TITOLO ORIGINALE: Dark Waters
USCITA ITALIA: 20 febbraio 2020
USCITA USA: 22 novembre 2019
REGIA: Todd Haynes
SCENEGGIATURA: Mario Correa, Matthew Michael Carnahan
GENERE: thriller
Todd Haynes dirige un film d’inchiesta sullo scandalo riguardante la DuPont e le scoperte fatte sul PFOA, composto estremamente dannoso per ogni essere vivente. Un thriller d’inchiesta che si colloca su buone posizioni ed ottimi standard di tensione. Non si urla al capolavoro, ma neanche al disastro, come molti prevedevano.
1988. Cincinnati, Ohio. Robert Bilott è un socio del rinomato ed esemplare studio legale Taft & co., che si occupa della difesa di grandi corporazioni come, per esempio, la DuPont, marchio importantissimo e facoltoso, per quanto riguarda il campo chimico statunitense. Appena entrato a far parte del consiglio di amministrazione della società, egli è un avvocato d’azienda brillante, vincitore di numerosi casi che, a quanto pare, sembravano a dir poco ostici. Nel bel mezzo di una riunione, egli viene interrotto da una visita in ufficio. Si tratta di Wilbur Tennant, allevatore di Parkersburg, piccola cittadina della Virgina Occidentale, nonché territorio d’origine del nostro Robert. L’uomo chiede al nostro avvocato, in modo abbastanza brusco ed urgente, di indagare (fornendolo di una quantità elevatissima di prove, a carico della sua tesi) sul presunto avvelenamento delle sue mucche, dopo aver bevuto l’acqua – che l’allevatore ritiene contaminata – del ruscello accanto alla sua proprietà. Abbastanza scettico e poco incline ad accettare il caso, Bilott si reca, lo stesso, dal signor Tennant, cogliendo l’opportunità per andare a trovare sua nonna che, da una vita, vive nelle prossimità di questa cittadina del West Virginia. Giunto sul luogo, il giovane avvocato scopre che, negli anni, Wilbur ha perso più di un centinaio di mucche. Gli animali, infatti, prima, si comportavano in modo strano – quasi fossero isterici -, poi, dopo poco tempo, esalavano l’ultimo respiro e crollavano a terra. Le porzioni di corpo presentategli dal contadino sembrano confermare l’ipotesi di un presunto avvelenamento: una cistifellea ingrossata dismisura, denti diventati neri come la pece, vitelli nati con gli zoccoli cresciuti al contrario, tumori. Tennant rivela a Robert che ci potrebbe essere un collegamento tra la morte dei suoi animali e la discarica che si trova più a monte rispetto al fiumiciattolo, appartenente alle industrie DuPont. Alla fine, assistendo anche all’orribile uccisione, in diretta, di un vitello, l’avvocato di Cincinnati decide di accogliere la causa del povero disgraziato e di presentarla ai colleghi, in sede di riunione. Nonostante una prima titubanza da parte loro, a Robert viene dato il permesso di proseguire nelle indagini e nei primi contatti con l’azienda chimica. Quest’ultima, stizzita e provocata da questo affronto, complicherà, inevitabilmente, le ricerche di Robert, che, ad ogni modo, porteranno alla luce una verità scomoda, scioccante ed esplosiva. Una verità per la quale, nella vita vera, al di fuori del rettangolo filmico, il signor Bilott si sta ancora battendo e nella quale tutti noi siamo coinvolti.
La quasi interezza della filmografia di Todd Haynes è costituita da film di impegno e tematiche sociali. Basti soltanto vedere il magnifico Carol, uscito cinque anni fa, nel 2015, pellicola che tratta dell’amore omosessuale e dell’ossessione di due donne nella New York del 1952, un’aspirante fotografa di nome Therese Belivet ed un’incantevole e facoltosa donna, Carol Aird, alle prese con un difficile divorzio. Dopo aver trattato, appunto, la tematica dell’omosessualità e del ruolo della donna, nella società e nell’immaginario comune, e aver diretto una meravigliosa Julienne Moore nell’egregio La stanza delle meraviglie (2017), Haynes traspone, su schermo, l’articolo del 2016 di Nathaniel Rich del New York Times, intitolato The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare. La macchina da presa segue, in modo ravvicinato ed intimo, i personaggi nel loro viaggio verso la scoperta della verità – spiazzante e travolgente. Haynes assume, in numerose sequenze, la funzione di occhio esterno, freddo e rigoroso, limitandosi a rappresentare sinteticamente una vicenda che non ha bisogno di fronzoli e passaggi di macchina estetici e abbellenti. I fatti narrati, per Haynes, devono essere trasposti e mostrati nel modo più clinico, razionale, ma anche viscerale, possibile. Questa freddezza imperante e questo carattere tagliente della direzione rendono benissimo la mortalità, il pericolo, l’angoscia, quasi claustrofobica ed oppressiva, derivanti dal caso, che si manifestano e caratterizzano l’opinione pubblica, i residenti della zona di Parkersburg e non solo e la vita di Bilott stesso e della sua famiglia. Con occhio investigatore, Haynes segue Mark Ruffalo e soci in questo dramma, a metà tra thriller e film d’inchiesta, che infiamma corti d’appello, tribunali, studi legali ed esterni gelidi – che, pure se esterni, danno, in modo paradossale, una sensazione disarmante di chiusura, di perdizione e di rischio. Attraverso panoramiche, primi piani ed inquadrature da telecamera di sicurezza in certi punti, Haynes esplora e cerca di analizzare i processi psicologici dei personaggi principali, ma, purtroppo, ci riesce a metà – di certo, scoraggiato e scontrandosi con le interpretazioni, non sempre al massimo – e si accontenta, coinvolgendo e orchestrando, in certi frangenti, in maniera esemplare, tensione e suspense.
Io sono un avvocato d’azienda… le difendo le aziende chimiche…
Robert Bilott (Mark Ruffalo) nel film
Basandosi sul già citato articolo del New York Times, Mario Correa e Matthew Michael Carnahan firmano la sceneggiatura del film di Haynes. Ad una prima occhiata, la scrittura di questo Cattive Acque si presenta come un qualcosa di solido, ben gestito ed equilibrato, che alimenta, nello spettatore, una serie di interrogativi e riflessioni sul potere e la legalità delle corporazioni e delle potenze mondiali, riprendendo, quindi, alcuni crismi ed elementi positivi di film ben più alti – a livello di volontà espressive e riuscita finale – come Il caso Spotlight o il recente, seppur minore, Il diritto di opporsi, entrambi, film di forte inchiesta sociale e politica. L’elemento che, senza dubbio, stupisce maggiormente è l’abilità sbattezzante con cui gli sceneggiatori riescano a rendere comprensibile una vicenda abbastanza complessa ed ostica per lo spettatore medio, fatta di chimica, sostanze dannose, procedimenti legali, intrighi ed insabbiamenti. Difatti, non si ha la mai la sensazione di essere troppo ignoranti per comprendere e recepire a fondo una determinata affermazione, giudizio o ipotesi espressa nella pellicola e il tutto, di conseguenza, fila liscio come l’olio. Si riesce, in più, a costruire, grazie anche all’aiuto del montaggio e della regia di Haynes, una tensione notevole, soprattutto in alcuni punti specifici. Tuttavia, la pellicola non è esente da un paio di difetti, a livello di scrittura, che ne minano, a parer mio, l’efficacia, la riuscita finale e l’effetto che potrebbe suscitare nello spettatore. Prima di tutto, è ravvisabile un’incertezza ed un velo di mistero, posti sui personaggi, sulla loro caratterizzazione ed evoluzione durante il corso del racconto. Per esempio, la figura di Robert Bilott, interpretata da Mark Ruffalo, all’interno del film, compie un paio di scelte che cambieranno, per sempre, l’esistenza e la vita del suo personaggio. Queste decisioni appaiono, però, quasi sbrigative e lacunose di un vero e proprio motivo o movente, risultando, quindi, quasi casuali e vuote di un qualsivoglia tipo di profondità etica, morale ed umana. Si potrebbe citare, come esempio aggiuntivo, il personaggio di Sarah, moglie di Robert, la cui rappresentazione è affidata ad Anne Hathaway, che, in un punto di svolta del film, esprime una lamentela, una confessione, di fronte al marito, distrutto ed ossessionato dal caso ed assente, quindi, per la sua famiglia, che dovrebbe essere causata da una serie di episodi e di giustificazioni, di esempi presentati o almeno suggeriti, in precedenza, allo spettatore. Tutto questo, però, non è percepibile e, perciò, la potenza, il significato profondo della battuta, abbastanza eloquente in sé lessicalmente parlando e dal punto di vista dell’enfasi recitativa, risultano quasi del tutto assenti. In definitiva, si può affermare, che il fare per essere dei personaggi non viene espresso come si dovrebbe e tutto ciò non fa che inficiare la profondità complessiva del lungometraggio e la sua memorabilità.
Nonostante la tensione costante nella parte centrale, il film non ce la fa, tuttavia, a mantenere, in maniera equilibrata o, comunque, crescente, quest’inquietudine ed angoscia che la caratterizzano per gran parte della sua durata – soprattutto nella porzione subito dopo la scelta, da parte di Robert, di intraprendere questa crociata contro la DuPont. Verso le sue battute finali, il lungometraggio di Haynes si arena, forse un po’ troppo, su lidi da dramma personale e familiare, tentando di dare un po’ più di profondità ad un personaggio che, di suo, non ne ha molta. Sinceramente, avrei reso questa parte di film – in cui si mostrano le ovvie ricadute, da un punto di vista filmico sicuramente interessanti e coinvolgenti, che questo caso ha provocato nella vita del povero avvocato di Cincinnati – molto più sciolta, magari spartita per l’interezza del film, drasticamente più sottile e ridotta, per concentrarsi maggiormente su una costruzione efficace del finale. Un altro dei difetti riscontrabili nella pellicola, difatti, è il modo in cui si chiude. Questa lotta dell’avvocato Bilott, purtroppo, è tuttora in corso e, a livello di messa in scena e di scrittura, si sarebbe potuta rendere questa continuità, fede e persistenza da parte del legale, ma anche la pericolosità delle azioni della DuPont, in modo molto più diretto, riuscito ed incisivo. La conclusione di Cattive Acque appare, invece, tronca, casuale, accidentale, addirittura, involontaria. Il film non lascia lo spettatore con quel senso di angoscia e di claustrofobia, quel sentimento di pericolo imperante e di mortalità che contraddistinguono, in modo palese e rappresentativo, gran parte del lungometraggio di Haynes. Anzi, tutt’altro. La pellicola si chiude in modo inadeguato, quasi spensierato, non dando, quindi, quel colpo allo stomaco che, di certo, l’avrebbe elevata. Si opta, al contrario, per una conclusione con una canzone sulla scia di Country Roads di John Denver – già presentata durante il corso del film – ed una serie di didascalie. Nonostante questo epilogo non proprio soddisfacente e potente, Cattive Acque sciocca e tiene alta la tensione per gran parte della sua estensione, grazie, oltre che alla regia e alla sceneggiatura, ad un montaggio che si consolida, prevalentemente, su livelli molto alti, soprattutto, in una manciata di sequenze. Si può citare, per esempio, quella di presentazione, da parte di Robert, di ciò che è successo e che è stato insabbiato, a colleghi, familiari e clienti – ne consegue che il montaggio dà il meglio, soprattutto, nei dialoghi e nei diversi confronti. Tuttavia, la pellicola sembra aver subito alcuni, significativi, tagli che ne hanno modificato la scorrevolezza, soprattutto nelle battute conclusive.
Ho trovato dei documenti che non capisco… stanno nascondendo qualcosa…
Robert Bilott (Mark Ruffalo) nel film
Anche se il senso di angoscia e di tensione si mantiene su lidi efficaci e potenti, gli interpreti principali, sfortunatamente, non riescono a mantenere e ad incanalare al meglio questo senso di tormento e preoccupazione. Il tre volte candidato al premio Oscar, Mark Ruffalo, di fatto, nel film di Haynes, dà prova di una delle performance attoriali più deboli della sua carriera. Infatti, se si pensa, ore dopo la visione, ad una scena in particolare, in cui l’attore ha dato prova del suo grande ed attestato talento attoriale (basti solo vedere il già citato (Il) Caso Spotlight), non ne viene alla mente quasi nessuna, forse una, forse due, ma nulla da dire: <<questo film è in mano a Mark Ruffalo>>. La sua recitazione è, allo stesso tempo, scialba, stanca, quasi annoiata ed inespressiva e fin troppo caricata, mascherata ed esasperata nelle reazioni, corredata, a tutto punto, da faccette ed una comunicazione facciale molto povera. Non è un caso che, in molte sequenze, la sua recitazione venga superata da quella della collega Anne Hathaway, che dona alla pellicola un paio di momenti di grande ed ispirata immedesimazione nel personaggio – anche se, come affermato prima, questi succitati momenti non sono preceduti da una costruzione adeguata del personaggio e della sua psicologia. Di conseguenza, questi sfoghi sembrano quasi nascere dal nulla.
Per focalizzarsi su aspetti più positivi e degni di nota, è giusto menzionare la fotografia di Edward Lachman, DoP feticcio di Haynes. Espressiva, cupa, imperante, angosciante, spietata, il lavoro compiuto da Lachman in questo Cattive Acque accresce, di moltissime spanne, la potenza e la tensione lodevoli, su cui la pellicola si basa e da cui trae molta della sua linfa vitale. Il direttore della fotografia conduce, inoltre, uno studio ed una decostruzione impressionante dei personaggi, attraverso l’intensità, la posizione e l’utilizzo delle luci. Questi, sferzati da un vento gelido, mortale e tagliente all’esterno e scavati dalle luci soffuse e giallognole degli interni, sembrano, in certi punti, quasi dei cadaveri che camminano, uomini senza sonno, destinati a perire, a scontrarsi con l’inevitabile. Viceversa, una grande mancanza è rappresentata dalla colonna sonora che, se maggiormente presente, avrebbe incrementato esponenzialmente il fattore suspense ed intrigo.
Cattive Acque è un esempio di film in cui la parte da protagonista non la fanno, paradossalmente, i protagonisti della vicenda, ma la vicenda e l’argomento in sé. Bilott scopre, come dimostra la storia vera dietro la pellicola, che, da decenni, la DuPont sta deliberatamente avvelendando i corsi d’acqua della zona per smaltire il proprio acido perfluoroottanoico, con conseguenze estremamente gravi per la popolazione del territorio, ma non solo. Come afferma The Vision, l’acido, chiamato anche con il nome di PFOA, <<è, per il ministero della Salute, un “composto chimico, prodotto dall’uomo e pertanto non presente naturalmente nell’ambiente, stabile, contenente lunghe catene di carbonio, per questo impermeabile all’acqua e ai grassi”. Le industrie lo usano per rivestire capi di abbigliamento, carta a uso alimentare, padelle e pentole antiaderenti, in modo da aumentare la loro refrattarietà alle alte temperature, ai grassi e all’acqua. Un’altra sua caratteristica è la resistenza una volta rilasciato nell’ambiente, che mantiene inalterata la sua composizione chimica virtualmente in eterno. […] L’utilizzo a livello industriale e la produzione di PFOA sta venendo progressivamente abbandonato dalla DuPont e dagli altri gruppi chimici, ma tracce di questa sostanza sono ormai presenti nel sangue del 99% delle forme di vita presenti sulla Terra. La lotta, costata anni di lavoro a Bilott, non deve farci dimenticare che nella zona grigia delle normative esistono altre 60mila sostanze chimiche non regolamentate da nessuna legislazione. Migliaia di sostanze in grado di fare gli stessi danni che il PFOA ha causato nel West Virginia e da lì nel resto del Pianeta>>.
La DuPont sta deliberatamente avvelenando 70mila residenti da oltre 40 anni, ti rendi conto?
Robert Bilott (Mark Ruffalo) nel film
L’argomento, come deducibile, ci riguarda direttamente e seriamente ed è per questo motivo che avrei fatto scaturire molto di più questo aspetto sul finale del film, che si limita, al contrario, a rivelarci queste nozioni con delle semplici, banali e fin troppo didascaliche, scritte su fondo nero. Per concludere, Todd Haynes dà vita ad un thriller, dalle volontà rappresentative molto alte, nei confronti di cui, spesso, però, questo non riesce a rimanere fedele e coerente. Un legal drama nella norma, classico, senza urlare al capolavoro e senza raggiungere i livelli del già nominato film premio Oscar, Il caso Spotlight. Stranamente, in Cattive Acque, sono riscontrabili aspetti che fanno urlare al miracolo, come la fotografia, la regia e il montaggio – in alcuni momenti – ed altri elementi che, fortunatamente, non affossano la pellicola, ma che, lo stesso, ne abbassano parzialmente la qualità, come, per esempio, la costruzione dei personaggi, il finale e il ritmo leggermente discontinuo. Tutto sommato, Cattive Acque si presenta come un film discreto, che emoziona ed intrattiene, attraverso il racconto della storia di un uomo, che si è battuto tutta la vita per la giustizia ed una verità scomoda e scioccante, che ci tocca molto da vicino. E, anche solo per questo motivo, Cattive Acque dovrebbe essere visto e discusso.