TITOLO ORIGINALE: Pain Hustlers
USCITA ITALIA: 27 ottobre 2023
USCITA USA: 20 ottobre 2023
REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Wells Tower
CON: Emily Blunt, Chris Evans, Catherine O'Hara, Andy García, Brian d'Arcy James
GENERE: drammatico, poliziesco
DURATA: 122 min
PIATTAFORMA: Netflix
Pienamente inserito nell'ironica dipendenza dalla crisi degli oppioidi che la fucina hollywoodiana sembra aver sviluppato negli ultimi tempi, Pain Hustlers di David Yates racconta l'ennesima storia sul successo e l'etica del profitto in cui quel che è autentico e quel che è falso, artefatto, contraffatto possono coesistere. Un chiaro rimando al mito americano e al suo business del dolore, quello della disillusione, portato avanti tuttavia con la più letale delle forme di pigrizia.
C’è un’immagine, o per essere più precisi un’allegoria, in Pain Hustlers di David Yates, che riesce, nella sua bizzarria o in quello che Barthes definirebbe senso ottuso, a cristallizzare il significato della storia (vera, o quasi) che mette in scena. Ma anche quello di una storia ben più grande, che accomuna tutti i racconti sulla famigerata crisi degli oppioidi negli Stati Uniti - verso cui, negli ultimi anni, tra film e serie, la fucina hollywoodiana sembra aver ironicamente contratto una forma di dipendenza -, e che popola di fatto il lato più inglorioso della storia americana, nella quale, come ben ci hanno mostrato tantissimi autori, registi e narratori, l’etica e il profitto sono sempre andati stranamente a braccetto, fino ad arrivare ad una specie di etica del profitto.
Questa immagine vede un piccolo bulldog in carne ed ossa al fianco di una sua esatta replica peluche. Infatti, in questa storia (che rimanda a tantissime altre), nella storia di Liza Drake - quella (dal romanzo di Evan Hughes) di una ex-spogliarellista senza alcuna specializzazione, né referenze, capace, determinata ed estremamente fortunata, che, nel giro di qualche mese, ingegna un metodo, non certo legale, per persuadere i medici a prescrivere un antidolorifico solo all’apparenza non-assuefacente, salvando una startup farmaceutica dalla rovina e diventando head of marketing con tutte le conseguenze e le ripercussioni legali del caso - quel che è autentico e quel che è falso, artefatto, contraffatto possono coesistere, per quanto improbabili e facilmente distinguibili.
In altre parole: la parabola del mito americano, contraffatto e rimaneggiato fino all’illusione; dello spregiudicato farsi da sé, della cecità provocata e della volatilità successiva al successo, alla ricchezza, alla fortuna, del “più alto è il piedistallo, più dolorosa sarà la caduta”, a suo modo di un più generale, collettivo, universale business del dolore, che è quello della disillusione.
Ciò detto, laddove quell’immagine da sola farebbe pensare ad una qualche lucidità nella scrittura e nell’elaborazione discorsiva (in particolar modo, del copione di Wells Tower), essa è al contempo il più grande ostacolo di Pain Hustlers, perché non c’è davvero nient’altro nel tentativo di commedia brillante(?), satira pungente(?), film di denuncia(?), o più probabilmente infotainment, di David Yates. Che poi, già di per sé, l’idea di affidare al regista della maggior parte dei capitoli del Wizarding World (dal quinto Harry Potter all’ultimo Animali Fantastici), un film di questo tipo, con questo soggetto e simili pretese è un azzardo. Ma il risultato non può che essere dozzinale se tutto ciò che Yates & co. si limitano a fare è seguire pedissequamente e in maniera del tutto derivativa (complice un vistoso complesso di inferiorità), le orme di uno stile va da sé irreplicabile ed irraggiungibile.
Allora, quando non si rifà a The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, citando per di più momenti iconici od emulando il tocco al montaggio di Thelma Schoonmaker, Pain Hustlers prova a replicare invano il ritmo, il fervore, il divertito cinismo del cinema scandaloso e provocatorio di Adam McKay. E, non fosse per il brand Netflix (che distribuisce) o la presenza di una Emily Blunt convincente ma non idonea e credibile, di un Chris Evans nell’ennesima, poco brillante interpretazione (a riprova che forse dovrebbe smettere di cercare di essere l'attore che non è e mai sarà) e di un Brian d'Arcy James comunque memorabile (addirittura più di uno spolpato Andy Garcia), l’unica sensazione che potrebbe lasciare (e che, in fin dei conti, malgrado tutto, lascia eccome) allo spettatore è quella di una svogliata copia-carbone, di un prodotto di sottomarca, di un film plasticoso e privo d’identità. Un altro business del dolore, nel senso di un'opera che fa soffrire lo spettatore con la sua pigrizia, per il mero profitto dei coinvolti.
Neanche un falso d’autore (gli piacerebbe a David Yates), ma un falso e basta.
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