TITOLO ORIGINALE: Motherless Brooklyn
USCITA ITALIA: 7 novembre 2019
USCITA USA: 1° novembre 2019
REGIA: Edward Norton
SCENEGGIATURA: Edward Norton
GENERE: drammatico, noir
A distanza di 19 anni, Edward Norton torna dietro – ma anche di fronte – alla macchina da presa, dirigendo e scrivendo un film, a metà tra detective movie e hard boiled, suggestivo e curato. Un canto malinconico, un vero e proprio salto all’indietro, nel tempo e nello spazio, in una New York ormai lontana
New York. Brooklyn. Anni 50. Una tipica strada cittadina. Una macchina. Due persone al suo interno. Un uomo abbastanza alto, magro e, diciamo, particolare. Il suo nome è Lionel Essrog. L’altro fa di nome Gilbert Coney ed è di corporatura robusta, sembra quasi fuori luogo in quel veicolo così ordinario. Alcuni bambini stanno giocando sulla strada. L’uomo alto è affetto da una sorta di disturbo che gli provoca tic e lo induce a pronunciare parole senza senso, sia dal punto di vista dei lessemi in sé che del contesto. Lionel soffre, infatti, della sindrome di Tourette, disturbo che complica esponenzialmente le sue relazioni sociali, ma che, allo stesso momento, fa di lui un ottimo investigatore, grazie alla sua naturale memoria fotografica. Sì, Lionel è un investigatore, come si potrebbe facilmente dedurre dall’abbigliamento e dal modo in cui lui e il suo compagno si comportano nella macchina. I due stanno aspettando l’arrivo di Frank Minna, atteso in un palazzo vicino per una riunione segreta. Frank è il capo dell’agenzia investigativa di cui entrambi fanno parte (composta anche da Danny e Tony), la L&L e attualmente sta lavorando ad un caso segretissimo e deve incontrarne i mandanti. Frank, diciamo, oltre che ad esserne il capo, è anche un po’ il salvatore del gruppo, perché ha, in qualche modo, cresciuto tutti e quattro, testimoni di un’esperienza violenta in orfanotrofio. Lionel ha ricevuto da Frank il soprannome di Brooklyn Senza Mamma (Motherless Brooklyn), perché scaltro, ma comunque orfano. Minna arriva e si accorda con i due sul da farsi, sia che il piano non vada come programmato, sia che esso vada alla perfezione. Frank chiede ai ragazzi, in poche parole, di coprirgli le spalle e di agire solo se è lui ad ordinarlo. I due non sanno nemmeno il motivo del meeting tra il boss e gli altri individui e non si azzardano a fare domande. Come deducibile, visto il genere del film, il piano non va come deve e , dopo un inseguimento in auto, Minna si becca una pallottola alla schiena e muore sul lettino dell’ospedale, davanti agli occhi distrutti di Lionel. Un po’ per rimorso, un po’ per vendetta, un po’ per curiosità, il variopinto detective decide, così, di seguire, a ritroso, le orme del mentore e scoprire il motivo per cui gli hanno sparato. Lionel intraprende, così, un viaggio che lo porterà negli angoli più bui e remoti della città, tra corruzione, proteste, magnati dell’edilizia, politica, jazz e una verità sotterrata che sta per venire a galla.
A distanza di 19 anni da Tentazioni d’amore (commedia romantica con, come interpreti, lo stesso Norton e Ben Stiller), Edward Norton torna alla regia di un lungometraggio e lo fa in modo sbalorditivo. L’attore, diventato celebre per pellicole come Fight Club o American History X, dirige in modo ispiratissimo e curato un film suggestivo, malinconico, intimo, riflessivo, che si prende i suoi tempi per rappresentare e trasmettere adeguatamente i concetti fondanti. Si nota, sia dal punto di vista registico e di scrittura, che interpretativo, una sorta di narcisismo per quanto riguarda la produzione della pellicola. La vicenda ruota, difatti, completamente attorno al personaggio di Lionel che diventa una sorta di perno narrativo, morale ed emotivo. L’attenzione (o auto-attenzione) di Norton nei confronti del suo personaggio è primaria, quasi ossessiva e maniacale. La macchina da presa adotta costantemente il punto di vista intradiegetico del protagonista, scava dentro la sua psicologia, nel suo carattere, nei suoi ricordi, nelle sue sensazioni, nelle sue emozioni. Lionel diventa l’occhio, una finestra aperta su una New York ormai tramontata, che non risorgerà più. Città che, assieme a Norton, è l’altra vera grande protagonista della pellicola. Essa è sia oggetto che soggetto vivente e parlante. E come si esprime la città? Ovviamente attraverso la musica e le persone che la vivono (ma di questo tratterò in seguito). La regia di Norton segue pedissequamente la filosofia, il modo di vivere, di intendere le cose e ciò che lo circonda, del nostro protagonista, Lionel. La sua non è una regia da thriller – frenetica, rapida, immediata – essa è una regia che riflette, si prende i suoi tempi, segue l’evoluzione e la presa di conoscenza e di confidenza del detective protagonista. Una direzione, quindi, atipica per un crime a sfondo politico e sociale, così come atipico è tutto il film, perché più che una vicenda prettamente oggettiva, è, al contrario, un racconto estremamente umano e personale.
Se da un lato la regia è limpida, chiara, curata ed ispiratissima in ogni singolo dettaglio, rendendo il tutto, fin da subito, interessante, lo stesso non si può, in parte, affermare parlando della sceneggiatura – firmata dallo stesso Norton. Tralasciando un inizio abbastanza intrigante, che coinvolge immediatamente l’attenzione dello spettatore, giungendo a metà film si ha come la sensazione – non so se voluta o meno – di perdersi e non raccapezzarsi con ciò che avviene dietro ogni angolo, dietro ogni risvolto. La faccenda e il caso della corruzione vengono introdotti e sviluppati fin troppo frettolosamente, senza lasciare alcun momento allo spettatore per respirare e riflettere su ciò che ha appena assorbito. Se poi non si è avvezzi con tutti i rapporti tra edilizia, appalti, affitti, sfratti, il tutto risulterà ancora più machiavellico e caotico. E, se da una parte, la sindrome di Tourette, di cui soffre il protagonista, rende la pellicola molto particolare, fresca ed originale, in alcune scene di dialogo, questa risulta fin troppo sviante e dispersiva. C’è uno scambio di battute, nel film, tra Norton e Dafoe (che interpreta l’ingegnere Paul Randolph), che rappresenta un grande punto di svolta per la pellicola. Dialogo che però risulta fin troppo frenetico proprio ad un livello di conversazione degli attori in scena che risulta fin troppo difficile da seguire. Avrei puntato piuttosto su una maggiore fruibilità del prodotto ed una maggiore versatilità e semplicità. Questa natura molto didascalica della produzione, probabilmente, è data dal fatto che il film sia una trasposizione dell’omonimo romanzo di Jonathan Lethem, quindi, la natura letteraria ha costretto Norton a comprimere e rendere quanto meno cinematografica la parte più noiosa in ogni storia ben scritta, quella delle spiegazioni che, a volte, può risultare superflua, fuori luogo o semplicemente mal adattata. Qui si tratta dell’ultima. Personalmente, però, ci si è complicati fin troppo la vita, rendendo complicato un qualcosa che, alla fine dei conti, sulla carta non lo è. Bastava che al posto delle parole e all’uso di termini anche abbastanza importanti e non immediati, si catturasse e rappresentasse un momento che valesse più di mille parole. Nella parte antecedente il finale e in quella conclusiva, tuttavia, Motherless Brooklyn si riprende e fa venire perfettamente tutti i nodi al pettine, regalando inoltre qualche momento registico degno di nota e tecnicamente memorabile e alcune scene action ben costruite.
Io ho qualcosa che non va. È la prima cosa da sapere. Ho dei tic e urlo.
Lionel Essrog (Edward Norton) nel film
Non lo vedevamo in un ruolo di rilievo dal 2016, in Collateral Beauty di David Frankel. Non contando il ruolo minore di Nova in Alita di Robert Rodriguez – tre anni dopo, Edward Norton torna a far parlare di sé e si pone al centro di quella che, in fin dei conti, non è che la sua creatura, un prodotto quasi totalmente suo, di nome e di fatto. Oltre che dietro, egli si posiziona, in modo centrale e dominante, anche di fronte allo schermo, regalandoci un’interpretazione precisa, puntuale, credibile, mai sopra le righe. Da Oscar. Il pubblico empatizza immediatamente con il suo Lionel Essrog, un personaggio spigliato, furbo, perspicace, iperattivo, nonostante la sua disabilità. Questo involucro di furbizia e scaltrezza, dietro questa simpatia, si nasconde, però, un uomo fondamentalmente fragile e caratterizzato da un passato tragico e precario, da cui è riuscito ad uscire, parzialmente indenne, grazie anche all’aiuto di Frank. La posizione di rilievo, centrale, del personaggio di Norton è ulteriormente sottolineata dall’adozione del suo punto di vista per narrare la vicenda. In qualità di regista, l’attore di Boston dirige e valorizza magnificamente un cast di grande spessore, con interpreti famosi e riconosciuti internazionalmente, come Bruce Willis, Alec Baldwin, Willem Dafoe e Gugu Mbatha-Raw. La star di Die Hard interpreta Frank Minna, mentore e capo della L&L, nonché una sorta di migliore amico per Lionel. Personaggio, fin da subito, schivo, duro e grigio, egli dimostra un attaccamento quasi paterno per Lionel che ha, in qualche modo, plasmato, reso così com’è ora. Peccato che il suo personaggio abbia pochissimo screen-time, perché, per quello che si vede, l’interpretazione di Willis risulta incredibilmente ispirata, presentando anche un certo feeling attoriale con Norton. Il ruolo del maestro, diciamo, che gli dona in un modo naturale. Dopo la sua morte, ad ogni modo, egli è sempre presente, almeno, in modo indiretto, durante tutta la pellicola e il suo look, che verrà assunto successivamente da Lionel, rende il personaggio e il suo passato molto interessanti.
L’altro grande gigante della pellicola è il mastodontico Alec Baldwin che qui interpreta Moses Randolph, la persona più importante della città, magnate dell’edilizia, grande visionario e futurista. Villain duro e puro ad una prima occhiata, egli si rivelerà in seguito un uomo con debolezze e credenze fallaci ed estreme, fin troppo estreme. Una figura forte ed apparentemente invincibile che verrà a scontrarsi con la sagacia, l’abilità e le capacità di Lionel. Baldwin costruisce il personaggio in modo ottimo, rendendo Randolph minaccioso, lucido ed intimidatorio, rubando la scena in qualsiasi momento in cui è presente. Leggermente sacrificati e schiacciati dalla bravura e dalla scrittura dei tre big (Norton, Willis e Baldwin), Gugu Mbatha-Raw e Willem Dafoe portano a casa il compitino, dimostrando, comunque, la propria bravura e capacità interpretativa in numerose sequenze. Tra i due, spicca sicuramente, per importanza e rilievo maggiori, la giovane attrice britannica, che, con Norton, presenta un’intesa molto forte e riuscita (i due hanno alcune scene veramente belle, da un punto di vista tecnico e visivo, ed emozionanti; una di queste è il finale). La Raw interpreta Laura Rosa, attivista e ragazza molto forte, l’anello, l’elemento chiave, di svolta, per l’indagine di Lionel, il ponte che collega la morte di Minna con il gigante – sia fisicamente che socialmente – , Moses Randolph. Willem Dafoe interpreta egregiamente la parte dell’ombra, leggermente schizofrenica, di Moses che indirizzerà Lionel nella sua investigazione, ma anche lui, così come Bruce Willis, appare fin troppo raramente, per poter sfruttare in toto la sua maestria recitativa.
La New York di Motherless Brooklyn è una città viva, presente, sempre al centro dell’azione, dei discorsi, delle vite dei personaggi. Una città in evoluzione, frenetica, palese e manifesta, ma, allo stesso tempo, piena di angoli bui, risvolti misteriosi e covo di uomini assetati di potere, prestigio e denaro. Edward Norton rappresenta una NY lontana, mitizzata, stilizzata, iconica e mitica nell’immaginario attuale, una città color pastello e sfumata di giorno, buia, oscura e criptica di notte. L’investigazione vorticosa e pericolosa di Lionel verso la verità, le rivelazioni, l’epifania ha, come sfondo, una città in costante crescita, schiva, fuggente ed ignota. Ci si muove da vicoletti stretti, bui e minacciosi a viali luminosi, aperti ed arieggiati, da night club vivi e soffusi, ad interni luminosi, ma allo stesso tempo, oscuri. La cittadina americana viene valorizzata esponenzialmente dalla fotografia, curata da Dick Pope, composta da un gioco di sfumature e di colori pastello piacevoli e seducenti sia per gli occhi che per il cuore per la grande nostalgia. La metropoli anni 50 di Motherless Brooklyn, così come il racconto, si animano e colorano grazie alla tinte e alle note leggere, soavi e malinconiche del jazz, come detto prima, terzo protagonista indiscusso al fianco di Edward Norton e della città. Ogni singola sequenza è retta, governata, ritmata e condizionata dalle musiche e dagli arazzi jazzistici di Daniel Pemberton, con la partecipazione e collaborazione straordinaria di Thom Yorke, cantante dei Radiohead, e Wynton Marsalis, i cui pezzi scimmiottano ed omaggiano le tracce e le atmosfere iconiche della musica di Miles Davis.
L’ambientazione, la ricostruzione storica di una New York anni 50, il contesto del dopoguerra, la musica jazz, i costumi e la fotografia sono fattori centrali per la creazione di un’effetto malinconia riuscitissimo e ben congegnato che pervade ogni singola scena dell’ultimo film di Edward Norton. Motherless Brooklyn è un film alla cui base si riconosce una volontà rappresentativa ed espressiva precisa e diretta, a metà tra diversi generi come il detective movie, il noir, l’hard boiled, il giallo. La caratteristica peculiare della pellicola, tuttavia, è la sua condivisione minima dei caratteri fondanti di ognuno di questi generi. Se da un punto di vista tecnico – regia, fotografia, cast e colonna sonora – il film si conferma come un ottimo prodotto, con i giusti toni, la giusta atmosfera, le giuste volontà rappresentative, un’attenzione morbosa nei confronti della valorizzazione del protagonista e dei personaggi secondari; dal punto di vista di scrittura, messa in scena e ritmo, la situazione si ribalta quasi interamente. Un incipit ottimo per cadenza, convinzione ed aggancio porta ad una parte centrale fin troppo poco cinematografica, eccessivamente contorta ed “incasinata” in alcuni dialoghi, nelle informazioni acquisite e nel modo con cui lo spettatore le assorbe. Nonostante i difetti, il film è un must-watch, da sperimentare e provare tassativamente al cinema, proprio per godere della cura registica, inaspettata ed ispirata, di Edward Norton, della meravigliosa fotografia nostalgica e del sonoro, in particolare per quanto riguarda la colonna sonora. Motherless Brooklyn non è solo un detective movie, ma anche una metafora, un canto malinconico contro la ferocia del progresso, una storia perfettamente umana, perché basata e focalizzata interamente sui personaggi, un discorso – forse un po’ troppo sottotono – sulla diversità sia a livello di apparenza (per quanto riguarda Lionel) sia a livello razziale (per quanto riguarda sia Laura che la discriminazione di Moses) sia dal punto di vista sociale. Alla sua seconda esperienza come regista, Edward Norton stupisce e sorprende, dimostrando una lucidità ed acume impressionanti dal punto di vista tecnico ed interpretativo. Una volta entrati nella mente e nella vita di Lionel, difficilmente le si scorda. Lo stesso si può aggiungere ricordando quelle tristi ed espressive note che accompagnano una chiusura rasserenante, confortante e significativa, per un film assolutamente imperdibile.