TITOLO ORIGINALE: Passages
USCITA ITALIA: 17 agosto 2023
USCITA FRA: 28 giugno 2023
REGIA: Ira Sachs
SCENEGGIATURA: Ira Sachs, Mauricio Zacharias
CON: Franz Rogowski, Ben Whishaw, Adèle Exarchopoulos
GENERE: drammatico, sentimentale
DURATA: 92 min
Presentato al Sundance Film Festival 2023
Il regista statunitense Ira Sachs dirige un triangolo amoroso tra due fidanzati ed una giovane maestra francese in un dramma che, tuttavia, è più interessato a raccontare la psicologia di uno solo, del fedifrago, e dei passages, degli stati esistenziali a cui è chiamato involontariamente a sottoporsi nel tentativo di soddisfare ed assecondare il proprio egocentrismo prorompente. Buone idee registiche, tre ottime interpretazioni, ed una banalità coerentemente diffusa: ma è abbastanza?
Esiste il genere “d’autore”? Esiste una cinematografia talmente codificata ed inquadrata in stilemi precisi e riconoscibili da poter essere discussa secondo le categorie critiche ed estetiche e la prospettiva del cinema cosiddetto di genere? Come per tutte le cose, ci sono regole, schemi e modelli, ed eccezioni che le confermano o le smentiscono. Ma Passages, nuovo lungometraggio dello statunitense Ira Sachs, sembra pensare e pianificare ogni sua mossa all’interno di simili confini, quasi a dimostrazione che sì, possiamo affermare senz’altro l’esistenza e la veridicità di tale interrogativo. Tutto, in questa storia di passione e sentimento a tre protagonisti (due uomini ed una donna), sembra infatti soltanto una variazione su un tema, l’ennesima incarnazione di una storia già vista tante altre volte. Pertanto, come avviene con i migliori film di genere, appunto, diventa importante e quanto più essenziale l’approccio che un determinato film-maker o, spesso, un vero e proprio autore adotta nei confronti di una parabola o di un intreccio sempiterni.
Allora, nella scrittura prima (insieme al sodale Mauricio Zacharias), e successivamente nella messa in scena della burrascosa storia d’amore di Tomas, un puntiglioso, sfrontato ed arrogante regista tedesco, e Martin, un fragile tipografo inglese, messa in discussione dall’incontro e dall’irresistibile liason del primo con Agathe, una giovane insegnante parigina; Sachs sceglie di concentrarsi sul ritratto impressionista ed apparentemente complesso proprio del fedifrago, di un uomo di potere che ama avere gli altri, così come la sua vita sotto controllo, con una padronanza ed un’autorità che, tutt’a tratto, perde in nome di un’infatuazione accidentale ed imprevista.
Ma è e diventa anche un film, Passages, sull’esplorazione, manco a dirlo, delle transizioni, dei passages, degli stati esistenziali che Tomas è chiamato inconsciamente, impetuosamente ad attraversare e ad affrontare, a cui egli è costretto a sottoporsi, per esaudire e soddisfare un egocentrismo prorompente. A tal punto che Sachs lo instilla e affida ad ogni cosa che riguarda il personaggio interpretato da un mai così detestabile Franz Rogowski: dai gesti alle espressioni del viso, passando per la dizione di certe battute, la prossemica, il modo in cui sta in scena, fino ad arrivare al vestiario; con la stessa cura che quest’ultimo (forse una proiezione involontaria di sé o magari del sé artistico?) dimostra e ripone nel suo lavoro.
È essenzialmente questo ciò in cui consiste il lavoro del cineasta statunitense: muoversi nei confini sicuri e confortevoli di un cinema festivaliero e prevalentemente drammatico, e quivi lasciar srotolare un intreccio che, passati i primi venti minuti, perde una verve inizialmente seducente ed appassionante, sviluppandosi sì senza patetismi melodrammatici, ma con qualche punta di pietismo, in maniera programmatica e proverbiale, e più per coerenza che per altro; al fine di dar forma al perfetto habitat, al palcoscenico eccellente per qualche idea registica e soluzione visiva interessante, e permettere ad un trio di interpreti di sprigionare il proprio talento.
Ci si deve quindi un po’ accontentare di un’inquadratura che sintetizza nella maniera dei maestri - con un uso saggio e sottile della prospettiva e del punto macchina - il tema di base del copione, ovvero facendo coincidere l’egotismo di Tomas nel racconto della sua nuova esperienza sessuale con una nostra impossibilità di vedere le reazioni del partner. Oppure farsi lusingare dalla passione e dal trasporto, oltre che del già citato Rogowski, di un Ben Whishaw prodigioso nel riuscire a dar vita e personalità ad un personaggio di fatto esile ed inconsistente già dal soggetto, e di una Adèle Exarchopoulos (meglio conosciuta per il suo ruolo da protagonista nel seminale La vita di Adèle, qui inevitabilmente omaggiato) che sa farsi ricordare pure in un ruolo stringatissimo e in un racconto concettualmente inibito e fin troppo disteso come questo. Tutti e tre sono parte imprescindibile e vitale di alcune sequenze di sesso da antologia - in particolare, una notevole con protagonisti Tomas e Martin, tra le più “vere” viste negli ultimi anni sul grande e piccolo schermo.
Ha ragione senz’altro Pier Maria Bocchi quando scrive che Passages non può che essere un film banale in tutto e per tutto, poiché racconta una singolarità, una pulsione e una-barra-tre vite banalissime. “La banalità di un amore. La banalità del tradimento. La banalità del ritorno, del perdono, della tentazione, del distacco, del rifiuto, persino dell’odio. Della fine”. Tutto estremamente coerente e sensato, ma è davvero abbastanza?
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