le produzioni Ghibli nel Bel Paese – nella localizzazione ed adattamento, pieno di traduzioni e costruzioni illogiche e disastrose che rischiano di rompere, per un attimo, la magia che si viene ad instaurare su schermo (Cannarsi, sto parlando con te).
Tra citazioni e rimandi alla cultura nazionale giapponese, come quello fatto al teatro No con il personaggio di Senza volto, omaggi alla Pixar, con il lampione saltellone posto all’entrata della casa di Zeniba, ed un’atmosfera costruita in modo certosino ed ispirato, composta da personaggi eccezionali ed una storia che si ritaglia un posto nel cuore di tutti i suoi spettatori, Miyazaki dà vita ad un vero e proprio almanacco di emozioni e magia visiva ed immaginifica. Tutto, dalla magnifica colonna sonora composta, come da copione, da Joe Hisaishi, passando per i panorami suggestivi e visionari, fino ad arrivare ai dialoghi così profondi e trascinanti, fa l’occhiolino ad un modo estremamente viscerale e raffinato di fare animazione. Un’animazione estremamente riflessiva, intima e dalla sensibilità delicata, quella di Miyazaki – in confronto a quella iperdinamica e cinetica di Disney, Pixar & co. -, che eleva questi film a vere e proprie opere d’arte. La città incantata in primis è e sempre sarà parte costitutiva e centrale di questo mondo, quello dello Studio Ghibli, fatto di fantasia e di meraviglie che, dal 1985, ci insegna che è ancora possibile sognare...