TITOLO ORIGINALE: Brot
USCITA ITALIA: 8 marzo 2020
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: thriller
N. EPISODI: 8
DURATA MEDIA: 50 min
E’ ora disponibile, su Netflix, il primo Original islandese. Crime thriller costantemente sul filo del rasoio, con ambientazioni suggestive, una scrittura sommariamente ispirata e forte di grandi atmosfere e grandi suggestioni. Un caso misterioso, oscuro, legato ad un passato sanguinolento, che affonda le proprie radici nel nucleo vero e proprio della società e della politica del paese. Un must-watch per ogni amante del thriller, che sia di Fincher o di Stieg Larsson
Lo squalo fermentato (sono serio), i ghiacci, la neve persistente, i vulcani, il freddo. L’Islanda è terra di stranezze, ma anche di paesaggi fantastici, che sembrano usciti da una cartolina, musica innovativa ed originale e molto altro ancora. Da venerdì scorso (13 marzo n.d.r.), l’isola, sperduta nel limite settentrionale dell’oceano Atlantico, è divenuta anche terra di misteri ed omicidi o, meglio, di una serie televisiva, incentrata su questi due temi. Una serie originale Netflix, la prima islandese sul catalogo streaming, per l’esattezza. I delitti di Valhalla, la cui uscita sulla piattaforma pare essere passata leggermente in sordina, vi stupirà sotto diversi punti di vista. Nonostante l’approccio tecnico e narrativo sia abbastanza affine alle produzioni hollywoodiane ad alto budget e ad alcune europee, si nota una mano ed un’estetica veramente particolari e distanziate da ciò a cui siamo abituati, che urlano Islanda da tutti i lati. Le persone dicono che l’Islanda sia il paese più pacifico del mondo. L’Islanda è, appunto, il paese del ghiaccio e del fuoco (perciò, non esiste solo Westeros). Un territorio in cui le luci del nord illuminano ed arricchiscono il cielo. Tuttavia esiste un’altra Islanda. Un paese che, a causa del proprio paesaggio, contemporaneamente minaccioso e mansueto, potrebbe sembrare anche un territorio naturale di segreti, oscure verità e crimini efferati. Ed è proprio questo il focus centrale de I delitti di Valhalla. In una delle banchine del porto di Reykjavík – la capitale del paese -, viene ritrovato il cadavere di un uomo. Il corpo presenta numerose e profonde ferite da arma da taglio ed una curiosa cicatrice sul braccio. Il killer, inoltre, sembra aver schiacciato gli occhi della vittima. Purtroppo, la brutalità e gli assassinii paiono non cessare. Omicidi con lo stesso modus operandi si susseguono nei giorni seguenti all’inizio delle indagini, facendo emergere, nella mente degli investigatori, la possibilità che si tratti di un serial killer. E non finisce qui. Questa sequela di crimini sembra, difatti, collegata ad un riformatorio sperduto tra le nevi di Borgarnes, piccola cittadina situata sulla costa dell’isola; e alla scomparsa, di 30 anni prima, di un ragazzino di nome Thomas. Una vicenda intricata, appassionante e tutta da scoprire, la cui soluzione è tutt’altro che scontata e prevedibile.
A capitanare le ricerche, la detective Kata della sezione investigativa della polizia della capitale islandese. Poliziotta determinata, decisa, diretta, dalle caratteristiche mascoline, algida, ma anche estremamente tenebrosa e, forse, fin troppo impulsiva. Per volere di Magnus, ex-capo della sezione, ad affiancarla nelle indagini e nella ricerca del killer, il detective Arnan, proveniente da Oslo, uomo calcolatore, con grandi capacità deduttive ed intuitive, dal passato misterioso e significativo ai fini della trama; perfetto contrappeso per l’impulsività della collega. I due showrunner della serie, David Oskar Olafsson e Thora Hilmarsdottir, costruiscono, con questo show, un intreccio che, come affermato sopra, potrebbe ricordare alcuni esempi del thriller contemporaneo, sia europeo che statunitense, ma che non si accontenta di essere banale e nella norma. L’elemento differente ed inedito e che, senza dubbio, accresce esponenzialmente il fascino dietro al prodotto, è, infatti, l’atmosfera che si viene a creare, prima di tutto, attraverso la dimensione spaziale, la regia e la rappresentazione che essa compie sia della vicenda che di tutto ciò che la circonda. I delitti di Valhalla, sul piccolo schermo, riesce in ciò che L’uomo di neve, su quello cinematografico, aveva tentato di compiere nel 2017, adattando il romanzo del norvegese Jo Nesbo – uno dei più grandi giallisti e scrittori noir del nostro tempo. D’accordo, in quel film, uno degli aspetti che funzionava meglio era la resa delle ambientazioni, della loro freddezza e spietatezza. La pellicola di Alfredson, tuttavia, peccava di una messa in scena povera e di un coinvolgimento veramente risicato dello spettatore. Pur in un territorio insulare, quindi geograficamente distante, ma, lo stesso, morfologicamente affine a quello continentale dei paesi nordici (Svezia, Norvegia, Finlandia); I delitti di Valhalla, in otto episodi, regala le emozioni e le sensazione che avrei voluto sperimentare nella visione del film sopracitato. E anche di più.
Come citato sopra, l’elemento di maggior successo per la creazione di questa atmosfera ricercata, unica e potente, ai fini della drammatizzazione, sono proprio le ambientazioni e l’inserimento ed adattamento dei personaggi al loro interno. Campi lunghissimi, panoramiche, inquadrature a volo d’uccello presentano l’uomo come un nonnulla, una formica, in confronto alla vastità e alla forza, della natura che lo circonda. Molteplici sono i campi, ad introduzione e chiusura di determinate sequenze, che mostrano una singolo ed isolato elemento, come può essere una strada, sperduto ed inglobato in mezzo al nulla più assoluto, alla neve, al freddo, ai ghiacci. Un mare bianco di insidie, misteri, dolore, verità taciute e morte. Questa sensazione tesa, costante ed assolutamente intrigante di pericolo, mortalità e segretezza è ciò che rende veramente originale e complessivamente riuscita questa prima serie Netflix islandese. Ed è proprio l’ambientazione, l’aspetto che torna maggiormente nella sceneggiatura e la messa in scena de I delitti di Valhalla. Gli showrunner e gli autori del serial danno vita a otto episodi estremamente pieni di avvenimenti, dati, informazioni, deduzioni, sequenze action adrenaliniche e cariche di tensione – in questi frammenti, lo stesso, tuttavia, non si può dire della regia, confusionaria e fin troppo contorta -, omicidi efferati, violenza, oscurità e vicende personali profondamente connesse con la storyline principale.
Tutto ciò che circonda questa enigmatica ed inquietante struttura, ciò che di oscuro si è compiuto al suo interno, trova, ovviamente, la sua espressione in molteplici momenti e situazioni, all’interno della serie. Tuttavia, la caratteristica peculiare è il fatto che questi eventi non vengano mai mostrati – quindi servendosi della tecnica del flashback (o analessi) -, bensì narrati e descritti, sempre ed unicamente, dalle parole dei testimoni o, per meglio dire, sopravvissuti di Valhalla. Il racconto orale, piuttosto che visivo rende tali resoconti molto più efficaci e terribili nella mente dello spettatore – poiché libero di immaginarsi e figurarsi, con il pensiero, queste macabre ed oscure memorie. A proposito, ritengo che stimolare l’immaginazione e la costruzione mentale del pubblico, per un autore, sia molto più utile, ai fini del racconto. Ognuno, nella sua testa, vedrà, infatti, qualcosa di diverso, ma di ugualmente pauroso e corrotto, aggiungendo farina dal proprio sacco e convertendo tale report e testimonianza in qualcosa di molto più intimo, personale e potente. Scritta, non sto scherzando, a 14 mani, la sceneggiatura de I delitti di Valhalla, anche se influenzata dal discorso sui serial killer portato avanti da Fincher e dalle atmosfere di film scandinavi, come il riuscitissimo Uomini che odiano le donne (2009) di Niels Arden Oplev – di cui, guarda caso, Fincher ha diretto il remake americano con Daniel Craig -; si presenta, indubbiamente, come un qualcosa di ispirato e ben orchestrato. Non ci si annoia mai, non vi è un momento morto o in cui la serie si allontana dal focus centrale per “allungare il brodo“. Otto episodi si rivelato essere la misura perfetta per la stagione, dimostrando, di conseguenza, che, in pre-produzione, è avvenuto un accorto lavoro di spartizione omogenea degli eventi da narrare. Lo show cattura ed “incatena” lo spettatore fin dai suoi primi minuti, con un’utile, ma forse non così cruciale, anticipazione di ciò che avverrà verso la fine della stagione.
Subito dopo, si viene catapultati dodici giorni prima, sul principio delle indagini e facciamo la conoscenza del personaggio di Kara, personaggio femminile molto forte con cui, nonostante le sue scontatezze e caratteristiche stereotipate, lo spettatore riesce a empatizzare, almeno parzialmente. Dico parzialmente perché, purtroppo, alcuni suoi comportamenti e decisioni la convertono in una figura al limite dell’odioso verso metà stagione, ristabilendosi soltanto sul finale. Il discorso opposto vale, invece, per il suo co-protagonista, Arnan. Pur con i suoi difetti, il detective di Oslo è, senza dubbio alcuno, il personaggio con cui il pubblico si identifica maggiormente, per via della sua situazione personale, di certe azioni e del rapporto con il giovane Fannar (anche se trovo un po’ troppo “buttata lì” la rivelazione sul suo orientamento sessuale; mostrata e mai più accennata; non importante, quindi, ai fini della trama). Dal ritrovamento del primo cadavere alla scoperta del colpevole, gli autori de I delitti di Valhalla costruiscono, in modo conscio, consapevole, sorprendente, clinico ed organizzato, una rete machiavellica di collegamenti, fatti, date, testimonianze veramente intricato, ma, inaspettatamente, chiaro e lineare. Il caso, molto più complesso di quello che sembrerebbe, appassiona ed intriga il pubblico – che tenta di trovare e di scoprire, durante la visione, l’identità del killer. Gli autori stessi, consci di queste riflessioni e di questo gioco di “cluedica” memoria, in molteplici occasioni, si divertono ed ingannano lo spettatore, portandolo fuori strada e facendogli avanzare risoluzioni che, in seguito, verranno smentite e ribaltate completamente.
Degno erede di romanzi come quelli di Camilla Lackberg, Stieg Larsson, il già citato Jo Nesbo, fino ad arrivare ad autori come Thomas Harris e i nostrani Carlo Lucarelli e Donato Carrisi; I delitti di Valhalla rispetta in pieno la tradizione e la classicità del proprio genere di appartenenza, arricchendolo la propria visione tipicamente nordica, asettica, sintetica e asciutta e il proprio legame con il paesaggio, da cui trae suggestioni e sensazioni uniche e rare. Lo show – completato da un discorso di critica sociale, velato, ma estremamente presente, sulla stampa ed il suo potere e sulla corruzione dell’infanzia e delle istituzioni – mantiene alta e costante la tensione e la dose di thrilling, necessaria per creare un misto di curiosità morbosa e mistero, nella mente dello spettatore. Da un punto di vista visivo, la serie può essere vista come un piccolo gioiello, per le emozioni e il senso di pericolosità e minaccia che trasmette – grazie anche ad una fotografia opprimente, claustrofobica, spenta e contrastante con il biancore mortale e glaciale del paesaggio innevato. I delitti di Valhalla è un must-watch per tutti gli appassionanti di thriller contemporaneo, poiché punto di incontro tra la corrente hollywoodiana e gli aspetti migliori di quella scandinava, dettata dai film della trilogia svedese di Millenium. Una serie che, seppur con i suoi difetti e piccole storture a livello di costruzione di certi personaggi, è capace di inquietare, schiacciare ed intrigare lo spettatore, lasciandolo sul filo del rasoio dai primi istanti fino a dopo il finale (aperto).